Skip to content


Astratto / Figura

Painting is back
Anni Ottanta, la pittura in Italia

Gallerie d’Italia  – Milano
A cura di Luca Massimo Barbero
Sino al 3 ottobre 2021

In tutti gli ambiti del sapere è giunto il momento di oltrepassare i dualismi, di sostituire agli elementi che l’un l’altro si escludono quelli che invece reciprocamente si integrano, dando in questo modo vita e spazio a uno sguardo sul mondo che comprenda meglio la sua complessità e ricchezza fatta di differenze che proprio in quanto differenze plasmano un’identità fatta di gloria. Tale dinamica vale in primo luogo per la teoresi, per la filosofia che è «das sagende Bauen am Seyn durch Erbauen der Welt als Begriff», ‘il dire che edifica l’Essere tramite la costruzione del mondo come concetto’ (Heidegger, Schwarze Hefte 1931-1938 – Überlegungen IV, Vittorio Klostermann 2014, p. 212). E poi vale per la vita collettiva-politica, ormai al di là dei paradigmi topologici nati con il 1789; vale per la fisica, che integra la materia/energia sia come onda sia come particella; vale per l’arte, in particolare per la distinzione tra figurativo e astratto.
La percezione è sempre astratta perché è fatta di una miriade di elaborazioni cerebrali che partono dai sensi e si trasformano poi in forme; ed è sempre figurativa poiché tali forme assumono un ordine senza il quale la presa del corpomente sul mondo non sarebbe possibile. Anche questo è la Gestalt, è la Forma. Che è principio gnoseologico, ontologico ed estetico.

Il superamento del dualismo tra astratto e figurativo è evidente nella mostra che la sede milanese delle Gallerie d’Italia dedica alla pittura italiana degli anni Ottanta del Novecento. La divisione in decadi è sempre convenzionale e artificiosa ma in questo caso risulta accettabile perché indica non un arco cronologico ma una tendenza plurale e rizomatica che si origina prima di quel decennio e continua nel presente. La tendenza al gioco, decisamente. A un divertimento della costruzione che dall’artista si trasmette a chi osserva le opere, le gusta, sorride. Davvero un piacere nato dal giocare con le forme, dal divertirsi con i colori, con le invenzioni, i titoli, le citazioni, la possibilità di trasformare in ‘arte’ la materia che si tocca.

Materia mitologica come nelle splendide opere di Salvo che attingono ai templi e alla luce di Sicilia, ai suoi paesaggi con rovine, all’orgogliosa ironia dei 31 siciliani; mito che emerge anche nel Gilgamesh di Gino De Dominicis.
Materia storica come quella di Luigi Ontani che gioca con Mantegna e con Tiepolo nella sua Camera dei celibi.
Materia animale in Mario Merz e in numerosi altri che riscoprono e fanno propria la potenza della vita che intride le specie non umane.
Materia aritmetica, ancora in Merz che attinge alla serie di Fibonacci e materia simbolica nel Cinèma di Nicola De Maria e nei suoi Cieli degli uccelli – gridi sulla testa.
Tra i numerosi artisti presenti in mostra emergono in particolare Emilio Tadini con il suo Oltremare turchese di pienezza (qui sotto) e le opere di Enrico Baj. Tra queste una, bellissima, fatta di bianco, grigio e nero esplodenti e sprofondanti, il cui titolo è davvero un’epitome dell’arte oggi: Vedeteci quel che vi pare (immagine di apertura).
Infine, in tutti questi artisti e in tutte le loro opere sta anche la figura umana immersa nel colore, a esso consustanziale. Un cromatismo intenso, splendido, parlante.

