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Epicuro / La materia

Epicuro
Lettere sulla felicità, sul cielo e sulla fisica
Prefazione di Francesco Adorno
Introduzione, traduzione e note di Nicoletta Russello
Rizzoli, 2021
Pagine 197

Lettera a Erodoto (sulla fisica): §§ 35-83
Lettera a Pitocle (sull’astronomia/cielo): §§ 84-116
Lettera a Meneceo (sull’etica/felicità): §§ 122-135

La materia è tutto, la materia è al centro di tutto, la materia è la fonte di ogni altra espressione del mondo. E dunque l’ambito che studia la materia – la Fisica – è il sapere fondamentale, dal quale gli altri ricevono chiarimento e senso. Anche per questo delle tre lettere nelle quali Epicuro (341-270) riassunse il proprio pensare, il testo chiave è la Lettera a Erodoto, nella quale il filosofo fornisce anche alcune indicazioni di metodo che sono preziose per affrontare qualsiasi tema.

La prima indicazione va la di là della contrapposizione tra induzione e deduzione, in quanto «si dedurrà una puntuale conoscenza dei dettagli, se lo schema generale della teoria è stato ben compreso e fatto proprio dalla memoria» (§ 36, p. 69), se dunque ogni osservazione fisica è resa sensata e feconda da una prospettiva metafisica generale che non si limiti a osservare ma che osservi comprendendo, cercando di articolare il più ampio quadro epistemologico e materico nel quale qualunque osservazione empirica prende avvio, accade, perviene a dei risultati di natura generale.
L’osservazione metafisico-fisica del mondo ci dà le informazioni essenziali su di esso, prima delle quali è la sua infinità nello spazio e nel tempo: «Non c’è dubbio che il tutto è infinito [το πάν άπειρον εστί]» (§ 41; p. 73).
L’intero si compone di mondi infiniti che mai hanno avuto nascita e mai avranno fine poiché «nulla ha origine da ciò che non è […] E se ciò che perisce si annientasse in ciò che non è, tutto sarebbe ormai distrutto, perché ciò in cui si è dissolto sarebbe non esistente» (§§ 38-39, p. 71).
La materia, il tutto – τὸ πᾶν – si compone di corpi/enti e di spazi locali nei quali tali corpi si muovono: σῶματα καὶ κενόν (§ 39; p. 73).
Il risultato è che termini come ‘vuoto’ e ‘nulla’ sono delle semplici parole di confine, le quali indicano la pura astrazione negativa del concetto rispetto alla pienezza eternovunque che il mondo è.
Esigenza logica e ontologica è dunque che nella divisibilità dei corpi non si possa arrivare alla loro dissoluzione nel niente e per questo è necessario postulare un confine ultimo della differenza che sono gli ἄτομα, le componenti prime e indivisibili della materia. Gli aggregati di atomi si compongono e si dissolvono ma le loro parti costitutive prime e indivisibili rimangono eterne. Le tre caratteristiche intrinseche alla struttura atomica sono σχήματος, la forma; βάρους, il peso assoluto, non relativo ad altri corpi, vale a dire la massa; μεγέθους, la grandezza.
Il corpomente umano è composto anch’esso di tali elementi. La ψυχή è l’energia della materia diffusa in tutto l’organismo e capace di vivere sino a che l’organismo rimane unitario e composto. Quando si dissolve, con esso si separa ogni altra struttura di identità del corpomente, tornando σῶμα e ψυχή al tutto indistinto dal quale si formeranno altri aggregati, «non è infatti possibile pensare che l’anima sia senziente  fuori da questo complesso di anima e corpo» (§ 66, p. 97). 

L’impersonalità della materia – sostenuta contro il Timeo e gli Stoici – costituisce uno degli elementi centrali di continuità tra la fisica e ciò che chiamiamo etica. La materia e gli dèi, che sono la stessa cosa, sono infatti del tutto impersonali, privi di passioni, impossibilitati ad agire per favorire o per danneggiare i loro composti: «In una natura incorruttibile e beata non può esistere nulla che possa provocare conflitto o turbamento; μη είναι εν άφθάρτω και μακαριά φύσει των διάκριση/ ύποβαλλόντων ή τάραχον μηθέ» (§ 78, p. 107). Proprio questa indifferenza è parte fondamentale dell’essere ‘immortale e beato’ αφθαρτον και μακάριον, che è la vera natura del divino (§ 123; p. 143).
La consapevolezza che tale è la struttura del mondo ci libera dalla paure più grandi, da quei terrori che avvelenano l’esistenza, come il terrore della volontà divina e della morte. Anche lo studio dei cieli, l’astronomia, serve a conseguire tale e tanta serenità. Infatti «nella conoscenza dei fenomeni celesti, connessa ad altre dottrine o fine a se stessa, non vi [è] altro scopo che il conseguimento di imperturbabilità [άταραξίαν] e solide convinzioni, proprio come nelle altre ricerche» (§ 85; p.113).
La serenità è uno dei frutti di tutto questo. Una serenità che conduce a gustare quanto la vita offre di bello, a godere dei piaceri ma – condizione fondamentale – senza essere subordinati ai desideri. La felicità umana coincide piuttosto anche con la libertà dai desideri, oltre che con la libertà dai timori. Epicuro afferma anzi che «l’indipendenza dai desideri sia il bene più grande; Και την αύτάρκειαν δε αγαθόν μέγα νομίζομεν» (§ 130; p. 149). Evidentemente errate, per non dire insensate, sono dunque le interpretazioni dell’etica epicurea come un atteggiamento di abbandono a ogni e qualsiasi forma del piacere, quando invece è la φρόνησις – la saggezza, la prudenza, la misura – a caratterizzarla, è il «non aver dolore nel corpo né turbamento nell’anima; αλλά το μήτε άλγεΐν κατά σώμα μήτε ταράττεσθαι κατά ψυχή» (§ 131; p. 151).

