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Riproduzione

Neïl Beloufa
Digital Mourning
Hangar Bicocca – Milano
A cura di Roberta Tenconi
Sino al 9 gennaio 2022

«Lutto digitale» è una denominazione corretta per questo insieme di installazioni dell’artista francese Neïl Beloufa. Da intendere «il digitale come lutto». Quale funerale si celebra? Quello del significato, la morte della comprensione e quindi, di fatto, del pensare. Digital Mourning costituisce un paradigma di molta e scadente arte contemporanea. Si fonda infatti su alcuni fraintendimenti: Beloufa confonde la tracotanza con la ricchezza, la confusione con lo stimolo, il frastornante con l’ironico.
L’autore colleziona video, sculture, poster, manoscritti, monitor, impianti, set cinematografici e altro dentro un ambiente che accende e spegne l’una o l’altra delle numerose installazioni, creando un vortice visivo e digitale che dalle dichiarazioni esplicite di Beloufa dovrebbe suonare critico nei confronti della società contemporanea ma che di fatto e nelle cose risulta una convinta e profonda giustificazione del presente, della sua manipolabilità, della sua inconsistenza, della superficie. Il pensare è infatti costituito dalla coniugazione del dato e del significato. Il dato da solo è puro empirismo, presa d’atto di qualcosa che c’è. Il significato da solo è l’arbitrio della mente che ritiene di produrre la realtà invece che comprenderla.
È questa una dinamica quotidiana e complessa che nell’attività artistica, scientifica, narrativa, filosofica diventa la necessaria distanza di ciò che viene creato rispetto a ciò che si dà negli enti e negli eventi. E invece l’opera di Beloufa è una riproduzione degli enti e degli eventi, una riproduzione ossessiva e concentrata di ciò che si vive prima e dopo aver visitato la mostra o meglio prima e dopo essersi immersi nei suoi contenuti multimediali. Ma ogni semplice riproduzione di ciò che accade è anche una giustificazione di ciò che accade. Dove non esiste distanza non è neppure possibile la critica.
Tanto è vero, ed è una prova patetica ed emblematica, che l’artista si affanna a descrivere le sue invenzioni, a suggerire significati, a chiedere una partecipazione attiva e critica che evidentemente le sue opere non sono in grado di suggerire e offrire da sole. Si susseguono quindi inviti sonori e ironici come  «per ragioni di sicurezza, si chiede di non pensare» ma sono affermazioni che hanno lo stesso valore di tutto il resto, si inscrivono nella piattezza e nell’obbedienza che il digitale porta sempre con sé e che soltanto uno sforzo di distanziamento può porre su piani diversi rispetto a quelli della riproduzione seriale del dato.
Come se dal puro accrescimento empirico degli oggetti, dei monitor, dei cavi, delle immagini, delle voci potesse generarsi un’intelligenza non passiva del mondo. E invece Digital Mourning è un esempio di opera ideologica, se per ideologia si intende la giustificazione/riproduzione di ciò che esiste, il banale.

Europae / Segno

Europae
Associazione Lyceum – Scuola delle Cose  – Oliveri (Messina)
A cura di Davide Di Maggio e Nino Sottile Zumbo
Sino al 19 dicembre 2021