Il proprio stesso significare

Les Citoyens
Uno sguardo di Guillermo Kuitca sulla collezione della Fondation Cartier pour l’art contemporain
Palazzo della Triennale  – Milano
Sino al 12 settembre 2021

Una scelta, operata da Guillermo Kuitca, di luoghi, immagini, video, musica, installazioni, affreschi rupestri contemporanei; materiali di varia natura e fattura, tra i quali molte ceramiche e tanto legno. La reinvenzione degli strumenti dell’abitare (Absalon, Propositions d’habitation, 1990; Thomas Demand, Studio1997); registrazioni/documentazioni di eventi sciamanici (Tony Oursler e Taniki, uno sciamano yanomami 1978-1981); objets détournés, oggetti spogliati della loro funzionalità in un processo di metamorfosi materiche (Richard Artschwager); migliaia di Polaroid scattate in tre giorni, alcune delle quali compongono delle grandi immagini (Daido Moriyama, 1997); un film d’animazione in 3D, raffinato e assai bello, di Moebius: La Planète encore (2010); gli ambienti onirici dei film di David Lynch dentro i quali si entra accompagnati dalla voce di Patti Smith; ancora di Lynch alcuni potenti Nudes [qui sopra nell’immagine di apertura], il corpo femminile decostruito, inquietante, gorgòneo, che sempre scatena il desiderio. E poi case leggere, cornici seriali con dentro il nero, onde di grigi sulla superficie della tela, cieli stellati.
Soltanto i grandi spazi del Palazzo della Triennale possono consentire una simile mostra. La quale dà ragione a un’affermazione di Gianni Vattimo: «Gli artisti […] non producono più, o producono sempre meno, oggetti belli che si possa desiderare di comprare, possedere, collezionare […] Si orientano sempre di più verso la produzione di ‘eventi’ – momenti di esperienza collettiva che sappiano coagulare emozioni condivise» (Introduzione all’estetica, a cura di L. Amoroso, ETS 2010, p. 86).
In questo modo ciò che chiamiamo arte viene disseminato nell’intero, nell’evento-mondo. L’arte come performance, l’arte come spettacolo, l’arte come ‘qualsiasi cosa è arte’ si possono intendere a fondo se comprendiamo che il contemporaneo è fatto di impermanenza, di dissonanza, di radicale temporalità.
A questo esito si è giunti anche attraverso lo snodo fondamentale rappresentato dal formalismo. Al di là, infatti, delle letture sociologiche e psicologiche dell’opera d’arte, la pratica artistica contemporanea pensa -in modo più o meno radicale ma pervasivo- all’opera come pura forma che si fa poesia; nell’opera d’arte i significanti non rinviano a un qualche significato ma soltanto a se stessi. Ha poco senso chiedersi ‘che cosa significa’ un’opera perché l’opera -qualunque forma assuma- significa semplicemente se stessa. L’opera d’arte non significa quindi nulla al di là del proprio stesso significare.
Giovanni Gentile ha ben argomentato l’«assoluto formalismo» dell’arte (Filosofia dell’arte, in L’attualismo, Bompiani 2014, p. 1055). Si tratta di una posizione vicina a quella di Giuseppe Frazzetto, per il quale dal Neoclassicismo in avanti l’arte si è trasformata da poíesis, «l’agire che ha fuori di sé il proprio scopo», in una pràxis che ha «il proprio fine in se stessa» (Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione, Fausto Lupetti Editore 2017, p. 43). L’arte diventa il luogo, l’esperienza, la dinamica che supera il dualismo di soggetto e oggetto, di pensiero e mondo, immergendo il pensiero nel mondo e facendo scaturire il mondo dal pensiero. L’arte tende a coincidere con la vita, con il gioco gratuito delle forme.
Senza comunque dimenticare, di fronte alle modalità e agli esiti a volte artificiosi delle opere esposte alla Triennale, la cruda confessione di Pablo Picasso, il quale nel 1951 a un giornalista italiano che lo intervistava così rispose: «Grandi pittori sono stati Giotto, Tiziano, Rembrandt e Goya: io sono soltanto un tipo che diverte il pubblico, che ha capito il proprio tempo e ha sfruttato come meglio ha potuto l’imbecillità, la vanità, la cupidigia dei suoi contemporanei» (in Carlo Sini, Idioma, la cura del discorso, Jaca Book 2021, pp. 117-118).

