Skip to content


Caltanissetta

La Sicilia come rovina. Questo accade di pensare di fronte alle imponenti e incompiute strutture e forme del Palazzo Moncada (o Bauffremont) di Caltanissetta (immagine di apertura). Un edificio seicentesco che rammenta la grandezza passata e la miseria presente dei Trao di Mastro-don Gesualdo. L’intera città posta al centro dell’Isola ricorda la ricchezza ottocentesca frutto delle miniere di zolfo e la modestia di un presente agricolo e terziario che ha prodotto i quartieri nuovi fatti di edifici francamente brutti e il progressivo abbandono di un centro storico elegante nelle sue strade risorgimentali e vibrante nelle chiese barocche di Santa Maria la Nuova, la cattedrale intessuta degli affreschi di Guglielmo Borremans (1720) e dei dipinti di Vincenzo Roggeri, dedicati a santi e martiri;

nelle chiese di Sant’Agata, a croce greca e parte del Collegio dei Gesuiti ora sede della Biblioteca pubblica; di San Domenico, edificio della fine del Quattrocento con una dinamica facciata curveggiante e che necessiterebbe di restauri; di Santa Maria degli Angeli, edificio che invece è in restauro e che è parte di un ampio convento che sta vicino ai resti del Castello di Pietrarossa. Da questa parte della città ben si osserva il complesso urbano anche nei suoi disordinati sviluppi.
Come accennavo, il centro storico è di fatto abbandonato, con molti negozi e attività chiuse (un chiaro regalo della vicenda Covid, come accade in tante altre città europee e specialmente italiane), tanto che non siamo riusciti a trovare un ristorante di domenica a pranzo. In mancanza d’altro abbiamo gustato un gelato in un bar, i cui gestori ci hanno detto che stavano per chiudere e che di sera il nucleo antico di Caltanissetta è frequentato e abitato da cittadini africani e asiatici, che infatti abbiamo visto numerosi mentre, dopo le messe della domenica mattina, i nisseni sembravano di colpo spariti. L’impressione di trovarsi in una città del Nord Africa è stata assai netta e francamente malinconica. La sostituzione etnica, della quale parlano alcuni sociologi, in questa zona apparentemente periferica della Sicilia è in uno stato assai avanzato. La Sicilia come metafora dell’Europa, della sua rovina.

Pura gioia

Johan Sebastian Bach
Concerto Brandeburghese n. 1 in Fa Maggiore BWV 1046 – III movimento: Allegro
Jordi Savall – Le Concert des Nations

 

 

Ancora Bach, sì, ancora i Concerti Brandeburghesi. È a essi che si torna, sono essi che si ascoltano quando la mente vuole attingere la pura gioia dell’esserci, una gioia non umana ma composta dalla luce delle stelle, dalla densità di un canto d’altri luoghi, da una potenza che nulla può contaminare.
Bach è il dolore più profondo delle Passioni, è la melanconia degli adagi ma è soprattutto la redenzione, sì, la redenzione. Il terzo movimento – Allegro – del Concerto n. 1 in Fa Maggiore è diretto da Jordi Savall con l’orchestra «Le Concert des Nations». La pienezza sonora dei corni intesse l’intera partitura rendendola calda, allegra, trionfante.
La dimensione teologica dell’opera di Bach si esprime per lo più nelle forme cristiane delle Passioni e delle Cantate. Nei Concerti invece, e soprattutto nei Brandeburghesi, essa si libera dalla cupezza e dal dolore e diventa una teologia pagana, platonica. Questa musica credo possa infatti essere accostata alle parole conclusive delle Enneadi di Plotino:

«Καὶ οὗτος θεῶν καὶ ἀνθρώπων θείων καὶ εὐδαιμόνων βίος, ἀπαλλαγὴ τῶν ἄλλων τῶν τῆιδε, βίος ἀνήδονος τῶν τῆιδε, φυγὴ μόνου πρὸς μόνον.
Questa è la vita degli dèi e degli uomini divini e felici: distacco da ciò che di miserabile ci circonda, vita che non si compiace più delle cose che soltanto vede, fuga di solo a solo» (VI, 9, 11).