La felicità della persona/filosofo è pari alla beatitudine degli dèi, è pari alla forza della materia stessa. Sarà dunque possibile vivere «come un dio fra gli uomini: perché in nulla è simile a un mortale un uomo che viva fra beni immortali; ζήσεις δε ως θεός εν άνθρώποις. ούθέν γαρ ἕοικε θνητψ ζώω ζων άνθρωπος εν άθανάτοις άγαθοΐς (§ 135; p. 155).
Così si chiude la lettera di argomento etico a Meneceo, fondata – come abbiamo visto – su quelle dedicate alla fisica e all’astronomia. Poiché la materia è tutto, la materia è al centro di tutto, la materia è la fonte di ogni altra espressione del mondo.

[Esattamente 424 anni fa, il 17 febbraio del 1600, veniva arso vivo dall’Inquisizione cattolica un altro filosofo che aveva posto al centro dell’ontologia e dell’etica la materia cosmica, Giordano Bruno. In tempi nei quali le inquisizioni politicamente corrette stanno drammaticamente restringendo le libertà di pensiero e di espressione, ricordo i due Dialoghi (entrambi del 1584) nei quali la riflessione bruniana coniuga in modo come sempre complesso e splendido la questione della materia e la necessità della libera parola: De l’infinito, universo e mondi  ;  De la causa, principio e uno ]

Cosmologia

Cosmologie
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
6 gennaio 2024
pagine 1-4

Insieme alla matematica, l’astronomia fu l’ambito dentro il quale ebbe inizio il sapere filosofico, il suo metodo, in Grecia e ancor prima della Grecia. A partire da un recente libro dell’astronomo Paul Murdin (The Universe: A Biography) ho cercato in questo articolo di presentare e riassumere alcune delle questioni centrali dell’astrofisica del XXI secolo, tra le quali: l’Universo inflazionario; il Multiverso; la  “costante di Hubble” (in verità piuttosto incostante); la relazione che intercorre tra il clima sul nostro pianeta, la struttura del Sole e la dinamica cosmica; l’origine e il destino della Terra anche sul fondamento della termodinamica; l’insignificanza della ‘vita’ e la natura del tempo. Ovviamente l’ho fatto solo per brevi accenni, anche perché l’intera mia riflessione costituisce un tentativo di pensare questi temi, tanto coinvolgenti quanto fondamentali. In questo testo ho cercato almeno di indicarli.

[L’immagine è tratta dal libro di Murdin e rappresenta il modo in cui tra 2 miliardi di anni si vedranno dalla Terra la Via Lattea, cioè la nostra galassia, e la galassia di Andromeda (M31 / NGC 224), la più vicina a noi (dista 2,538 milioni di anni luce). Andromeda è visibile anche a occhio nudo (guardando verso nord-est) nelle notti serene e in assenza di inquinamento luminoso. Con l’ausilio di un telescopio o di un binocolo è una vista spettacolare. Come si può notare dall’immagine, Andromeda si avvicinerà sempre più alla Via Lattea, sino a fondersi con essa]

Biologia e astrofisica

Evoluzionismo e cosmologia 
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
anno VIII, n. 14, dicembre 2023 – «Maestri per il XXI secolo»
pagine 195-216

Indice
-La vita
-Consilience
-Evoluzionismo
-Biologia
-Astronomia
-Astrofisica
-Un grande scoppio?
-Invarianza/Relatività

Abstract
The dangerous and self-destructive tendency of contemporary sciences to turn into their opposite, i.e. dogmatic structures, is tempered by the research and results of many scholars who instead remain consistent with the critical and ever-open spirit that of the sciences, as of philosophy, constitutes the true mark and fertile treasure. The extensive work that Marco De Paoli has devoted to two fundamental sciences such as astronomy and modern and contemporary biology is one such antidote to the poison of dogma. In this essay the author will attempt to discuss, also critically, the results of such research, relating them to ethology as far as evolutionism is concerned, and to quantum physics as far as cosmology is concerned.

La pericolosa e autodistruttiva tendenza delle scienze contemporanee a trasformarsi nel loro contrario, vale a dire in strutture dogmatiche, è temperata dalle ricerche e dai risultati di molti studiosi che rimangono invece coerenti con lo spirito critico e sempre aperto che delle scienze, come della filosofia, costituisce la vera cifra e il fecondo tesoro. L’ampio lavoro che Marco De Paoli ha dedicato a due scienze fondamentali come l’astronomia e la biologia moderna e contemporanea è uno di tali antidoti al veleno del dogma. In questo saggio cercherò di discutere, anche criticamente, i risultati di tali ricerche, ponendole in relazione con l’etologia – per quanto riguarda l’evoluzionismo – e con la fisica dei quanti, per ciò che concerne la cosmologia.