Primavera

Canto di primavera (che colore avrà il futuro?)
fOn Art Gallery – Aci Castello (Catania)
Fondazione OELLE Mediterraneo Antico
Sino al 2 maggio 2021

Contaminazione tra materiali diversi: acquarelli, fotografie, plexiglas, pitture a olio, polvere dell’Etna, salvagenti. Fantasia, freschezza, invenzione. Una meditazione mai banale sul presente estetico che diventa sguardo critico sul presente sociale e politico. Il bisogno di dire, di esserci nella presenza della materia, di cantare le forme che trasformano la materia in significato. L’accostamento di artisti ben noti, come Piero Guccione, e di giovani e meno giovani che hanno il talento, la passione, lo sguardo che l’arte è sempre quando non è semplice affare.
Anche tutto questo è capace di generare la vis pedagogica, oltre che il magistero estetico, di Carmelo Nicosia, le cui mostre organizzate dalla Fondazione OELLE non deludono mai. In questo caso le opere si stagliano sul mare siciliano, sul mare di Aci Castello, sullo Ionio. Ne vengono illuminate, accarezzate, avvolte. La luce si diffonde sull’Etna Eruption di Ezio Costanzo, una scala di grigi a disegnare la potenza del vulcano; sull’Eden attraversato da una ferita di Anna Tusa; sul Giardino Kimbei di Ivan Terranova, una magnifica metamorfosi in 12 tondi di un’antica foto giapponese; sul dinamico Man in red di Carmelo Bongiorno.
E altro ancora, nello scandire dei colori, dell’armonia, del canto che invade di sé lo spazio di questa primavera, del futuro.

Santi e sinestesie

Performing PAC. Made of Sound
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
Sino al  13 settembre 2020

La mostra si apre con un video di Laurie Anderson che nel 2003 suona al Pac un violino elettronico dal quale ricava le sue note antiche e nuove. I video e le installazioni degli altri cinque artisti sono in qualche modo sotto il segno di questo incipit.
Invernomuto –Vers l’Europa deserta, Terra Incognita, 2017– racconta luoghi e persone mediante inquadrature che svelano lentamente e caoticamente gli ambienti. Troppo caoticamente però e la narrazione è stanca, già vista, ripetitiva.
Pamela Diamante –Generare corpi celesti / Esercizi di stile, 2020 (musica di Marco Malasomma) e Note, 2017– porta a ulteriore esasperazione la tendenza manierista di non pochi esperimenti visuali ma è comunque l’unica tra gli artisti presenti a proporre qualcosa che sia anche pittura: due fregi seriali ripetuti come brani.
Barbara and Ale –The sky is falling, 2017– disegnano il bianco del suono sul vibrato del paesaggio fatto di nuvole cupe, immobile ghiaccio, cime rocciose.
João Onofre –Untitled (N’en Finit Plus), 2010/11– filma un canto solitario dentro la terra.
L’opera più significativa e coinvolgente è di Jeremy Deller e Nick Abrahams: Our Hobby Is Depeche Mode, 2006. Le interviste, le parole, le esperienze, la malinconia, gli abiti, i canti di alcuni fan(atici) dei Depeche Mode vanno al fondo della cultura pop, della genesi degli idoli, della società dello spettacolo. I luoghi sono i più diversi: da Basildon (GB), città d’origine del gruppo, a San Pietroburgo, da New York a Mosca, dalla California alla Germania, da Bucarest all’Iran, da Berlino a Cambridge.
In Romania la scoperta dei Depeche Mode coincise con la fine del comunismo; i ragazzi rumeni parlano della «rivoluzione» che li ha aperti alla musica pop; anche in Iran i cultori dei Depeche Mode parlano di «rivoluzione» ma stavolta per indicare quella islamica, che invece alla musica pop ha posto il divieto. In Russia il culto della personalità è transitato da Lenin ai Depeche Mode, e questo dice molto sulla debolezza delle ideologie e sulla forza invece del desiderio. Il film fa luce sulla natura dei simboli, sul bisogno che gli umani hanno di venerare delle divinità molteplici, sulla saggezza quindi della Chiesa Romana che ha sussunto le divinità del politeismo nel suo pantheon di santi. Un elemento fondamentale delle fede cristiana, questo, che i protestanti non vogliono proprio capire e anche per questo le loro chiese sono ormai al fallimento.
I fedeli dei Depeche Mode spiegano il loro culto in molti modi. Parlano di «una musica per le persone sole»; «un senso di tragedia e di disperazione, una sensazione mistica»; «ci aiutano a vivere, ci aiutano a sopravvivere». Molte di queste persone tengono in casa degli altarini con i loro idoli. Uno mette dei fiori e brucia incenso sotto le foto dei DM. E il film stesso di Deller e Abrahams crea, mostra, documenta la comunità internazionale dei credenti nei Depeche Mode.
E questo conferma quanto scrive Gianni Vattimo: «Gli artisti […] non producono più, o producono sempre meno, oggetti belli che si possa desiderare di comprare, possedere, collezionare […] Si orientano sempre di più verso la produzione di ‘eventi’ – momenti di esperienza collettiva che sappiano coagulare emozioni condivise» (Introduzione all’estetica, a cura di L. Amoroso, ETS, Pisa 2010, p. 86) e conferma le tendenze profonde individuate da Giuseppe Frazzetto a proposito della continuità/differenza tra la cosiddetta arte e la cosiddetta vita: «L’anti-arte come identità fra arte e vita (col sottinteso dell’eliminazione di una differenza tra artista e non artista: la differenza costituita dalla competenza produttiva dell’artista)» (Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione, Fausto Lupetti Editore, Bologna 2017, p. 203).