e a quelle con le quali Proclo descrive la natura divina:

«Dunque tale è l’immutabilità degli dèi, che consiste nella autosufficienza (αὐτάρκεια), nella impassibilità (πάθεια) e nella identità (ταὐτότης
(Teologia Platonica, libro I, cap. 20,94. 10-11, a cura di Michele Abbate, Bompiani 2019,  p. 137).

Napoli, Il Barocco

Velázquez. ‘Un segno grandioso
Gallerie d’Italia – Napoli
Sino al 14 luglio 2024

La sede partenopea delle Gallerie d’Italia raccoglie e documenta alcuni momenti fondamentali della vicenda artistica napoletana dal Seicento alla fine del XIX secolo. Scorrono nelle sale lo splendore del Pieno barocco nella molteplicità delle sue espressioni; scorrono paesaggi vesuviani molto belli; scorrono scene di vita cittadina che raffigurano i diversi ceti sociali che a Napoli hanno sempre convissuto in reciproco legame; scorrono dipinti e sculture dei maggiori artisti che in questa città sono nati o che in essa hanno trovato casa, ispirazione e luce.

Vincenzo Franceschini, Paesaggio col Vesuvio, 1862

La presenza di Caravaggio è naturalmente pervasiva e trasforma le ombre in luminosità dirompente e la luce in una potenza oscura. E soprattutto emergono l’architettura urbana, le colline e il mare, come in questa assai bella raffigurazione di Chiaia di Gaspar Adriaensz van Wittel.

Gaspar Adriaensz van Wittel, Chiaia, 1700-1710

Il Barocco è anche questa potenza di irradiazione dello spazio.
Nelle sale destinate alle mostre temporanee sono ospitati due dipinti del giovane Velázquez, che ritraggono un trionfo della Madonna e l’apostolo Giovanni che a Patmos descrive tale trionfo. Le due figure sembrano scolpite, tanto sono nette e insieme sinuose, dominanti lo spazio e rivolte non a una superflua trascendenza ma alla gloria dell’immanenza. Anche questa gloria e il Barocco.
Nei pressi della sede delle Gallerie c’è una chiesa che sin dalla sua porta conferma il gioco di tormento e di potenza che è il Barocco napoletano.

Napoli, ingresso chiesa di Nostra Signora dei Sette Dolori

El Greco

Nel labirinto di El Greco
Palazzo Reale – Milano
A cura di Juan Antonio Garcìa Castro, Palma Martìnez-Burgos Garcìa, Thomas Clement Salomon, Mila Ortiz
Sino all’11 febbraio 2024

Doménikos Theotokópoulos (1541-1614) giunge da Creta (la veneziana Candia) a Toledo, città d’elezione continuamente raffigurata nelle sue opere (la si vede nei particolari della Crocifissione – immagine di apertura – e del Laocoonte, in basso), dopo aver attraversato la grande pittura italiana del Rinascimento, da lui conosciuta, ammirata, praticata a Venezia e a Roma. Nella sua isola aveva cominciato come pittore di icone sacre. E sacra sempre rimane la sua arte. Da Tintoretto (presente in questa mostra) sugge il rosso, l’azzurro, il viola, il giallo, l’inquietudine, la distanza. Da Michelangelo apprende i corpi, l’anatomia, la densità dello spazio. Da tutti assorbe e ricrea una luce turchese, intima, intensa, metallica, cosmica.
I suoi segni e i suoi volumi disegnano lo spirito più profondo del suo tempo, di una Controriforma che del cattolicesimo fu vittoria e fasto. Nulla di questa potenza, di questa bellezza, accade nel luteranesimo e nel calvinismo, la cui miseria iconica è gemella della modestia esistenziale.
«Dentro da sé, del suo colore stesso» (Dante, Paradiso, XXXIII, 130), i suoi quadri vanno oltre il tempo che pure testimoniano in modo totale, diventano espressionismo, si fanno un’ontologia lacerata e inevitabile dalla quale molto hanno appreso nel Novecento Francis Bacon e numerosi altri artisti.
I ritratti del Greco sono sculture della vita e della morte, dell’energia che va, che si dissipa.  La forza del Greco, il suo tratto, sono inediti e sconcertanti. Testimoniano e si dirigono verso un trionfo delle forme che è l’inquietante consapevolezza di un segreto che non è possibile cogliere qui e ora.
La mostra milanese, essenziale e bella, permette di vedere e toccare quadri come l’Espolio, l’Incoronazione della Vergine, la Cacciata dei mercanti dal Tempio, il Laocoonte,. Opere nelle quali la violenza e la grazia, il trascendente e la terra si toccano.
Una fusione della materia corporale, delle rocce, della gloria.