[La fotografia raffigura l’ammasso globulare Omega-Centauri (NGC5139)]

Umani e alieni

Asteroid City
di Wes Anderson
USA, 2023
Con: Jason Schwartzman (Augie Steenbeck), Scarlett Johansson (Midge Campbell),  Jake Ryan (Woodrow), Tom Hamks (Stanley Zak), Edward Norton (Conrad Earp), Maya Hawke (II) (June)
Trailer del film

I colori accesi di Grand Budapest Hotel diventano quelli di un cartone animato. E questo consapevolmente. L’autore del testo teatrale, intorno al quale il film ruota, compare all’inizio del film, riappare nei suoi momenti chiave e dichiara in modo esplicito che le luci dovranno essere intense, come calate dall’alto e «spietate». Non solo le luci. I costumi sono sempre perfetti e puliti (anche quelli del meccanico e dei soldati). Gli ambienti sono coloratissimi e geometrici. Il cielo sempre azzurro, il deserto sempre giallo e senza vento che alzi la sabbia, i cactus sempre uguali, i bambini sempre lindi, l’alieno che per due volte scende dalla sua astronave nel bel mezzo di un antico cratere (dal quale il luogo prende nome) è esattamente come ci aspetteremmo un alieno.
Tutto quindi appare per quello che il cinema è: finzione, pura, sognante, inquietante finzione. Che si moltiplica nel dispositivo pirandelliano del film: nella prima scena un narratore racconta di Conrad Earp, che appare mentre sta scrivendo il testo teatrale che poi intitolerà Asteroid City; Earp immagina anche quali attori potranno incarnare i personaggi che sta inventando; questi personaggi cominciano ad apparire e a entrare in scena negli studi teatrali dove la pièce viene messa in scena. Prima che tutto cominci, Earp comunica la scansione del testo teatrale e dunque del film che racconta la messa in scena del testo stesso. Scansione classica in tre atti e con al loro interno varie scene. Dei cartelli segnalano allo spettatore in quale atto e scena ci troviamo. E poi comincia il film, nel quale si alterano il testo recitato, gli attori che commentano il testo che stanno recitando, l’autore che interagisce con gli attori, il narratore che racconta tutto questo.
Abbastanza confuso, vero? E invece no. Il film fluisce come una favola che racconta di fotografi di guerra vedovi, di attrici bellissime e fatali, della moglie defunta del fotografo le cui ceneri vengono provvisoriamente seppellite sotto un anonimo cactus, delle tre figlie del fotografo che si credono streghe e cercano di resuscitare la madre, del quarto figlio – il maggiore – che è uno dei ragazzi geniali premiati durante il raduno di giovani astrofili che è l’occasione del film, degli altri giovani intelligentissimi, di una classe di scuola elementare alla quale la maestra fa recitare delle preghiere prima di ogni lezione di astronomia, di generali e presidenti che mettono tutti in quarantena dopo lo sbarco di un alieno che ruba l’asteroide precipitato 5000 anni prima…e tanto altro. Tutto questo nel vuoto di un deserto che si riempie di memoria, di relazioni, di parole e poi si svuota di nuovo mentre dietro le quinte accadono altri fatti tutti comunque rigorosamente finti.
La tonalità grottesca e iperrealistica di Asteroid City fa emergere la ripetitività, il nuovo e la simulazione che le nostre vite ogni giorno sono. La loro immaginazione.

Cosmologia / Medea

Recensione a:
Aa. Vv.
Cosmos?
Numero 54 di Krisis, octobre 2022
Pagine 142
in il Pequod , anno IV, numero 7, giugno 2023, pagine 196-199

L’ipotesi dell’eternità della materia/universo è confermata dalle critiche sempre più diffuse e argomentate che va ricevendo il modello (ancora) standard del cosiddetto Big Bang, il quale delineerebbe una problematica singolarità, impossibile da comprendere e persino da studiare sulla base delle leggi conosciute e dei metodi di indagine scientifici. Il tentativo perseguito da più parti di unificare la relatività generale e la fisica quantistica ha tra le sue condizioni e conseguenze il superare questa singolarità, riaffermando «l’éternité du temps passé, éliminant ainsi la problématique notion théologique de ‘cause première’» (Luminet).
A fondamento delle cosmologie antiche sta l’ipotesi realistica fondamentale, quella che non fa dipendere l’esistenza e le modalità del cosmo dalle percezioni, azioni e calcoli di una sua infima e inconsistente parte: noi. Dismisura che invece sta a fondamento della interpretazione di Copenhagen della fisica quantistica. Davvero ogni idealismo così come «la pensée constructiviste s’est développée à partir du sophisme anthropocentriste (la proclamation de Protagoras selon laquelle ‘l’homme est la mesure de toutes choses’)» (Jure Georges Vujic).

In questo assai ricco numero del Pequod è stata pubblicata anche una analisi a più voci del mito di Medea e della sua messa in scena, con la regia di Federico Tiezzi, quest’anno a Siracusa. Ho avuto il piacere di scriverne insieme a Sarah Dierna, Marco Iuliano, Enrico Palma, Marcosebastiano Patanè:

La selvaggia passione: Medea 2023 a Siracusa
Pagine 177-184

«Medea si presenta intrisa da un afflato profondamente antinatalista. Alla maniera lucida, consapevole e ‘passiva’ – per usare la categoria di Lachmanová – dei Greci naturalmente. […] Nella tragedia l’antinatalismo traspare nei gesti e nelle parole di Giasone, della moglie, della Nutrice, del Pedagogo e del Coro ma trasuda insieme dalle sciagure stesse di cui i mortali sono vittime e facitori. […]
Così canta il Coro:

E affermo che tra i mortali/ coloro che non hanno mai fatto esperienza di figli/ e non ne hanno mai generati/ sono più felici di chi ne ha messi al mondo. / Chi è senza figli, poiché non ne ha esperienza, / non sa se sia gioia o tormento l’averne, / proprio perché non gli sono capitati, / e così sta alla larga da molte inquietudini. / Ma chi ha nella sua casa il dolce germoglio di figli, / costoro li vedo sfiancati dalle preoccupazioni per tutta la vita: / innanzitutto su come crescerli bene e come lasciare loro di che vivere. / Poi, non è sicuro se si diano tanta pena / per figli che non valgono nulla o per figli eccellenti. / E dirò anche di una sciagura che è la peggiore per tutti i mortali: / ammettiamo che abbiano di che vivere, e siano nel fiore della giovinezza, e siano eccellenti. / Ma se così decreta il destino, / ecco che arriva la Morte e si avvia giù nell’Ade, / trascinando via i loro corpi.
(vv. 1090-1111, trad. di Angelo Tonelli)

E allora ‘tre volte meglio stare in armi che partorire anche una volta sola’ (v. 251, trad.  Tonelli). Solo in Euripide capita di leggere con così tanta onestà la sciagura insita nell’atto del generare che non si lascia intenerire dalla tenera prole già venuta al mondo».