Scultura / Luce

Cerith Wyn Evans “….the Illuminating Gas”
Milano –  Hangar Bicocca
A cura di Roberta Tenconi e Vicente Todolí
Sino al 23 febbraio 2020

Fin dal suo titolo la mostra di Cerith Wyn Evans rende omaggio a Marcel Duchamp, alla sua enigmatica opera postuma dal titolo Étant donnés: 1º la chute d’eau, 2º le gaz d’éclairage, espressione quest’ultima che in inglese viene tradotta con the Illuminating Gas. La mostra consiste in sculture di luci, in sculture sonore che producono armonie e dissonanze, in chilometri di tubi al neon sospesi nello spazio a formare segmenti, linee, cerchi, ellissi, arabeschi, scarabocchi, rettangoli, stelle. Tutto questo preceduto da sette colonne luminose che si elevano toccando quasi l’alto soffitto dello Hangar Bicocca.
È la luce a costituire il più potente e pervasivo Zeitgeber, il segnatempo al quale i corpi animali e vegetali affidano la regolarità delle proprie strutture vitali. La luce permette di sincronizzare i ritmi endogeni con quelli esterni del giorno e della notte e permette dunque ai corpi di sincronizzarsi con il volgere della Terra e del Sole.
Nello spazio tanto enorme da apparire quasi vuoto della navata dello Hangar le opere di Evans sembrano epifanie germinate dalla terra e provenienti dal cosmo. Una vera e propria metafisica della luce come vita trasparente a se stessa, come vita sensata. Metafisica che scaturisce dal fatto che dentro l’esistere, dentro il suo enigma, la meraviglia è una luce che illumina il cieco muro del reale, che rende comprensibile la forza abbagliante di ciò che c’è ed esiste. La relazione tra la presenza e l’assenza è uno dei nuclei stessi della metafisica, la quale è un discorso sul visibile a partire dall’invisibile. Anche per questo, in relazione alla mente umana, la verità assume la struttura di una luce che affranca dall’errore.
La metafisica è la comprensione di una verità semplice e profonda, quella per la quale l’essere è analogo alla luce, la quale può essere vista soltanto quando tocca gli enti, rimanendo di per sé non visibile. Come, appunto, l’essere. L’intero pensiero umano sul mondo, ciò che chiamiamo cultura nella varietà delle sue espressioni -tra le quali l’arte, la religione, la filosofia- è il ripetuto tentativo di comprendere questo gioco dell’invisibile e con esso il mondo.
Τὸ μὴ δῦνόν ποτε πῶς ἄν τις λάθοι; «Come potresti rimanere nascosto di fronte a ciò che non tramonta mai?» (Eraclito, detto n. 16).