El Greco, Laocoonte, particolare

Vicoli e capitali

Ci sono dei luoghi che rappresentano una sintesi, un’epitome, un simbolo, un’antologia.
Il complesso di chiese, chiostri e monastero di Sant’Anna dei Lombardi a Napoli è uno di questi luoghi. L’ho visitato in occasione della presentazione di Chronos alla Federico II. Vi sono arrivato attraversando i vicoli e le piazze (vivacissima Piazza Dante) dei Quartieri Spagnoli, vero cuore della città, antico e del tutto contemporaneo. Li abita un’umanità variegata, dal linguaggio e dai costumi immutati nei secoli; un’umanità creativa e teppista, che lascia le automobili negli angoli più impensati, compreso il centro delle strade; un’umanità rassegnata e vibrante.
Su una piccola altura preceduta da una fontana, Monteoliveto, sta una chiesa che è quanto rimane di un antico monastero dei monaci olivetani. La facciata è sobriamente rinascimentale, l’interno coniuga il Rinascimento con il proliferare del Barocco, con il suo tripudio di forme, colori, ornamenti, putti, folle, estasi.
Il tesoro di questo luogo è la Sagrestia affrescata da Giorgio Vasari nel 1544-1545. In basso le tarsie lignee di Giovanni da Verona, in alto una vera e propria cosmologia che raffigura le costellazioni, le virtù e gli archetipi della Religione, dell’Eternità e della Fede [immagine di apertura].
La Sagrestia è preceduta da una cappella con l’insieme di terracotta del Compianto del Cristo morto scolpito da Guido Mazzoni nel 1492. Le statue a grandezza naturale esprimono la forza del dolore umano, la disperazione dell’irreparabile, l’amore e il rimpianto per chi più non è, una vera e propria lacerazione dell’esserci.


L’insieme dei luoghi, delle cappelle, delle opere di Monteoliveto conferma il dato antropologico della inseparabilità di mito, bellezza e tragedia che intrama tutte le forme religiose autentiche, di qualunque luogo e civiltà. Il cattolicesimo rappresenta uno degli esempi più compiuti di questo plesso di significati e di vita, una ricchezza che deve alla sua continuità con la civiltà del paganesimo mediterraneo. Osservata da questa prospettiva, la Riforma luterano-calvinista non è neppure una religione ma è un’ideologia politico-moralistica. Persino l’Islam, nonostante il divieto di raffigurare forme umane e animali, ha trovato la strada di espressioni artistiche che non descrivono persone ma costruiscono geometrie di grande eleganza. Nulla di tutto questo nell’ebraismo, che è figurativamente miserrimo e con il quale il cristianesimo riformato volle porsi in continuità nonostante l’accesso antisemitismo di Martin Lutero.
Ancora una volta e a ogni viaggio Napoli si conferma una città dalla scoperta infinita, città potente, viva e dai connotati antropologici che ne fanno la vera capitale d’Italia. 