La recensione e l’articolo dedicato a Medea sembrano una conferma di quanto affermato da David Herbert Lawrence nel 1931 in Apocalypse, citato da Ernesto De Martino nel suo capolavoro sulle apocalissi culturali:
«Forse la più grande differenza tra noi e i pagani sta nella diversità di rapporti col cosmo. Per noi tutto è personale. Il panorama che possiamo contemplare e il cielo non servono che da delizioso sfondo per la nostra vita personale. Persino l’universo della scienza si riduce a noi a poco più che una mera estensione della nostra personalità. Per il pagano il paesaggio e lo sfondo personale erano dopo tutto indifferenti, ciò che era invece reale era il cosmo. L’uomo viveva nel cosmo, consapevole della maggior grandezza del cosmo nei suoi confronti. […] Il nostro sole è cosa assai diversa dal sole cosmico degli antichi, è qualcosa di molto più banale. Noi possiamo vedere ciò che chiamiamo sole, ma abbiamo perso per sempre Helios e ancor più il grande disco dei Caldei. […] Questa è la nostra principale tragedia. Che cos’è il nostro meschino amore per la natura – la natura cui ci si rivolge come a una persona – al paragone di quel sublime vivere-col-cosmo ed essere-onorati-dal-cosmo!»
(La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi 2019, pp. 379-380).

Cosmo

Giorgio De Santillana – Hertha Von Dechend
Il mulino di Amleto
Saggio sul mito e sulla struttura del tempo
(Hamlet’s Mill. An essay on myth and the frame of time, 1969-1993)
Edizione riveduta e ampliata
A cura di Alessandro Passi
Adelphi, 2003
Pagine 630

Ancora una volta Nietzsche sembra avere ragione: per comprendere la distanza e la differenza rispetto a noi degli antichi miti la filologia non basta e anzi diventa a volte un fattore di grave misconoscimento. La complessità, la stranezza, la strabordante ricchezza dei racconti diffusi negli angoli e nelle epoche più diverse del pianeta formano una complessità circolare, un vero e proprio labirinto (altra immagine mitica, non a caso). E tuttavia i miti più lontani e più diversi narrano tutti gli stessi eventi, pur coprendoli con una varietà intricatissima di nomi.
Sembra che tutto ebbe origine nel Vicino Oriente, «da quella zecca “protopitagorica” situata nella “mezzaluna fertile” che un tempo coniò il linguaggio tecnico e lo consegnò ai pitagorici» (p. 360). Fu per tale discendenza orfica e pitagorica che Platone – una sorta di vivente “stele di Rosetta” – «sapeva ancora parlare la lingua del mito arcaico» (25), poiché egli non inventò i suoi miti ma li raccolse ponendoli in un contesto teoretico che preserva il loro enigma ma che nello stesso tempo ne rafforza la potenza. Il Timeo è una delle testimonianze più evidenti di questo compito che Platone diede a se stesso, poiché è il luogo in cui convergono e si dipartono i fiumi del pensiero cosmologico.
E sta qui la chiave di volta di questo straordinario libro, pullulante di varchi aperti verso una comprensione meno banale del mondo di ieri e di quello di sempre: «ciò che è veramente mito non ha basi storiche, per allettante che sia questa riduzione […] Il mito è essenzialmente cosmologico» (75). Il pensiero arcaico è cosmologico dall’inizio alla fine e le forze profonde della storia affondano ancora e sempre nel mito. Ecco spiegato perché dal Valhöll nordico ai templi di Angkor, dalle tribù amerindie alla Polinesia, dalla Mesopotamia agli Aztechi, dall’Islanda alla Cina, ricorrono gli stessi racconti, i medesimi personaggi sotto nomi diversi, gli stessi numeri. Non per una improbabile diffusione o per una sorta di inconscio collettivo ma più semplicemente perché i racconti fanno tutti riferimento al cielo e a ciò che gli esseri umani delle antiche ere vedevano in esso.