La disponibilità della Fondazione Mudima di Milano e la tenacia di Nino Sottile Zumbo hanno prodotto un piccolo miracolo, hanno fatto sì che in un paesino della riviera tirrenica della Sicilia convergessero ventotto tra i più importanti artisti del Novecento e del XXI secolo, tra i quali Francis Bacon, Christo, Marcel Duchamp, Lucio Fontana, Mimmo Rotella, Daniel Spoerri.
La poetica Dada e il gruppo Fluxus dominano la mostra di di Oliveri che è «la prima di una serie di mostre sull’Arte moltiplicata: serigrafie, grafiche, multipli, libri  d’artista dei maggiori artisti europei» (D. Di Maggio, La Scuola delle Cose, p. 1). Il titolo della mostra nasce dal fatto che «secondo alcuni linguisti il termine Europa risale all’etimo eurus (ampio) e ops (occhio): l’Europa è continente dall’ampia visione» e uno dei suoi obiettivi è contribuire a «un’Europa non di cartapesta, ma comunità di destino», scrive Sottile Zumbo con accenti heideggeriani (La Scuola delle Cose, p. 2)
Quella di Oliveri è un’antologia del Contemporaneo permeata dai simboli in bronzo di Spoerri, posti quasi a difesa e a significato dell’intero evento, che accoglie invenzioni cinematiche, corpi contratti e insieme dilatati, simboli arcaici, poesie grafiche, il sangue, l’oro, la luce, le linee, i segni, le geometrie, l’astratto e il materico. Che accoglie insomma alcune delle espressioni e dei capisaldi di un’arte la cui tensione verso la purezza della forma svicola, converge e si compie nella centralità ed essenzialità di ogni segno, anche del più piccolo, periferico, apparente; converge nel gioco tra Gegenstand e Bedeutung, tra il dato e il significato, poiché ogni segno è un oggetto/evento composto di significante, significato e riferimento. E questo accade perché l’umano «is a sign; so, that every thought is an external sign. That is to say, the man and the external sign are identical, in the same sense in which the words homo and man are identical. Thus my language is the sum total of myself; for the man is the thought» (Peirce, Collected Papers, 5. 314). Il segno significa in un tessuto di relazioni e regole combinatorie inserite in un mondo più ampio di azioni ed eventi, un mondo che è sempre temporale.
«Ein Zeichen sind wir, deutungslos» (Hölderlin, Mnemosyne, v. 1), siamo un segno che nulla indica. Nulla, al di là di se stesso, del proprio indicare, della vita come segno, parola, concetto, significato che abita in noi e non certo nelle cose e nella materia, che bisogno di senso non hanno. Anche per questo le forme contemporanee significano sempre tutto e non hanno bisogno di significare nulla di specifico, limitato e particolare. Anche per questo l’arte contemporanea, qualunque cosa si indichi con tale espressione, è un’ermeneutica della materia. Poiché  «qualcosa è segno solo perché viene interpretato come segno di qualcosa da qualche interprete» (C.W. Morris, Lineamenti di una teoria dei segni, Paravia 1955, p. 31). La natura più profonda del segno consiste in questo suo legame con la verità molteplice del mondo, nel suo saperla dire, indicare, custodire.
Ed è esattamente questo che le invenzioni molteplici, diverse, enigmatiche e avvolgenti di Europae operano nello spazio: dicono, indicano, custodiscono.

Astratto / Figura

Painting is back
Anni Ottanta, la pittura in Italia

Gallerie d’Italia  – Milano
A cura di Luca Massimo Barbero
Sino al 3 ottobre 2021

In tutti gli ambiti del sapere è giunto il momento di oltrepassare i dualismi, di sostituire agli elementi che l’un l’altro si escludono quelli che invece reciprocamente si integrano, dando in questo modo vita e spazio a uno sguardo sul mondo che comprenda meglio la sua complessità e ricchezza fatta di differenze che proprio in quanto differenze plasmano un’identità fatta di gloria. Tale dinamica vale in primo luogo per la teoresi, per la filosofia che è «das sagende Bauen am Seyn durch Erbauen der Welt als Begriff», ‘il dire che edifica l’Essere tramite la costruzione del mondo come concetto’ (Heidegger, Schwarze Hefte 1931-1938 – Überlegungen IV, Vittorio Klostermann 2014, p. 212). E poi vale per la vita collettiva-politica, ormai al di là dei paradigmi topologici nati con il 1789; vale per la fisica, che integra la materia/energia sia come onda sia come particella; vale per l’arte, in particolare per la distinzione tra figurativo e astratto.
La percezione è sempre astratta perché è fatta di una miriade di elaborazioni cerebrali che partono dai sensi e si trasformano poi in forme; ed è sempre figurativa poiché tali forme assumono un ordine senza il quale la presa del corpomente sul mondo non sarebbe possibile. Anche questo è la Gestalt, è la Forma. Che è principio gnoseologico, ontologico ed estetico.

Il superamento del dualismo tra astratto e figurativo è evidente nella mostra che la sede milanese delle Gallerie d’Italia dedica alla pittura italiana degli anni Ottanta del Novecento. La divisione in decadi è sempre convenzionale e artificiosa ma in questo caso risulta accettabile perché indica non un arco cronologico ma una tendenza plurale e rizomatica che si origina prima di quel decennio e continua nel presente. La tendenza al gioco, decisamente. A un divertimento della costruzione che dall’artista si trasmette a chi osserva le opere, le gusta, sorride. Davvero un piacere nato dal giocare con le forme, dal divertirsi con i colori, con le invenzioni, i titoli, le citazioni, la possibilità di trasformare in ‘arte’ la materia che si tocca.