Video della mostra 

Terre / Popoli / Confini

Australia. Storie dagli antipodi
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Eugenio Viola
Artisti in mostra: Vernon Ah Kee, Tony Albert, Khadim Ali, Brook Andrew, Richard Bell, Daniel Boyd, Maria Fernanda Cardoso, Barbara Cleveland, Destiny Deacon, Hayden Fowler, Marco Fusinato, Agatha Gothe-Snape, Julie Gough, Fiona Hall, Dale Harding, Nicholas Mangan, Angelica Mesiti, Archie Moore, Callum Morton, Tom Nicholson (with Greg Lehman), Jill Orr, Mike Parr, Patricia Piccinini, Stuart Ringholt, Khaled Sabsabi, Yhonnie Scarce, Soda_Jerk, Dr Christian Thompson AO, James Tylor, Judy Watson, Jason Wing and Nyapanyapa Yunupingu.
Sino al 9 febbraio 2020

Nel 1770 il capitano inglese James Cook toccò le coste dell’Australia e ripetè il gesto del suo collega italiano Cristoforo Colombo, prendendo possesso in nome dei propri sovrani di una terra che era di altri ma che venne definita vuota, disabitata. Gli umani che la abitavano non contavano evidentemente nulla. La violenza contro i veri australiani –veri nel senso semplice ma fondamentale che abitavano quella terra da molto tempo prima che arrivassero gli occidentali– appare assai chiara nell’opera forse più politica di questa mostra: Salvado de Que? (2019) di Archie Moore. Si tratta di una grande bandiera verticale di colore blu, lo stesso colore della bandiera australiana, sopra la quale c’è scritto Salvado. Ai piedi della bandiera ci sono tracce di sangue. Il sangue dei popoli aborigeni che dal 1910 al 1970 videro molti dei propri figli sottratti ai genitori per essere educati al modo occidentale e nella fede cristiana. L’immagine qui sopra è invece di Khadim Ali (Untitled 2, dalla serie Fragmented Memories, 2017-2018) e costituisce un complesso tentativo di sintetizzare il passato e il presente dell’Australia, fatti anche di genocidi degli antichi abitatori.
Quando nessuno sarà più così buono e così filantropo da dedicarsi in questo modo alla salvezza degli altri  popoli, ad esempio con guerre democratiche e umanitarie, il rispetto e la libertà saranno meglio garantiti nelle vicende umane.
Quando nessuno sarà più così buono e così globalista da ignorare il fatto che Homo sapiens è un animale tanto nomade quanto fortemente territoriale, allora popoli e comunità eviteranno di farsi massacrare, sottomettere o sostituire come accadde agli accoglienti popoli centro americani con gli spagnoli, agli aborigeni australiani  con i britannici (i Native [2019] dell’immagine-parola di Tony Albert) e come può accadere all’Europa stoltamente ingenua del XXI secolo.
Ask us what we want, still (2019) di Jason Wing denuncia giustamente il furto di terra perpetrato da Cook, perché la terra, le proprietà, i confini, prima di essere delle astrazioni ideologiche costituiscono delle realtà antropiche. Chi non ne tiene conto è -appunto– o un ‘crook’, un criminale, o una vittima dei criminali. Per inciso, le attuali politiche sull’emigrazione della nazione australiana sono tra le più dure e severe al mondo: in pratica la quasi totalità di coloro che cercano di entrare illegalmente in Australia viene respinta e rimandata da dove è venuta. Per usare il linguaggio degli europei accoglienti, si tratta di un Paese dai tratti ‘fascisti’. E tuttavia i nostri bravi democratici non ne fanno parola. Forse perché quando è così lontano il ‘fascismo’ si scolora?
Insieme a quelle di Moore e Wing, il PAC ospita le opere di altri 30 artisti australiani contemporanei, dando la possibilità di conoscere la varietà e la ricchezza della cultura figurativa di quel Paese-Continente. Opere che si possono descrivere come un tentativo di tenere distinti ponendoli in dialogo tra loro concetti come paesaggio/artificio, autoctono/esterno, digitale/materico (ad esempio i power point di Agatha Gothe-Snape e gli scheletri costruiti con il vetro di Fiona Hall), corporeo/astratto (da una parte il corpo di Jill Orr che si mescola letteralmente e profondamente con la terra, gli alberi, gli elementi e dall’altra parte i segni arcaici di James Tylor).