E che cosa vedevano? Pur rifiutando facili scorciatoie che trovano «semplici denominatori comuni a cui ricondurre tutti questi elementi» (558), gli Autori sono convinti e dimostrano che l’origine della mitologia umana stia in un fenomeno astronomico preciso e sconcertante rispetto a ogni esigenza di ordine, costanza, permanenza: la precessione degli equinozi, lo spostamento del perno intorno al quale il cielo sembra girare; dislocazione dovuta alla inclinazione dell’asse terrestre e alla differenza quindi fra l’equatore celeste e l’eclittica, la fascia dentro la quale si muovono il Sole, i pianeti, le costellazioni dello Zodiaco. La terra, insomma, si comporta come una trottola, un immenso giroscopio che compie un’intera rivoluzione ogni 25.920 anni. Quando gli esseri umani si accorsero di questo movimento, e se ne accorsero assai presto, sembrò loro che fosse precisamente tale scardinamento la causa prima di ogni distruzione e di ogni male. La definizione platonica del Tempo come «immagine in movimento di ciò che è stabile ed eterno » sarebbe quindi un riferimento assai rigoroso a tale spostamento dell’asse del mondo, al movimento a Χ (l’iniziale di Χρόνος), prodotto dalla precessione, un movimento che per Platone e per i miti ai quali egli attinge «descrive le Generazioni del Tempo stesso, il simbolo ciclico dell’eternità: ciclo dopo ciclo, giù giù fino agli spostamenti più piccoli, appena percettibili» (176).
Uno degli espliciti presupposti del libro è che le menti preistoriche e arcaiche furono in grado di comprendere tutto questo, che le conoscenze astronomiche delle antiche civiltà furono assai avanzate, tenendo naturalmente conto dei mezzi a loro disposizione, che quindi si debba «spostare molto più indietro nel passato gli inizi del pensiero scientifico e dell’osservazione dei fenomeni naturali» (417) e che l’umanità sia il risultato di processi di lunghissima durata, di conoscenze stratificate e trasmesse con i mezzi più diversi, in un alternarsi di scoperte, dimenticanze e rinascenze. Il mito, pertanto, non sarebbe «né fantasia irresponsabile né materiale per grevi studi psicologici né altre cose simili. Il mito è qualcosa di “totalmente altro” e vuole essere esaminato con occhi ben aperti» (383). Solo a queste condizioni quel mondo perduto, l’eredità «che ci viene dai tempi più antichi e più lontani» potrà essere ancora trasmessa ai «figli dei nostri figli» (30).

La polemica verso ciò che viene definito “evoluzionismo volgare” è diretta e frontale. Una semplicistica e dogmatica fede nel “Progresso” si è unita all’adozione acritica di un principio biologico qual è l’evoluzione in un ambito che non gli appartiene, quello delle idee. Il risultato –paralizzante – è che gli studiosi «con magnifico zelo hanno estirpato da tutta la mitologia la dimensione temporale» (334), che invece costituisce per l’umanità arcaica l’unica dimensione dell’esistenza cosmica. Per i Cinesi bisogna essere signori del tempo per aspirare a diventare sovrani dello spazio, quel tempo che vive e si incarna – elemento totalmente fisico – nel movimento dei cieli, «è il Tempo, solo il Tempo, che trasforma i Titani, già sovrani dell’Età dell’Oro, in “operatori di iniquità”. Sarà l’idea di misura, dichiarata o implicita, a mostrare il delitto fondamentale di questi “peccatori”: l’aver oltrepassato o “trans-gredito” il grado preordinato, e ciò viene inteso alla lettera» (185) perché Μοίρα è uno dei 360 gradi della circonferenza, quello oltre il quale non bisogna mai andare.
Il Tempo cosmico è Necessità, Χρόνος è paredro di Ἀνάγκη ed entrambi cingono l’intero universo. Il Tempo cosmico – definito da Platone la «danza delle stelle» – è musica, è legge, è numero, il cui ordine totale conserva ogni cosa e al quale tutti gli enti – divini, umani, animali, vegetali, minerali – obbediscono. Il tempo platonico è ancora questo Tempo arcaico che coincide con l’universo e «come l’universo esso è circolare e definito […] e tale continua a essere per tutta l’antichità classica, che credeva non nel progresso bensì negli eterni ritorni» (395). Ma anche prima e dopo Platone la filosofia greca seppe che l’essenziale accade nei cieli.

Prima di Platone, Anassimandro – secondo quanto ci riferisce Cicerone – pensava che «nativos esse deos longis intervallis orientis occidentisque eosque innumerabiles esse mundos» (De natura deorum, I, 25; qui a p. 497), che gli dèi nascano in lunghi intervalli di nascita e di tramonto e che essi siano mondi innumerevoli.
Dopo Platone, Aristotele – il sobrio maestro – «era fiero di affermare come fatto noto che gli dèi erano originariamente astri, anche se successivamente la fantasia popolare aveva offuscato tale verità» (23), che altre divinità non si diano, che le forze risiedano «nel cielo stellato e tutte le storie, i personaggi, le avventure di cui narra la mitologia si concentrano su coloro che, fra gli astri, sono le potenze attive, i pianeti» (212).
L’enigmatico annuncio riferito da Plutarco della morte del grande Pan può essere letto, in questa chiave, come il coinvolgimento della stella Sirio, fino ad allora risparmiata, nel grande moto di precessione degli equinozi. Un altro cardine del mondo veniva, infatti, in questo modo afferrato dalle spire del Tempo che tutto stritola, che tutto macina nel mulino cosmico che il tempo appunto è, «seppure non già come un mulino moderno a rotazione continua, bensì come un mulino a movimento alternato, paragonabile a un trapano» (16), a qualcosa che va su e giù muovendosi di moto vorticoso; una figura, questa, atta a descrivere esattamente il moto precessionale degli equinozi.
Nel Timeo si dice che il Demiurgo non ha generato tutte le anime destinate a nascere ma ha posto il seme dell’umanità «che si moltiplica ed è macinato in farina impalpabile nel Mulino del Tempo» (357). A chi appartiene questo immenso Mulino cosmico? A un personaggio che si chiama Amlódi, che assume i nomi più diversi nelle mitologie dei differenti popoli ed ere ma che sempre rimane legato alla radice greca –aòmulon, amido, fecola-, all’attività del macinare attimi, giorni, anni, intere epoche. Il Demiurgo platonico è ancora un altro nome dell’Amlódi islandese, che diventa Amleto, principe del mare del Nord e «dei suoi immani frangenti che macinano in eterno gli scogli di granito» (45).
Il Mulino di Amleto è l’intero cosmo il quale dopo l’Età dell’Oro in cui il piano dell’equatore e quello dell’eclittica coincidevano nella stessa circonferenza, ha cominciato a separarsi macinando dentro la propria macchina inarrestabile ogni cosa che in esso, nell’essere, transiti. Anche per questo «Principio degli enti è l’infinito (l’energia/campo il suo divenire…). Da dove gli enti hanno origine, là hanno anche la dissoluzione in modo necessario: le cose sono tutte transeunti e subiscono l’una dall’altra la pena della fine, al sorgere dell’una l’altra deve infatti tramontare. E questo accade per la struttura stessa del Tempo» (Anassimandroin Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele, 24, 13 ]DK, B 1])
Del Tempo cosmico nel quale il tempo umano acquista senso, vita, distruzione, rinascita.