Noto, il Barocco, i palazzi

Il Barocco è Noto
Convitto delle Arti – Noto
A cura di Paola Bergna e Alberto Bianda
Sino al 29 ottobre 2023

Sale della mostra

Le ombre, i corpi che da esse emergono, il rosso e lo scuro, le forme circolari ed ellittiche, gli spazi densi di oggetti, le nature morte, gli strumenti musicali, i santi, i teschi, il desiderio, l’amore, gli sguardi, la luce.
Questi alcuni degli elementi del Barocco, pervasivi e presenti anche a Noto, nelle tre sale del Convitto delle Arti che ospitano una sola tela di Caravaggio – la Maddalena in estasi – e poi opere di italiani (Luca Giordano, Guido Reni, Mattia Preti, Guercino, Bernini, Pietro da Cortona), spagnoli (Jusepe de Ribera, lo Spagnoletto), nordici (Rubens, van Dyck, Rombouts [è suo il Suonatore di Liuto dell’immagine di apertura]). Da queste opere spira come una potenza, la forza della vita che vuole essere felice nel preciso senso che vuole trovare un significato a se stessa, qualunque senso purché ci sia; forza unita al dramma dell’esistenza che una volta nata precipita ogni giorno verso il suo finire. Questa tensione, irrisolvibile se non nel nulla, crea l’enigma barocco, il suo fascino e la sua inquietudine nella pittura e in tutte le arti, scultura, musica, teatro, poesia, architettura. 

HP del sito del Palazzo del Castelluccio

Uscendo dalla mostra questa felicità e tale inquietudine diventano il «giardino di pietra» del quale parlava Cesare Brandi, diventano Noto, la città, i suoi palazzi, le chiese, le piazze, i teatri, i monumenti. Troppo noti e troppo belli per parlarne ancora qui.
Ma c’è un luogo che non è ancora così celebre e che invece è splendido: il Palazzo Di Lorenzo del Castelluccio edificato per una potente famiglia nel 1782, mantenuto sino alla morte dell’ultimo marchese, Corrado Di Lorenzo, avvenuta nel 1981, donato all’Ordine dei Cavalieri di Malta, istituzione religioso-militare assai ricca ma che lo ha lasciato nel più completo degrado. Dopo trent’anni, nel 2011, un francese, Jean Louis Remilleux, lo ha acquistato, restaurato, reso visitabile in quasi tutti i suoi ambienti: il piano nobile con la sua infilata di saloni, salotti, studioli, camere da letto, biblioteche; la piccola ma eloquente scuderia che poteva ospitare sino a otto cavalli in quattro spazi; le cucine al piano basso, buie e ricche di stanze, dove la servitù consumava i suoi pasti. E poi l’armonioso cortile e al di sopra un terrazzo che induce a sedersi, rimanere, studiare, godere come da una finestra il cielo turchese e le nuvole che sovrastano la città. Remilleux e i suoi architetti hanno conservato quanto più possibile gli ambienti, le pareti, i pavimenti di ceramica; hanno riempito le stanze di quadri, poltrone, tavoli, una panoplia di testimonianze di cultura materiale. E soprattutto e tramite tutto questo si ha la sensazione di attraversare un luogo reale non un museo, un luogo vissuto non un’icona, un luogo rispettato e amato da chi lo abita. Il palazzo è infatti la dimora quotidiana di Jean Louis Remilleux.
I secoli sembrano convergere, il tempo diventare un vortice, altra costitutiva metafora barocca. E infatti la mostra al Convitto delle Arti non si compone soltanto di opere e artisti del Seicento. La accompagnano le sculture di Giuseppe Agnello (1962) che tentano di coniugare l’umano e la Terra con una serie di figure antropomorfe impastate di alabastro, sale, gesso. Il titolo è Terra e cielo tra uomo e natura. Un terzo spazio espositivo si chiama Pop Garden ed è un’immersione negli anni Settanta con fiori, specchi, ridondanze, musiche di quel tempo, riflessi.