Materia mitologica come nelle splendide opere di Salvo che attingono ai templi e alla luce di Sicilia, ai suoi paesaggi con rovine, all’orgogliosa ironia dei 31 siciliani; mito che emerge anche nel Gilgamesh di Gino De Dominicis.
Materia storica come quella di Luigi Ontani che gioca con Mantegna e con Tiepolo nella sua Camera dei celibi.
Materia animale in Mario Merz e in numerosi altri che riscoprono e fanno propria la potenza della vita che intride le specie non umane.
Materia aritmetica, ancora in Merz che attinge alla serie di Fibonacci e materia simbolica nel Cinèma di Nicola De Maria e nei suoi Cieli degli uccelli – gridi sulla testa.
Tra i numerosi artisti presenti in mostra emergono in particolare Emilio Tadini con il suo Oltremare turchese di pienezza (qui sotto) e le opere di Enrico Baj. Tra queste una, bellissima, fatta di bianco, grigio e nero esplodenti e sprofondanti, il cui titolo è davvero un’epitome dell’arte oggi: Vedeteci quel che vi pare (immagine di apertura).
Infine, in tutti questi artisti e in tutte le loro opere sta anche la figura umana immersa nel colore, a esso consustanziale. Un cromatismo intenso, splendido, parlante.

Il proprio stesso significare

Les Citoyens
Uno sguardo di Guillermo Kuitca sulla collezione della Fondation Cartier pour l’art contemporain
Palazzo della Triennale  – Milano
Sino al 12 settembre 2021

Una scelta, operata da Guillermo Kuitca, di luoghi, immagini, video, musica, installazioni, affreschi rupestri contemporanei; materiali di varia natura e fattura, tra i quali molte ceramiche e tanto legno. La reinvenzione degli strumenti dell’abitare (Absalon, Propositions d’habitation, 1990; Thomas Demand, Studio1997); registrazioni/documentazioni di eventi sciamanici (Tony Oursler e Taniki, uno sciamano yanomami 1978-1981); objets détournés, oggetti spogliati della loro funzionalità in un processo di metamorfosi materiche (Richard Artschwager); migliaia di Polaroid scattate in tre giorni, alcune delle quali compongono delle grandi immagini (Daido Moriyama, 1997); un film d’animazione in 3D, raffinato e assai bello, di Moebius: La Planète encore (2010); gli ambienti onirici dei film di David Lynch dentro i quali si entra accompagnati dalla voce di Patti Smith; ancora di Lynch alcuni potenti Nudes [qui sopra nell’immagine di apertura], il corpo femminile decostruito, inquietante, gorgòneo, che sempre scatena il desiderio. E poi case leggere, cornici seriali con dentro il nero, onde di grigi sulla superficie della tela, cieli stellati.
Soltanto i grandi spazi del Palazzo della Triennale possono consentire una simile mostra. La quale dà ragione a un’affermazione di Gianni Vattimo: «Gli artisti […] non producono più, o producono sempre meno, oggetti belli che si possa desiderare di comprare, possedere, collezionare […] Si orientano sempre di più verso la produzione di ‘eventi’ – momenti di esperienza collettiva che sappiano coagulare emozioni condivise» (Introduzione all’estetica, a cura di L. Amoroso, ETS 2010, p. 86).
In questo modo ciò che chiamiamo arte viene disseminato nell’intero, nell’evento-mondo. L’arte come performance, l’arte come spettacolo, l’arte come ‘qualsiasi cosa è arte’ si possono intendere a fondo se comprendiamo che il contemporaneo è fatto di impermanenza, di dissonanza, di radicale temporalità.
A questo esito si è giunti anche attraverso lo snodo fondamentale rappresentato dal formalismo. Al di là, infatti, delle letture sociologiche e psicologiche dell’opera d’arte, la pratica artistica contemporanea pensa -in modo più o meno radicale ma pervasivo- all’opera come pura forma che si fa poesia; nell’opera d’arte i significanti non rinviano a un qualche significato ma soltanto a se stessi. Ha poco senso chiedersi ‘che cosa significa’ un’opera perché l’opera -qualunque forma assuma- significa semplicemente se stessa. L’opera d’arte non significa quindi nulla al di là del proprio stesso significare.
Giovanni Gentile ha ben argomentato l’«assoluto formalismo» dell’arte (Filosofia dell’arte, in L’attualismo, Bompiani 2014, p. 1055). Si tratta di una posizione vicina a quella di Giuseppe Frazzetto, per il quale dal Neoclassicismo in avanti l’arte si è trasformata da poíesis, «l’agire che ha fuori di sé il proprio scopo», in una pràxis che ha «il proprio fine in se stessa» (Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione, Fausto Lupetti Editore 2017, p. 43). L’arte diventa il luogo, l’esperienza, la dinamica che supera il dualismo di soggetto e oggetto, di pensiero e mondo, immergendo il pensiero nel mondo e facendo scaturire il mondo dal pensiero. L’arte tende a coincidere con la vita, con il gioco gratuito delle forme.
Senza comunque dimenticare, di fronte alle modalità e agli esiti a volte artificiosi delle opere esposte alla Triennale, la cruda confessione di Pablo Picasso, il quale nel 1951 a un giornalista italiano che lo intervistava così rispose: «Grandi pittori sono stati Giotto, Tiziano, Rembrandt e Goya: io sono soltanto un tipo che diverte il pubblico, che ha capito il proprio tempo e ha sfruttato come meglio ha potuto l’imbecillità, la vanità, la cupidigia dei suoi contemporanei» (in Carlo Sini, Idioma, la cura del discorso, Jaca Book 2021, pp. 117-118).