Sulla scienza

Paul K. Feyerabend
CONTRO IL METODO
Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza
(Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, 1975 by NBL)
Trad. di Libero Sosio
Prefazione di Giulio Giorello
Feltrinelli, 2021
Pagine 263

Contro il metodo è uno dei libri più argomentati che siano stati scritti a favore della conoscenza, a chiarimento della sua natura, a difesa del suo progresso, a spiegazione del suo statuto. Un libro pervaso dalla  consapevolezza che una solida e reale acquisizione di conoscenza è possibile, pensabile e praticabile dove si dà libertà metodologica, dove si permette un pluralismo di itinerari, dove a essere rifiutati sono soltanto i dogmi di qualunque natura.
Uno dei risultati di un simile approccio è che «la scienza non ha un’autorità maggiore di quanta ne abbia una qualsiasi altra forma di vita. I suoi obiettivi non sono certamente più importanti delle finalità che guidano la vita in una comunità religiosa o in una tribù unita da un mito. A ogni modo non è compito loro limitare la vita, il pensiero, l’educazione dei membri di una società libera, dove chiunque dovrebbe avere una possibilità di pensare quel che gli pare e di vivere in accordo con le convinzioni sociali che trova più accettabili» (p. 244).
La crescita della conoscenza per Feyerabend non deve essere anarchica, è sempre stata anarchica: «Eventi e sviluppi come l’invenzione dell’atomismo nell’Antichità, la rivoluzione copernicana, l’avvento della teoria atomica moderna (teoria cinetica; teoria della dispersione stereochimica; teoria quantistica), il graduale emergere della teoria ondulatoria della luce si verificarono solo perché alcuni pensatori decisero di non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche ‘ovvie’ o perché involontariamente le violarono» (21). La ricerca più feconda infrange infatti sempre le norme metodologiche stabilite. E questo accade per una serie assai ricca di ragioni.

La prima di esse è che nessuna teoria scientifica o di altro genere è completa e in accordo con tutti i fatti del campo che intende spiegare.
La seconda è che le osservazioni empiriche sono sempre intrise di teoria e non è possibile alcuna teoria che non si riferisca in qualche misura e modalità a delle osservazioni empiriche. «L’apprendimento non va dall’osservazione alla teoria, ma implica sempre entrambi gli elementi. L’esperienza ha origine assieme ad assunti teorici, non prima di essi e un’esperienza senza teoria è altrettanto incomprensibile come (si presume sia) una teoria senza esperienza: se si elimina una parte della conoscenza sensibile di un soggetto senziente si avrà una persona completamente disorientata e incapace di eseguire l’azione più semplice» (137). Il circolo epistemologico tra osservazione e teoresi, tra ‘empirismo’ e ‘razionalismo’ è costante, completo, costitutivo. Esso è stato ben individuato da David Hume, per il quale «le teorie non possono venire derivate da fatti. La richiesta di ammettere solo quelle teorie che derivino dai fatti ci lascerebbe senza alcuna teoria. Perciò la scienza quale noi la conosciamo può esistere solo se lasciamo cadere questa richiesta e rivediamo la nostra metodologia» (55).
L’unione profonda tra fatti e teorie rende necessario un confronto serio e rigoroso con le cosiddette interpretazioni naturali, con il senso comune, con le credenze condivise da un gruppo, una comunità, un’epoca. Nella scienza non si fa mai tabula rasa del passato e nello stesso tempo non si rimane mai ancorati alla tradizione, a ciò che è stato in altre epoche osservato, scoperto, pensato. Anche per questo «l’intenzione di partire da zero, dopo avere eliminato completamente tutte le interpretazioni naturali, è condannata all’insuccesso» (64).
Una terza ragione è che nessun metodo è sicuro e perenne, che «non esiste neppure una regola che rimanga valida in tutte le circostanze» (146-147) e che «tutte le metodologie, anche quelle più ovvie hanno i loro limiti. Il modo migliore per realizzare quest’obiettivo [non sostituire un metodo con un altro] consiste nel dimostrare i limiti e anche l’irrazionalità di alcune norme che vengono di solito considerate fondamentali […] dimostrare quanto sia facile menare per il naso la gente in un modo razionale» (29).
Una quarta ragione è che filosofia della scienza, storia della scienza e storia socio-politica non sono ambiti e saperi tra di loro irrelati ma costituiscono un campo epistemologico all’interno del quale ogni metodologia, ogni ipotesi e ogni legge vanno compresi, utilizzati e interpretati in una prospettiva storica, tanto che «la storia di una scienza diventa parte inscindibile della teoria stessa» (27).

Un esempio di quest’ultima tesi è la vicenda del cannocchiale e in generale il confronto tra astronomia tolemaica e astronomia copernicana, tra dinamica aristotelica e fisica galileiana. La dinamica di Aristotele è molto più generale di quella galileiana e moderna, non limitandosi al solo movimento – al moto locale in ispecie – ma riguardando anche le trasformazioni qualitative, il generarsi e dissolversi degli enti, l’accrescimento e la diminuzione di tutte le componenti in gioco in un fenomeno naturale. Galilei potè procedere all’elaborazione della propria dinamica soltanto circoscrivendo in modo netto questo insieme di linee di ricerca e applicando a quanto rimaneva l’utilizzo di uno strumento che fino ad allora aveva funzionato perfettamente soltanto nell’osservazione terrestre e che potè essere usato in ambito celeste soltanto a condizione di caricare l’osservazione di una densità teorica con la quale cercare di superare «le difficoltà che insorgono quando si cerca di considerare i risultati dell’osservazione telescopica nella loro immediatezza come indicanti proprietà stabili, obiettive, delle cose viste» (102).
Come operò Galilei per convincere i suoi interlocutori e lettori della verità del copernicanesimo rispetto all’aristotelismo tolemaico? Operò come un metafisico e come «un ciarlatano» e questo fu il suo merito, il suo genio, il suo contributo fondamentale all’ampliarsi della conoscenza. Sta qui, in questo giudizio solo apparentemente paradossale, uno dei nuclei fondamentali dell’epistemologia anarchica di Feyerabend. Galilei è Galilei perché non seguì alcun metodo come si pratica una fede religiosa, perché adoperò tutte le risorse e i trucchi retorici nei quali era un vero maestro, perché non si fermò a uno strumentalismo empirista ma ragionò, pensò e scrisse da quel metafisico platonico che era. Quella di Galilei, infatti, «è una nuova idea audace che implica un tremendo salto dell’immaginazione, […] un nuovo genere di esperienza che è non soltanto più sofisticato ma anche assai più speculativo di quanto non sia l’esperienza di Aristotele o del senso comune. Parlando in modo paradossale, ma non sbagliato, si potrebbe dire che Galileo inventa un’esperienza che contiene ingredienti metafisici. Proprio per mezzo di una tale esperienza si realizza la transizione da una cosmologia geostatica al punto di vista di Copernico e di Keplero» (76-77).
Galilei è uno dei massimi esempi della fecondità di risultati e dell’apertura di orizzonti verso i quali conduce il rifiuto dei dogmi più consolidati, ai quali il pisano oppose non un metodo ma una pluralità di metodologie, non l’idolatria dei fatti o delle teorie ma l’invenzione di nuove verità, di altri miti, di una diversa metafisica rispetto alle verità, ai miti e alla metafisica dominanti nel suo mondo. Galilei ci ha aiutato «contro tutti coloro che sono disposti ad accettare un’opinione solo se essa viene espressa in un certo modo e che prestano fede ad essa solo se contiene certe frasi magiche designate come protocolli o rapporti d’osservazione» (24); «Galileo il ciarlatano è un personaggio molto più interessante del misurato ‘ricercatore della verità’ che di solito ci viene additato come esempio da riverire. Infine, solo attraverso giochi di prestigio come questi in tale periodo particolare si poteva far progredire la scienza» (89).

La necessità di un pluralismo metodologico è motivata da numerosi altri fattori. Tra questi, la stretta relazione tra le leggi e i protocolli scientifici e i diversi linguaggi naturali dentro cui leggi e protocolli germinano e dai quali sono resi possibili non come semplice veicolo di conoscenza ma come condizioni stesse di tali conoscenze; circostanza la quale fa sì che non esista alcun linguaggio neutro e universale di osservazione e di interpretazione/resoconto dei dati osservativi ma ogni osservazione abbia senso e formuli i suoi risultati soltanto all’interno di un linguaggio dato, sia esso naturale sia esso scientifico. La questione dell’etere costituisce un caso piuttosto chiaro: «Si dice per esempio che l’esperimento di Michelson e Morley, la variazione della massa delle particelle elementari, l’effetto Doppler trasversale, confutano la meccanica classica e confermano la relatività. […] Se adottiamo il punto di vista della relatività, troviamo che gli esperimenti, che ovviamente saranno descritti ora in termini relativistici, usando le nozioni relativistiche di lunghezza, durata, massa, velocità ecc., sono rilevanti per la teoria, e troviamo anche che sostengono la teoria» (234-235).

In generale, i risultati di un’osservazione vengono espressi e comunicati con i termini e nel linguaggio della teoria che si vuole con essi dimostrare e difendere, quindi in un’altra lingua rispetto a quella delle osservazioni e teorie rivali. Si tratta per Feyerabend di una vera e propria fede linguistica che «non ha perciò alcuna rilevanza obiettiva» e che «continua a esistere esclusivamente come il risultato dello sforzo della comunità dei credenti e dei loro capi, siano questi preti o premi Nobel. È questo, secondo me, l’argomento più decisivo contro qualsiasi metodo, empirico o no, che incoraggi l’uniformità. Qualsiasi metodo del genere è, in ultima analisi, un metodo di inganno. […] Per concludere: l’unanimità di opinione può essere adatta per una chiesa, per le vittime atterrite o bramose di qualche mito (antico o moderno), e per i seguaci deboli e pronti di qualche tiranno. Per una conoscenza obiettiva è necessaria la varietà di opinione. E un metodo che incoraggi la varietà è anche l’unico metodo che sia compatibile con una visione umanitaria» (38-39).
Ne segue che quello scientifico sia soltanto uno tra i più fecondi linguaggi e strumenti inventati dalle società umane per vivere e sopravvivere nel proprio ambiente. Non è l’unico, non è infallibile e non può pertanto diventare troppo potente, esclusivo di altri linguaggi, aggressivo nelle sue conseguenze politiche e sociali. Come ogni fatto umano, anche la scienza è soggetta all’utilizzo politico, alla propaganda, all’ideologia, senza necessariamente dare un’accezione negativa all’elemento politico, alla propaganda, all’ideologia. Essenziale è però che la scienza non si presenti nelle forme colonialiste che hanno caratterizzato alcune delle sue fasi storiche e sulle quali l’analisi di Feyerabend è molto netta:

La scienza moderna schiacciò i suoi oppositori, non li convinse. La scienza si impose con la forza, non col ragionamento (ciò vale particolarmente nel caso delle ex colonie, nelle quali la scienza e la religione dell’amore fraterno furono introdotte come cosa ovvia, e senza consultarne gli abitanti o discutere con essi la cosa). Oggi ci rendiamo conto che il razionalismo, essendo legato alla scienze, non può darci alcun aiuto nel problema dei rapporti fra scienza e mito e sappiamo anche, da investigazioni di genere completamente diverso, che i miti sono molto migliori di quanto i razionalisti non abbiano osato ammettere. Così noi siamo oggi costretti a sollevare il problema dell’eccellenza della scienza […]
Le tribù non vengono soppresse solo fisicamente ma perdono anche la loro indipendenza intellettuale e sono costrette ad adottare la religione assetata di sangue dell’amore fraterno: il cristianesimo. […] La libertà viene recuperata, vecchie tradizioni sono riscoperte, sia fra le minoranze in paesi occidentali sia fra estese popolazioni in continenti non occidentali. Ma la scienza regna ancora sovrana. Essa regna sovrana perché coloro che la praticano sono incapaci di comprendere, e non disposti ad ammettere, ideologie diverse, perché hanno il potere di imporre i loro desideri, e perché usano questo potere esattamente come i loro predecessori usarono il loro potere per imporre il cristianesimo ai popoli in cui si imbatterono nel corso delle loro conquiste (241-243).

Alla luce di tutto questo, la proposta dell’epistemologo anarchico è di affrancare anche la scienza dal principio di auctoritas, come dovrebbe essere nella sua stessa natura, e separare quindi stato e scienza come sono state separate nell’Europa moderna stato e chiesa. Proposta che costituisce il lungo titolo (come tutti gli altri) del diciottesimo e ultimo capitolo:

La scienza è quindi molto più vicina al mito di quanto una filosofia scientifica sia disposta ad ammettere. Essa è una fra le molte forme di pensiero che sono state sviluppate dall’uomo, e non necessariamente la migliore. È vistosa, rumorosa e impudente, ma è intrinsecamente superiore solo per coloro che hanno già deciso a favore di una certa ideologia, o che l’hanno accettata senza aver mai esaminato i suoi vantaggi e i suoi limiti. E poiché l’accettazione e il rifiuto di ideologie dovrebbero essere lasciati all’individuo, ne segue che la separazione di stato e chiesa dovrebbe essere integrata dalla separazione di stato e scienza, che è la più recente, la più aggressiva e la più dogmatica istituzione religiosa. Una tale separazione potrebbe essere la nostra unica possibilità di conseguire un’umanità di cui siamo capaci, ma che non abbiamo mai realizzato compiutamente (240).

Una proposta politico-epistemologica così forte si inserisce all’interno di un’analisi – che percorre tutto il libro e gli dà senso – di ciò che chiamiamo scienza e ciò che definiamo non scienza, le quali devono convivere, collaborare, intersecarsi e interagire a favore di un progresso dell’umanità che sia libero dagli schematismi cronologici dell’idealismo e del positivismo, i quali identificano il dopo con il meglio. In realtà, «in tutti i tempi l’uomo si accostò al suo ambiente con i sensi aperti e un’intelligenza feconda, in tutti i tempi fece scoperte incredibili, in tutti i tempi noi possiamo apprendere dalle sue idee» (250).
Nessuno nega i frutti che molte teorie scientifiche hanno conseguito ma deve essere chiaro che lo hanno fatto all’interno di un più ampio campo di conoscenze e di pratiche, senza le quali non avrebbero potuto conseguire alcun risultato, senza le quali non avrebbero potuto esistere. L’astronomia e la dinamica moderne, ad esempio, «non avrebbero potuto progredire senza quest’uso scientifico di idee antidiluviane. […] Innovatori come Paracelso tornarono a idee anteriori e migliorarono la medicina. Dovunque la scienza si arricchisce con metodi non scientifici e con risultati non scientifici, mentre procedimenti che sono stati spesso considerati parti essenziali della scienza vengono tacitamente sospesi o aggirati» (248-249). Ed è per questo che «anche oggi la scienza può e deve trarre profitto da una mescolanza con ingredienti ascientifici» (249).
La separazione del campo epistemologico in elementi tra di loro irriducibili o in insuperabile conflitto rappresenta un ostacolo al progresso della conoscenza: «se desideriamo comprendere la natura, se vogliamo padroneggiare il nostro ambiente fisico, dobbiamo usare tutte le idee, tutti i metodi e non soltanto una piccola scelta di essi. L’affermazione che non c’è conoscenza fuori della scienza – extra scientiam nulla salus – non è altro che un’altra favola molto conveniente» (249).
Si può dunque dire che come la familiarità con l’idea cristiana di verità costrinse Nietzsche a mettere in discussione la verità del cristianesimo, allo stesso modo l’esigenza di rigore della scienza conduce Feyerabend a demistificare la scienza e ad affermare che «c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene» (25). Qualsiasi cosa serva ad ampliare la conoscenza dell’intricato enigma che il mondo sempre rimane e indagare il quale senza illusioni, chiusure, dogmi costituisce lo statuto e l’obiettivo stesso delle scienze.

[Dedico questo testo ai giornalisti ignoranti, alle miserabili virostar televisive, ai presidi e rettori burocrati, ai politici sadici e deliranti che hanno tentato di imporre il totalitarismo sanitario in nome di qualcosa che dichiaravano essere ‘scienza’ e che invece, come si vede, della scienza rappresenta l’opposto, costituendo piuttosto un’infame pratica oscurantista e autoritaria]

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