Sullo sfondo, la coppia fondamentale costituita da natura/cultura, la cui esemplificazione più interessante sono i video e le fotografie di Maria Fernanda Cardoso –On the Origins of Art I-II (2016)-che documentano alcuni momenti della vita di un piccolo ragno australiano, Maratus (qui sopra). L’esistenza di questo animale è ragione sufficiente per mettere in discussione una delle tante convinzioni antropocentriche, quella che anche Karl Marx espresse nella sua nota affermazione secondo la quale «il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera» (Il Capitale, libro I, sezione III, primo capitolo ‘Processo lavorativo e processo di valorizzazione’). E invece le immagini di Cardoso mostrano il maschio di questo insetto corteggiare la femmina mediante danze, suoni, colori. Un cromatismo denso ed espressionistico, per il quale si potrebbe capovolgere l’affermazione marxiana e dire che c’è nella testa del ragno un’idea ricca e complessa che lo induce a produrre movimenti e a generare forme in vista di uno scopo che gli è chiaro prima che si metta in azione.
È pensata e agita l’armonia delle forme della quale è capace un qualunque maschio Maratus, la cui femmina deve evidentemente essere a sua volta capace di valutazione critica, potendo accettare o respingere le offerte erotico-artistiche del suo corteggiatore. Forse l’errore sta nella scala assiologica, nell’ossessione umana di costruire gerarchie di valori dove ci sono delle semplici differenze. Quelle per le quali la body art che gli aborigeni d’Australia hanno coltivato per millenni non è peggiore o migliore, ad esempio, dell’arte barocca. Sono entrambe delle coinvolgenti manifestazioni della natura poietica di Homo sapiens, del suo incessante costruire mondi intorno e dentro di sé. Anche Patricia Piccinini costruisce opere -come Kindred (parenti, affini, 2018)– nelle quali risaltano gli elementi di continuità tra la specie umana e gli altri primati, in questo caso gli orangutan.
Questo e molto altro, soprattutto i numerosi video di vari artisti, è detto ed espresso in forme e modalità che confermano come tutta l’arte contemporanea sia arte concettuale.

Animismo

Daniel Steegmann Mangrané
A Leaf-Shaped Animal Draws The Hand
Hangar Bicocca – Milano
A cura di Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli
Sino al 19 gennaio 2020