Il barocco risiede dunque nelle cose; come afferma Carlo Emilio Gadda, «barocco è il mondo, e il G.[adda] ne ha percepito e ritratto la baroccaggine» (La cognizione del dolore, Garzanti 1994 , p. 198).
In via Matteo Raeli, vicino a piazza XVI maggio e alla cosiddetta Villa d’Ercole, c’è una gelateria che si chiama L’artigianale. Gustare i gelati di Stefano Baglieri significa capire con i sensi (il gusto ma anche la vista) perché mai i dolci, alcuni dolci, sprigionino un sorriso. Un altro elemento della sensualità barocca.

Noto – il Municipio

 

 

Scicli

Si incuneano ovunque le città e i borghi di Sicilia. Tre colline rocciose tra la costa e gli Iblei circondano e dominano un piccolo tratto quasi pianeggiante. Qui dopo il terremoto del 1693 venne riedificata l’antica Scicli, oggetto di contesa tra normanni e saraceni. La ricostruzione fu barocca. Uno spendente barocco che si dirama nelle strade fatte d’oro, nei palazzi dalle facciate rinascimentali, nelle chiese, tante chiese, che scandiscono la loro musica di pietra nello spazio.
Tra queste San Bartolomeo, incastonata tra due burroni che la fanno apparire come un miracolo d’architettura in mezzo a dei macigni. Dentro questa chiesa – risparmiata dal terremoto – un presepe del 1573 che ha perso molti dei suoi personaggi ma che conserva una vita che si direbbe magica, animistica. Poco distante San Guglielmo in Sant’Ignazio, dove una Madonna guerriera calpesta su un cavallo i saraceni; chiara riproposizione delle dee mediterranee della guerra.

 

Tra i palazzi, da poco restaurato il Palazzo Bonelli Patanè che al nome degli antichi signori dell’Otto e Novecento aggiunge quello dell’acquirente che lo ha restituito allo splendore della facciata rinascimentale,  del giardino interno aperto a un cielo di cobalto, delle otto sale del piano nobile che si susseguono, come d’uso, senza corridoi e che si strutturano in una particolare mescolanza di tradizione e di Novecento, con mitologiche scene rococò nei soffitti e con un mobilio che accomuna la densità di tavoli rinascimentali, i salotti stile Impero, i bellissimi oggetti liberty, in particolare una lampada.
Di fronte a questo palazzo l’antica Farmacia Cartia, diventata museo di se stessa, dove l’intelligenza e l’amore per il mestiere hanno permesso di conservare, dentro solidi mobili di legno scuro Douglas, ampolle, siringhe, veleni, bilancini di precisione, testimonianza di un’epoca in cui i farmacisti erano dei medici, dei chimici e non dei commessi di supermercato quali sono diventati. La Farmacia conserva anche un registratore di cassa degli anni Cinquanta e, nello specchio dietro il bancone, la figura di Igea, dea della salute.
Via Nazionale congiunge la strada dove si trovano palazzo e farmacia – via Mormino Penna – a piazza Busacca e alla chiesa del complesso del Carmine che in un’unica navata concentra tutta la ricchezza tipica delle chiese barocche. Il centro storico di Scicli si squaderna dunque in un’area non troppo estesa. Le sue discese e le sue salite sono clementi e permettono di gustarla a piedi, di perdersi tra i suoi vicoli ma di ritrovarsi facilmente. In ogni caso di avere sempre davanti agli occhi una bellezza che va oltre i suoi monumenti.
Il mare non è lontano da Scicli, come non lo sono Modica e Ragusa. Vicino e dentro la città è la bellezza, è quel «luxe, calme et volupté» (Baudelaire) che nei più ricchi tra i luoghi siciliani coniuga sempre la malinconia della morte e il vibrare dentro essa del καιρός.

Vai alla barra degli strumenti