Primavera

Canto di primavera (che colore avrà il futuro?)
fOn Art Gallery – Aci Castello (Catania)
Fondazione OELLE Mediterraneo Antico
Sino al 2 maggio 2021

Contaminazione tra materiali diversi: acquarelli, fotografie, plexiglas, pitture a olio, polvere dell’Etna, salvagenti. Fantasia, freschezza, invenzione. Una meditazione mai banale sul presente estetico che diventa sguardo critico sul presente sociale e politico. Il bisogno di dire, di esserci nella presenza della materia, di cantare le forme che trasformano la materia in significato. L’accostamento di artisti ben noti, come Piero Guccione, e di giovani e meno giovani che hanno il talento, la passione, lo sguardo che l’arte è sempre quando non è semplice affare.
Anche tutto questo è capace di generare la vis pedagogica, oltre che il magistero estetico, di Carmelo Nicosia, le cui mostre organizzate dalla Fondazione OELLE non deludono mai. In questo caso le opere si stagliano sul mare siciliano, sul mare di Aci Castello, sullo Ionio. Ne vengono illuminate, accarezzate, avvolte. La luce si diffonde sull’Etna Eruption di Ezio Costanzo, una scala di grigi a disegnare la potenza del vulcano; sull’Eden attraversato da una ferita di Anna Tusa; sul Giardino Kimbei di Ivan Terranova, una magnifica metamorfosi in 12 tondi di un’antica foto giapponese; sul dinamico Man in red di Carmelo Bongiorno.
E altro ancora, nello scandire dei colori, dell’armonia, del canto che invade di sé lo spazio di questa primavera, del futuro.

Santi e sinestesie

Performing PAC. Made of Sound
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
Sino al  13 settembre 2020

La mostra si apre con un video di Laurie Anderson che nel 2003 suona al Pac un violino elettronico dal quale ricava le sue note antiche e nuove. I video e le installazioni degli altri cinque artisti sono in qualche modo sotto il segno di questo incipit.
Invernomuto –Vers l’Europa deserta, Terra Incognita, 2017– racconta luoghi e persone mediante inquadrature che svelano lentamente e caoticamente gli ambienti. Troppo caoticamente però e la narrazione è stanca, già vista, ripetitiva.
Pamela Diamante –Generare corpi celesti / Esercizi di stile, 2020 (musica di Marco Malasomma) e Note, 2017– porta a ulteriore esasperazione la tendenza manierista di non pochi esperimenti visuali ma è comunque l’unica tra gli artisti presenti a proporre qualcosa che sia anche pittura: due fregi seriali ripetuti come brani.
Barbara and Ale –The sky is falling, 2017– disegnano il bianco del suono sul vibrato del paesaggio fatto di nuvole cupe, immobile ghiaccio, cime rocciose.
João Onofre –Untitled (N’en Finit Plus), 2010/11– filma un canto solitario dentro la terra.
L’opera più significativa e coinvolgente è di Jeremy Deller e Nick Abrahams: Our Hobby Is Depeche Mode, 2006. Le interviste, le parole, le esperienze, la malinconia, gli abiti, i canti di alcuni fan(atici) dei Depeche Mode vanno al fondo della cultura pop, della genesi degli idoli, della società dello spettacolo. I luoghi sono i più diversi: da Basildon (GB), città d’origine del gruppo, a San Pietroburgo, da New York a Mosca, dalla California alla Germania, da Bucarest all’Iran, da Berlino a Cambridge.
In Romania la scoperta dei Depeche Mode coincise con la fine del comunismo; i ragazzi rumeni parlano della «rivoluzione» che li ha aperti alla musica pop; anche in Iran i cultori dei Depeche Mode parlano di «rivoluzione» ma stavolta per indicare quella islamica, che invece alla musica pop ha posto il divieto. In Russia il culto della personalità è transitato da Lenin ai Depeche Mode, e questo dice molto sulla debolezza delle ideologie e sulla forza invece del desiderio. Il film fa luce sulla natura dei simboli, sul bisogno che gli umani hanno di venerare delle divinità molteplici, sulla saggezza quindi della Chiesa Romana che ha sussunto le divinità del politeismo nel suo pantheon di santi. Un elemento fondamentale delle fede cristiana, questo, che i protestanti non vogliono proprio capire e anche per questo le loro chiese sono ormai al fallimento.
I fedeli dei Depeche Mode spiegano il loro culto in molti modi. Parlano di «una musica per le persone sole»; «un senso di tragedia e di disperazione, una sensazione mistica»; «ci aiutano a vivere, ci aiutano a sopravvivere». Molte di queste persone tengono in casa degli altarini con i loro idoli. Uno mette dei fiori e brucia incenso sotto le foto dei DM. E il film stesso di Deller e Abrahams crea, mostra, documenta la comunità internazionale dei credenti nei Depeche Mode.
E questo conferma quanto scrive Gianni Vattimo: «Gli artisti […] non producono più, o producono sempre meno, oggetti belli che si possa desiderare di comprare, possedere, collezionare […] Si orientano sempre di più verso la produzione di ‘eventi’ – momenti di esperienza collettiva che sappiano coagulare emozioni condivise» (Introduzione all’estetica, a cura di L. Amoroso, ETS, Pisa 2010, p. 86) e conferma le tendenze profonde individuate da Giuseppe Frazzetto a proposito della continuità/differenza tra la cosiddetta arte e la cosiddetta vita: «L’anti-arte come identità fra arte e vita (col sottinteso dell’eliminazione di una differenza tra artista e non artista: la differenza costituita dalla competenza produttiva dell’artista)» (Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione, Fausto Lupetti Editore, Bologna 2017, p. 203).