Le installazioni, i video, le invenzioni, l’arte di Daniel Steegmann Mangrané costituiscono un inveramento e una chiara espressione dell’antropologia amerindia studiata da Eduardo Viveiros de Castro in Metafisiche cannibali e in altre opere.
Nelle analisi dell’antropologo brasiliano e nelle strutture create dall’artista catalano si manifesta infatti lo stesso paradossale antropocentrismo ecologico delle culture amerindie, ecologico nel senso che l’οἶκος di tali culture ritiene che tutto sia umano, che non si dia distinzione gerarchica tra chi in questo momento appare umano e gli altri animali, vegetali, pietre, oggetti. Tutte queste strutture costituiscono dei centri di intenzionalità perché un’intenzione è sempre un rapporto con l’alterità, di qualunque tipo sia la materia che entra in relazione con altra materia, con altri centri di esistenza e resistenza del mondo. Tutti gli animali e ogni altra componente del cosmo sono persone in quanto nel contatto possono sempre inglobare, divorare, trasformarsi, divenire. È questa la radice e la verità di ogni animismo.
All’opposto dell’evoluzionismo europeo, la differenziazione non parte dalla comune animalità ma si origina dalla comune umanità, tanto da ritenere che sia la natura ad allontanarsi dalla cultura, che sia l’animalità a costituire un’evoluzione della primitiva e originaria umanità. E pertanto dove la posizione occidentale tende a essere multiculturalista, quella dei popoli amazzonici è multinaturalista. Lo sciamano attraversa i confini ontologici non semplicemente raggiungendo una conoscenza dell’alterità ma diventando l’alterità. Il prospettivismo amerindio non è una rappresentazione epistemologica ma è una metamorfosi ontologica.
L’attenzione posta da Daniel Steegmann Mangrané al Fasmide, comunemente noto come ‘insetto stecco,’ ha in questa naturalizzazione della cultura la sua origine. Il Fasmide appare infatti come un ibrido tra l’animale e il vegetale. Quando è immobile, è praticamente impossibile distinguerlo dai rami, dalla vegetazione che lo circonda. Nella mostra l’insetto appare in alcuni video nei quali passa da un ambiente fatto di rami –che lo assorbe– a uno costruito con fogli di carta, dove invece la sua identità/movimento si staglia con chiarezza sullo sfondo artificiale. Ed è presente soprattutto in A Transparent Leaf Instead of the Mouth, definito dal suo autore «un esperimento di biologia e semiotica», potremmo dire di biologia semiotica essendo una struttura chiusa e trasparente dentro la quale terra, piante, animali, convivono nel continuo passaggio dell’uno all’altro. Oltre all’insetto stecco sono presenti infatti delle mantidi e l’insetto foglia, del tutto mimetizzati sino a indurre/costringere l’umano che guarda ad aguzzare lo sguardo, a tentare di risolvere il gioco percettivo tra primo piano e sfondo, in modo da cogliere ogni più piccolo movimento e soprattutto ogni minima differenza tra gli enti presenti in quell’ambiente, in modo da interpretare e separare ciò che si vede e che sembra uniforme, identico. Si può aggiungere che anche gli umani costituiscono probabilmente uno spettacolo per gli insetti che li guardano.
Un ibrido è Table with Two Objects, un lungo tavolo con alle estremità due oggetti, uno naturale l’altro artificiale nel senso di prodotto dall’azione umana; distinguerli è quasi impossibile. Mano con Hojas è un ologramma che mostra una mano dalla quale spuntano foglie; un altro ibrido tra animale e vegetale. Sembra discostarsi Lichtzwang, opera seriale composta da centinaia di piccoli acquarelli su foglietti quadrettati. Anche qui però la maestria tecnica riproduce i ritmi del mondo, creando scansioni semplici e complesse, evidenti e profonde. Ritmica sino a essere quasi musicale è una scultura dal titolo Upsylon, costruita in modo tale da poter ogni volta mutare configurazione mantenendo la costanza della forma.
Tramite alcuni video si penetra dentro la foresta pluviale con uno sguardo in soggettiva che della foresta fa emergere il verde profondo, l’intrico, i rumori, la musica prodotta dalla luce dentro le ombre.
«Se rendiamo più labile la separazione fra gli esseri umani e le creature non-umane –consapevoli di essere tutti parte dello stesso tessuto– cultura e natura diventerebbero un’unica trama. La tecnologia non è soltanto frutto del lavoro dell’uomo, piuttosto mi piace definirla come qualcosa che respira, qualcosa di connaturato alla vita» (Steegmann Mangrané).

Vai alla barra degli strumenti