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Apocalissi

Mercoledì 9 novembre 2022 alle 16,00 nell’aula 27 del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania dialogheremo a proposito di Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica con l’autore Giuseppe Frazzetto.
L’evento è organizzato dall’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU).

Il volto sempre più dissolto dietro e dentro le maschere dell’epidemia conferma «la struttura epico/caotica [che] si orienta verso un sostanziale solipsismo», dissolutore del principio sul quale si fonda l’arte contemporanea, il principio illuministico (ma anche, aggiungo io, cristiano) di ‘una sola umanità’: «Senza quel presupposto non ha molto senso parlare di arte contemporanea. Il riferimento dell’arte contemporanea alla nozione di umanità è un elemento fondativo. L’arte contemporanea nasce e si sviluppa dal presupposto dell’esistenza dell’umanità». E tuttavia il risultato di questo tratto tipico del moderno è una vera e propria tribalizzazione dell’esperienza storica. La divisione in gruppi reciprocamente escludenti costituisce infatti inevitabilmente una delle conseguenze dell’universalismo illuministico, come già i francofortesi avevano intuito.
Il postcontemporaneo scaturisce dunque anche da questo tramonto dell’universalismo, di una concezione dell’umanità astratta e artificiosa, alla quale vengono sostituite dinamiche e dispositivi che Frazzetto chiama «sciamanoidi», che già nel Novecento hanno reso «distante il vicino (l’oggetto quotidiano, perfino l’oggetto sordido)», presentandolo e ponendolo «come traccia d’un che di più reale, promessa d’un significato apocalittico».

 

Forme / Vibrazioni

Ruggero Savinio. Opere 1959-2022
Palazzo Reale – Milano
A cura di Luca Pietro Nicoletta
Sino al 4 settembre 2022

Le stanze assai belle dell’Appartamento dei Principi di Palazzo Reale sono arredate con preziosi mobili dell’Ottocento. In singolare e armoniosa continuità, questo luogo ospita sino al settembre del 2022 alcune opere di Ruggero Savinio, che vanno dalle strutture e modalità più lineari degli anni Sessanta sino allo stile sempre più agglutinato del presente. Sempre però le macchie diventano colori, i colori diventano forme, le forme diventano figure. I gialli e gli azzurri sono intensi, puliti, pompeiani, geometrici, dinamici. Un sentimento panico del paesaggio si esprime come materia che vibra, pigmenti che si fanno tempo. E questo può accadere perché gli oggetti che percepiamo e che ci sembrano stabili – dai sassi alle montagne, dai sorrisi di chi ci sta vicino alle onde del mare – sono in realtà un flusso continuo e continuamente variabile, una vibrazione senza fine, una costante e inoltrepassabile incostanza. Sono tempo.
Spesso i titoli dei quadri sono vergati sui quadri stessi, insieme alla firma e a volte con l’aggiunta di alcuni versi. Roma, città privilegiata dall’artista, appare come densa e dissolta tra il suo pieno e le sue rovine. Un quadro dedicato alla Sicilia scolpisce il blu del mare e del cielo, il rosso dei campi, l’impotenza e la bruttura delle costruzioni, la prospettiva e la fuga delle linee. Forme umane, forme architettoniche, forme paesaggistiche disegnano e fanno emergere «il cuore luminoso delle cose», come si intitola un libro di Savinio. Una luce che ha il sapore di antichi e lunghi crepuscoli invernali, quieti, placati nel silenzio degli spazi.

Astrattismo batterico

Anicka Yi
Metaspore

Hangar Bicocca – Milano
A cura di Fiammetta Griccioli e Vicente Todolí
Sino al 7 agosto 2022

Steve McQueen
Sunshine State

Hangar Bicocca – Milano
A cura di Vicente Todolí
Sino al 31 luglio 2022

Anicka Yi ha raccolto campioni del terriccio milanese, li ha compattati e li espone in grandi teche nelle quali si sviluppano batteri e altri elementi microbiotici, generando forme, consistenze e colori che disegnano pitture/sculture astratte e insieme assai dense. È questa l’opera forse più emblematica e coinvolgente di un’artista che coniuga estetica e biologia; la cui ποίησις sembra far agire e operare la Terra stessa e non l’intenzione umana su di essa.
Un astrattismo batterico che si moltiplica e diversifica nelle altre installazioni dove plastiche, parti di animali, alghe, specie microbiotiche, insetti animatronici dissolvono a poco a poco i salti ontologici tra l’animale, il vegetale, il minerale, l’artificiale, tornando al caos molecolare dal quale ogni ente è venuto al mondo e si è differenziato, mantenendo però sempre il proprio fondamento nel carbonio.
I microrganismi e le strutture di Anicka Yi producono sensazioni olfattive, odori, che nelle intenzioni dell’artista stanno al centro del suo operare. E però di tale risultato non c’è praticamente traccia nella mostra milanese, data la chiusura delle opere dentro involucri asettici che di fatto impediscono di captare gli odori che dalle opere dovrebbero promanare. L’assenza degli odori rende molto meno efficace la fruizione della mostra.
Più evidenti sono invece altre due dimensioni del progetto. Vale a dire l’ibridazione e la temporalità. La prima è evidente nella stretta ontologica che unisce elementi vivi ed elementi morti, batteri e plastiche, manufatti e spore. La temporalità è intrinseca a queste opere, che consistono non di elementi fissi ma di processi organici e chimici destinati in tempi più o meno brevi a deperire,
Biologia, chimica, ingegneria genetica diventano in questo modo opere visibili ed esposte nei grandi spazi dello Hangar milanese.

Spazi che contemporaneamente ospitano sei video del regista inglese Steve McQueen. Opere dimenticabili nella pretenziosa solennità del silenzio e dei suoni sgradevoli che li alternano; che mettono insieme la potenza del Sole e vecchie pellicole del muto ricostruite con la strumentazione tecnica contemporanea; che fanno scendere dentro una delle più profonde miniere terrestri -in Sudafrica- per dare un’idea dell’inferno che però si rivela alla fine noiosamente spettacolare. L’opera più riuscita di McQueen sembra invece la settima. Non è un video ma sono due rocce di marmo rivestite di lamine argentee –Moonlit (2016)- che stanno nello spazio vuoto l’una accanto all’altra, immobili nel sempre. A testimoniare che cosa c’era prima e che cosa rimarrà dopo, quando l’ammasso di cellule, batteri, microrganismi che chiamiamo Homo sapiens sarà finalmente sparito. 

Apocalisse estetica

Recensione a:
Giuseppe Frazzetto
Nuvole sul grattacielo
Saggio sull’apocalisse estetica
Quodlibet Studio, 2022
Pagine 199
in Segnonline
12 febbraio 2022

L’ipertecnologia contemporanea è destinata a capovolgersi, si è già capovolta, in strutture e direzioni reincantate e mitologiche. Questo uno dei risultati ai quali Giuseppe Frazzetto era pervenuto in Epico caotico. Videogioco e altre mitologie tecnologiche (2015).
La complessità e l’identità del Moderno -tema fondamentale delle ricerche di questo filosofo- è tornata a essere oggetto di un’analisi radicale e disvelatrice in Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione (2017), dove viene descritta la metamorfosi dell’artista artigiano nell’artista sovrano, la cui autoinvestitura non si limita a coltivare ciò che la comunità ha seminato ma cerca, afferra e collega tra di loro i frammenti sparsi nel mondo, ai quali è proprio il gesto dell’artista a conferire senso e identità estetiche.
Su queste fondamenta ermeneutiche si eleva il terzo momento di quella che ora appare una trilogia del Postcontemporaneo, capace di pensare non solo l’arte e l’estetico ma il fenomeno umano collettivo in tutta la sua rizomatica struttura.
Il dispositivo del Postcontemporaneo si declina in questo libro in forme molteplici: il tempo di Solaris; la disintermediazione; il me/mondo; la vita/mashup; l’estraneità; la biopolitica; il collettivo; la dinamica μ; l’eschaton/katéchon; l’apocalisse. Come si vede, è qui all’opera una creatività lessicale che è chiara espressione della fecondità teoretica di Frazzetto.
Nella recensione pubblicata in Segnonline non compare una citazione da p. 196 che vi avevo inserito e che recupero qui. Parole con le quali Frazzetto esprime una delle tonalità che pervadono il libro: la malinconia.

«Quanta malinconia! Malinconia di Gloria. La malinconia che affligge “Io, un altro” come un dono indesiderato eppure non restituibile, la malinconia che “Io, un altro” considera un premio, o forse il Bene.
Quanta malinconia! Lo stato d’animo dei residenti nel Limbo, al di qua / al di là da scansioni temporali quali l’attesa apocalittica e l’eterno rinvio catecontico.
Quanta malinconia! La malinconia del vedere il non vedibile “attraverso una nuvola”. La dinamica μ tenta di trovarvi una ”felicità che cade”, ineffettuale ed essenziale, amichevole e terribile, amara ed estatica – come talvolta accade “nel risveglio”».

Breath / Ghosts / Blind

I corpi di Cattelan
in Vita pensata
n. 26, gennaio 2022
pagine 115-116

È a partire dalla Lichtung, dal lampeggiamento che si apre nell’oscuro di un bosco, che è opportuno osservare il divenire. Attraversando respiri e fantasmi di Maurizio Cattelan e avvicinandosi a Blind dalle Navate dello Hangar Bicocca di Milano sembra proprio che si dischiuda una radura, la cui luce percuote e disvela.

Maurizio Cattelan
Breath Ghosts Blind
Hangar Bicocca – Milano
A cura di Roberta Tenconi e Vicente Todolí
Sino al 20 febbraio 2022

Riproduzione

Neïl Beloufa
Digital Mourning
Hangar Bicocca – Milano
A cura di Roberta Tenconi
Sino al 9 gennaio 2022

«Lutto digitale» è una denominazione corretta per questo insieme di installazioni dell’artista francese Neïl Beloufa. Da intendere «il digitale come lutto». Quale funerale si celebra? Quello del significato, la morte della comprensione e quindi, di fatto, del pensare. Digital Mourning costituisce un paradigma di molta e scadente arte contemporanea. Si fonda infatti su alcuni fraintendimenti: Beloufa confonde la tracotanza con la ricchezza, la confusione con lo stimolo, il frastornante con l’ironico.
L’autore colleziona video, sculture, poster, manoscritti, monitor, impianti, set cinematografici e altro dentro un ambiente che accende e spegne l’una o l’altra delle numerose installazioni, creando un vortice visivo e digitale che dalle dichiarazioni esplicite di Beloufa dovrebbe suonare critico nei confronti della società contemporanea ma che di fatto e nelle cose risulta una convinta e profonda giustificazione del presente, della sua manipolabilità, della sua inconsistenza, della superficie. Il pensare è infatti costituito dalla coniugazione del dato e del significato. Il dato da solo è puro empirismo, presa d’atto di qualcosa che c’è. Il significato da solo è l’arbitrio della mente che ritiene di produrre la realtà invece che comprenderla.
È questa una dinamica quotidiana e complessa che nell’attività artistica, scientifica, narrativa, filosofica diventa la necessaria distanza di ciò che viene creato rispetto a ciò che si dà negli enti e negli eventi. E invece l’opera di Beloufa è una riproduzione degli enti e degli eventi, una riproduzione ossessiva e concentrata di ciò che si vive prima e dopo aver visitato la mostra o meglio prima e dopo essersi immersi nei suoi contenuti multimediali. Ma ogni semplice riproduzione di ciò che accade è anche una giustificazione di ciò che accade. Dove non esiste distanza non è neppure possibile la critica.
Tanto è vero, ed è una prova patetica ed emblematica, che l’artista si affanna a descrivere le sue invenzioni, a suggerire significati, a chiedere una partecipazione attiva e critica che evidentemente le sue opere non sono in grado di suggerire e offrire da sole. Si susseguono quindi inviti sonori e ironici come  «per ragioni di sicurezza, si chiede di non pensare» ma sono affermazioni che hanno lo stesso valore di tutto il resto, si inscrivono nella piattezza e nell’obbedienza che il digitale porta sempre con sé e che soltanto uno sforzo di distanziamento può porre su piani diversi rispetto a quelli della riproduzione seriale del dato.
Come se dal puro accrescimento empirico degli oggetti, dei monitor, dei cavi, delle immagini, delle voci potesse generarsi un’intelligenza non passiva del mondo. E invece Digital Mourning è un esempio di opera ideologica, se per ideologia si intende la giustificazione/riproduzione di ciò che esiste, il banale.

Europae / Segno

Europae
Associazione Lyceum – Scuola delle Cose  – Oliveri (Messina)
A cura di Davide Di Maggio e Nino Sottile Zumbo
Sino al 19 dicembre 2021

La disponibilità della Fondazione Mudima di Milano e la tenacia di Nino Sottile Zumbo hanno prodotto un piccolo miracolo, hanno fatto sì che in un paesino della riviera tirrenica della Sicilia convergessero ventotto tra i più importanti artisti del Novecento e del XXI secolo, tra i quali Francis Bacon, Christo, Marcel Duchamp, Lucio Fontana, Mimmo Rotella, Daniel Spoerri.
La poetica Dada e il gruppo Fluxus dominano la mostra di di Oliveri che è «la prima di una serie di mostre sull’Arte moltiplicata: serigrafie, grafiche, multipli, libri  d’artista dei maggiori artisti europei» (D. Di Maggio, La Scuola delle Cose, p. 1). