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Situazionisti a Milano

Ralph Rumney
Un ospite internazionale a Casa Boschi Di Stefano
Casa Museo Boschi Di Stefano – Milano
Sino al 5 gennaio 2020


Nel cuore di Milano, vicino a corso Buenos Aires, un palazzo progettato agli inizi degli anni Trenta del Novecento da Piero Portaluppi divenne un formidabile spazio dell’arte contemporanea. I coniugi Antonio Boschi e Mariella Di Stefano lo riempirono sino agli anni Ottanta di centinaia di opere dei maggiori pittori del nostro tempo, tra i quali Giorgio Morandi, Mario Sironi, Giorgio De Chirico, Piero Manzoni, Lucio Fontana, Enrico Baj. Undici sale al secondo piano ospitano una scelta di queste tele che abitano spazi vissuti e stanze arredate da splendidi mobili in radica, lampadari déco, strumenti musicali. Una magnifica dimora.
Tra gli artisti apprezzati dai coniugi Boschi Di Stefano -borghesi aperti all’inconsueto, all’innovazione, alla rivolta– ci fu anche Ralph Rumney, uno dei fondatori dell’Internazionale Situazionista. Di solito le tele di Rumney sono ospitate nel bagno del secondo piano. Sino al 5 gennaio 2020 fanno invece parte di una mostra al primo piano, dedicata a Rumney e ai suoi legami con i situazionisti. Quello di Rumney è un cromatismo geometrico e insieme ludico, fermo nello spazio e dinamico nel tempo, profondo e piacevole.
Insieme alle sue tele sono esposte opere di altri situazionisti come Asger Jorn e lo stesso Guy Debord.

Sua è anche la foto che ritrae il gruppo situazionista nel 1957 a Cosio di Arroscia, un borgo in provincia di Imperia dove l’IS nacque. Insieme a Debord, Rumney fu tra gli esponenti della psicogeografia, un modo critico e attivo di guardare e vivere gli spazi urbani, che conferma la grande attenzione rivolta dai situazionisti alla geografia e quindi allo spaziotempo. Una delle sale della mostra è appunto dedicata all’esperienza psicogeografica di Venezia.
Almeno ai suoi inizi, e a volte anche nel suo ακμή, l’arte è uno dei più potenti antidoti al conformismo, alla volgarità, alla banalità, al ripetuto, al tranquillizzante, all’ovvio. Il suo gioco gratuito e quindi la sua forza politica continuano a splendere anche quando diventano la trama di una rispettabile casa milanese.

What Yet Remains

Sheela Gowda. Remains
Milano –  Hangar Bicocca
A cura di Nuria Enguita e Lucia Aspesi
Sino al 15 settembre 2019

What Yet Remains è il titolo-metafora di un’opera del 2017 costruita con ciò che ancora rimane di alcune lastre di metallo dalle quali in India si ricavano i bandli, contenitori sferici di materiali utilizzati dai muratori. L’artista trasforma costruisce inventa anche ciò che rimane dello sterco delle mucche, che diventa combustibile mattoni fertilizzante. Lo trasforma in scultura ritmo simbolo.
Carta e inchiostro ricomposti sono ciò che rimane di tante pagine di giornale.
Edifici, rifugi, monumenti e rettangoli grigi e colorati sono ciò che rimane di innumerevoli bidoni. Dentro uno di essi -dal titolo Chimera (2004)– si muove una spirale e riposa al fondo una luna.
Di molti tessuti rimangono i colori e le forme.
Delle porte rimangono linee, superfici, volumi che si librano nell’aria.
Di molta gomma rimangono tappeti.
Di chilometri di capelli resta la forza verticale.
Di alcune fotografie restano gli umani immobilizzati nell’atto della violenza, nel gesto della rivolta. Nell’opera più enigmatica –Collateral (2007)– rimane la cenere, la corteccia, la polvere.
Della pittura dell’occidente resta Quadrato nero di Kazimir Malevič, un’opera che ha segnato a fondo l’astrattismo.
Nell’arte antica e sacra di Sheela Gowda rimane la materia, τὸ ἄπειρον, l’illimitato, la polvere della terra e del tempo, il suo flusso infinito. La materia minerale, la sua complessità, l’alchimia, l’eternità. Dissolti nell’icona gli umani; degli animali rimaste soltanto tracce; il vivente diventato ricamo combustione segno. Metabolizzati nello spaziotempo le piante i fiori il grano. Rimane soltanto la materia. E basta. Rimane ciò che merita di rimanere. Rimane lo splendore delle pietre.
Il resto è stato un sogno dello spazio, un’invenzione del tempo, una forma votata alla dissipatio, una metamorfosi. What Yet Remains è la gloria.

Haus der Kunst

Haus der Kunst
München 

L’imponente Haus der Kunst (Casa dell’arte) di Monaco di Baviera sta di fronte a un grande parco, è circondata da acque, è un magnifico esempio architettonico di funzionalismo neoclassico. Voluta dal regime nazionalsocialista, è oggi la sede di mostre d’arte contemporanea. Il contrasto tra gli spazi, lasciati come vennero concepiti negli anni Trenta del Novecento, e le creazioni che essi ospitano nel XXI secolo è straniante, efficace, bello. I grandi lucernari che offrono luce naturale alle sale illuminano il travaglio del nostro tempo, la tensione che oggi viviamo tra un crepuscolo volto alla disperazione e la tenace volontà di inventare un nuovo spaziotempo.
In questo periodo l’edificio ospita alcune mostre tra loro diseguali ma tutte, per una ragione o per l’altra, interessanti. Provo a farne una sintesi.

Kapsel 09: Raphaela Vogel  Ha chiuso il 14 luglio questa piccola mostra fatta di due installazioni e un video. Lo spazio più coinvolgente è costituito da due totem infuocati che circondano automobili e motori. I fari di un’automobile posta nel mezzo proiettano radiografie, altari, occhi egizi dentro i quali cammini deformati battono lo spaziotempo che si trasla in musiche sacre e danzanti. In un video due umani con maschere-totem ferine mimano dentro foreste e fiumi la lotta, la forza, l’animalità, il desiderio, il fluire. Le due installazioni di Raphaela Vogel disegnano in questo modo un ibrido zoomacchinico vivace, divertente, ironico. L’esatto contrario di quanto accade invece nell’opera di Miriam Cahn.

Miriam Cahn: Ich als Mensch [Miriam Cahn: l’io come umano] è aperta da poco (chiuderà il 27 ottobre). Questa è la mostra più debole, incentrata com’è su una ‘questione di genere’ ripetitiva e un poco stucchevole, soprattutto spettrale. Vi emergono una visione e un’immagine del sesso come cupa violenza. E questo conferma che la questione gender è fondamentalmente anche una questione sessuofobica. Una seconda tematica è invece più universale e riguarda il problema energetico e il rischio universale di fronte al quale l’umanità si trova. Altre opere disegnano e ripetono il fungo atomico o espongono grossi moncherini di legno morto, quello che probabilmente sarà il destino della vegetazione sul pianeta se gli umani non spariranno in tempi rapidi.

El Anatsui: Triumphant Scale [in mostra sino al 28 luglio] è la strepitosa creazione di un artista nigeriano. Etichette di plastica e carta, tappi di bottiglia, altri umilissimi materiali (qui a sinistra un particolare; sotto una delle opere) diventano tappeti, labirinti, pareti, pavimenti, spazi. Alcune opere, come Tiled Flower Garden (2012), fanno pensare a Monet; altre alla tradizione dei totem africani; altre ancora –Flusso, Icaro– al mondo greco. Tutte opere che costituirebbero un eccellente sfondo per l’arcaismo della tragedia attica.

Nachts. Zwischen Traum und Wirklichkeit [Notte. Tra sogno e realtà] è la più recente (aperta il 12.7.2019, chiuderà il 6.1.2020) ed è allestita nella Sammlung Goetz, la parte sotterranea dell’edificio. Video, suoni, fotografie descrivono un mondo notturno inquietante e mortale. La luna tra le nuvole, la notte e il vento. Discussioni sulla paura del Capitale. Un piano sequenza racconta il divenire dell’entropia. Zombie e streghe in un sarcastico verde-morte. Sonnambuli cercano di salvare libri che bruciano. Border. Mattino successivo al diluvio; il Sole al centro e nuove aurore a splendere. Baci a Parigi, baci allo specchio, rêve. Maschere inquietanti e insieme patetiche, tempus fugit e soltanto l’amore, forse, ricuce il senso; l’anima se ne va. È il movimento che rende i viventi qualcosa di meglio che burattini mossi da un oscuro racconto. Film noir. Flash senza scopo nella notte fonda. Lune finte nella finta vita. La staticità, il mai nuovo, noi. Frammenti d’incubi, di sogni. Ovunque il loop, la certezza e l’orrore del ritorno.
The dark side of human existence.

La festa immobile

«Una delle più importanti linee di sviluppo dell’arte contemporanea si orienterà verso il tema della radicale spersonalizzazione dell’artista e del suo volersi fare cosa, oggetto inanimato, meccanismo» scrive Giuseppe Frazzetto (Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione, Fausto Lupetti Editore, 2017, p. 68).
L’artista è padrone della sua festa e servo della mobilitazione dentro la quale soltanto la festa può esistere. «Il far niente in fin dei conti è una sospensione del tempo storico; se non una festa, un party. La vita è bellissima. Questo resta della promesse de bonheur? Un intricato fake d’un fake? […] L’artista sovrano è indistinguibile dai suoi innumerevoli doppi qualunque. […] La distinzione è prodotta solo dal fatto che il doppio qualunque dell’artista sovrano non è cooptato dall’apparato, che potrebbe però cooptarlo senza difficoltà di sorta. È così? Non c’è dubbio. Per ora. Finché dura il party generalizzato. La festa immobile dell’anti-arte, della spiritualizzazione banalizzata del far-niente estetico d’un inafferrabile ‘Io è un altro’, del trionfo dell’autofeticizzazione servo/sovrano» (p. 206).
Di questo e di molto altro parleremo al Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania giovedì 9 maggio 2019 alle 10,00, nell’aula A9, con gli studenti del corso di Sociologia della cultura e con chiunque vorrà esserci.

Fausta Squatriti

Fausta Squatriti
La Passeggiata di Buster Keaton 1964 – 1966
Milano – Galleria Bianconi
A cura di Martina Corgnati
Sino al 15 
marzo 2019

Il rosa, il verde chiaro, l’azzurro tranquillo e il glauco, il lilla ma anche il nero. Colori che scorrono e che diventano ali, grumi d’essere, intensità di forme, riverbero di luci. Strutture cromatiche e figure materiche con le quali Fausta Squatriti coniuga la potenza di Tiepolo, la scrittura di Garcia Lorca, l’infinita caduta che attraversa e fa il cinema di Buster Keaton.
El paseo de Buster Keaton è infatti un breve testo teatrale di Federico Garcia Lorca, che nel 1964 Squatriti trasformò in un ciclo pittorico dentro il quale -scrive Martina Corgnati- «c’è un’aria di giovinezza, persino un po’ candida e baldanzosa», fondata su una «congiunzione onirica e pittorica e leggera fra una base surrealista e una declinazione Pop in rapido ma ancora inosservato avvicinamento» (Catalogo della mostra, pp. 7 e 13).
La stessa ironia e lo stesso dramma che pervadono i coevi Libri d’artista, da Fausta inventati come veri e propri scrigni della forma e del colore dentro la millenaria struttura di un volume. Il primo di questi libri –Tatane– fu scritto da Alfred Jarry con le serigrafie di Squatriti, ed è esposto anch’esso alla Galleria Bianconi di Milano. Un oggetto raffinatissimo, stampato con il carattere Bodoni che trasforma in eleganza l’allegria.
Le tele sono inframmezzate da sei maschere che raffigurano Paura, Malinconia, Follia, Arroganza, Morte, Lussuria e dunque le passioni, i vizi, il gioco delle esistenze perdute e vissute. Sono opere create nel 2012 per Ora d’aria, un testo messo in scena anche in occasione del vernissage. Gli attori si sono mossi nello spazio come l’inesorabile fa con il tempo, scandendo verità scomode ma evidenti, come questa: «Si ama solo ciò che non si possiede del tutto». Parole con le quali anche Proust si affaccia nel bel quartiere di Milano che ospita la mostra.
Il grande ispiratore è certamente Giambattista Tiepolo, l’Apoteosi della famiglia Pisani -che compare nel catalogo- ma anche e forse soprattutto lo stupefacente ciclo di affreschi della Residenza di Würzburg, nel quale il vortice della prospettiva spinge la densità delle figure verso i margini dell’opera, esattamente come nei quadri di Squatriti.
La giovane artista aveva racchiuso tutto questo dentro bellissime e ironiche cornici barocche che negli anni Sessanta venivano espulse dalle case e dalle gallerie in nome della freddezza del design. Fausta ebbe il coraggio e il divertimento di prendersele e di rinnovare l’illuminismo di Tiepolo in onde che incrociano la materia e la fecondano, nel tempo che va e che viene, diventa nuvola, finge di dissolversi e si trasforma in gaudio.

Manierismo del contemporaneo

Eva Marisaldi
Trasporto eccezionale

Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
A cura di Diego Sileo
Sino al 3 febbraio 2019

Nell’opera di Eva Marisaldi sembrano vivere i «tre stati dell’arte» dei quali parla Giuseppe Frazzetto in Artista sovrano. Marisaldi è infatti insieme artigiana e sovrana. E la sua opera può essere designata come artistica solo perché una comunità di critici, di colleghi, di istituzioni e di visitatori la riconosce in quanto tale. A Marisaldi si attagliano perfettamente le categorie di Frazzetto poiché nelle sue opere, chiara espressione e prosecuzione del ready-made, «balena l’opposizione fra il modello coltivazione/allevamento e il modello caccia/raccolta. Anziché agire seguendo la crescita, lo sviluppo, la ‘coltivazione’ (=cultura) l’artista del montaggio sembra porsi come un cacciatore/raccoglitore, operante su un territorio di materiali culturali già pronti» (Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione, Fausto Lupetti Editore 2017, p. 83).
Negli spazi del Padiglione d’Arte Contemporanea si susseguono infatti bracci meccanici guidati da software; post-it e carte da parati; lastre di Polaroid; piccoli oggetti simili a giocattoli e raffiguranti città che vanno da Siviglia a Tokyo, da Gallipoli a Miami, con relative piantine; calchi in gesso; (bei) disegni con sopra sassolini; specchi sul pavimento; disegni spray su tessuto; due cucchiai che combattono tra loro come antichi pupi; lampade rivolte alle pareti; polvere di ferro su una pedana magnetizzata; pantaloni semoventi nella polvere; quattro grammofoni con puntine di carta; oggetti-onda; finte insegne di taxi poggiate a terra e illuminate; stampe a getto d’inchiostro che mostrano il talento grafico dell’artista; lamiere e grandi stampe in alluminio; tende costruite con stampanti; cartoni e suoni di risacca su una spiaggia; scarafaggi di plastica qua e là.
I numerosi video mostrano carrozzine che si muovono da sole in un porto accanto al mare; iguane accompagnate da brani musicali; oggetti animati, in particolare sassi che sono presenti in varie installazioni; viaggi assemblati come videogiochi; autoscontri con al centro un attore accoccolato e la sua voce narrante; forme grafiche vagamente impressioniste.
Nella mostra c’è moltissima inventiva ma anche una scarsa innovazione. Ci si sente insomma immersi nel manierismo del contemporaneo. In ogni caso, e si tratta forse dell’elemento più significativo, tutto questo è espressione, forma, testimonianza della gratuità, di un’arte che non serve a nulla poiché a nulla l’arte deve servire. Come accade nelle passioni, il significato dell’arte sta nel significante. 

Idoli

IDOLI Il potere delle immagini
Venezia – Fondazione Giancarlo Ligabue
Sino al 20 gennaio 2019

La Fondazione Giancarlo Ligabue di Venezia è uno dei luoghi pulsanti della paleontologia contemporanea. La sua mostra più recente è dedicata ad alcuni oggetti splendidi e inquietanti, trovati in vari luoghi del Mediterraneo e del Vicino Oriente. Sono piccoli artefatti che raffigurano la forma umana nei suoi legami con il Tutto.
Penisola Iberica, Sardegna, Cicladi, Cipro, Anatolia, Egitto, Iran, Margiana, Battriana hanno concepito, costruito, venerato idoli fatti di una geometria che è ordine nello spazio e successione nel tempo. Idoli che esprimono il sacro, il simbolico, la donna, l’assoluto, le potenze della vita e della morte, del qui e dell’altrove.
È nota ed è impressionante la somiglianza e continuità tra queste opere e gran parte dell’arte del Novecento, in particolare Giacometti, Modigliani, Picasso, Haring.
Nelle figure umane a forma di violino risuona un’armonia silenziosa e potente. Nelle figure dimorfiche il fallo e la vulva mostrano la struttura unitaria e androgina dei corpi, dalla quale è forse nato il racconto di Aristofane nel Simposio. Altre figure ibride fondono l’animale umano e gli altri animali: uccelli, bovini, tori in particolare.
In qualunque modo siano fatti si tratta di oggetti seducenti, nei quali il nucleo arcaico, ancestrale, apotropaico della bellezza si mostra già come integritas, simmetria e claritas.
Un testo in mostra afferma che sono opere «sempiterne nel tempo e nello spazio». È vero. Sono infatti idoli, parola pagana per eccellenza, odiata da ebrei, cristiani e islamici. E dunque una parola pulita, profonda, universale, capace di attraversare i millenni ed essere ancor viva.

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