Scultura / Luce

Cerith Wyn Evans “….the Illuminating Gas”
Milano –  Hangar Bicocca
A cura di Roberta Tenconi e Vicente Todolí
Sino al 23 febbraio 2020

Fin dal suo titolo la mostra di Cerith Wyn Evans rende omaggio a Marcel Duchamp, alla sua enigmatica opera postuma dal titolo Étant donnés: 1º la chute d’eau, 2º le gaz d’éclairage, espressione quest’ultima che in inglese viene tradotta con the Illuminating Gas. La mostra consiste in sculture di luci, in sculture sonore che producono armonie e dissonanze, in chilometri di tubi al neon sospesi nello spazio a formare segmenti, linee, cerchi, ellissi, arabeschi, scarabocchi, rettangoli, stelle. Tutto questo preceduto da sette colonne luminose che si elevano toccando quasi l’alto soffitto dello Hangar Bicocca.
È la luce a costituire il più potente e pervasivo Zeitgeber, il segnatempo al quale i corpi animali e vegetali affidano la regolarità delle proprie strutture vitali. La luce permette di sincronizzare i ritmi endogeni con quelli esterni del giorno e della notte e permette dunque ai corpi di sincronizzarsi con il volgere della Terra e del Sole.
Nello spazio tanto enorme da apparire quasi vuoto della navata dello Hangar le opere di Evans sembrano epifanie germinate dalla terra e provenienti dal cosmo. Una vera e propria metafisica della luce come vita trasparente a se stessa, come vita sensata. Metafisica che scaturisce dal fatto che dentro l’esistere, dentro il suo enigma, la meraviglia è una luce che illumina il cieco muro del reale, che rende comprensibile la forza abbagliante di ciò che c’è ed esiste. La relazione tra la presenza e l’assenza è uno dei nuclei stessi della metafisica, la quale è un discorso sul visibile a partire dall’invisibile. Anche per questo, in relazione alla mente umana, la verità assume la struttura di una luce che affranca dall’errore.
La metafisica è la comprensione di una verità semplice e profonda, quella per la quale l’essere è analogo alla luce, la quale può essere vista soltanto quando tocca gli enti, rimanendo di per sé non visibile. Come, appunto, l’essere. L’intero pensiero umano sul mondo, ciò che chiamiamo cultura nella varietà delle sue espressioni -tra le quali l’arte, la religione, la filosofia- è il ripetuto tentativo di comprendere questo gioco dell’invisibile e con esso il mondo.
Τὸ μὴ δῦνόν ποτε πῶς ἄν τις λάθοι; «Come potresti rimanere nascosto di fronte a ciò che non tramonta mai?» (Eraclito, detto n. 16).

Video della mostra 

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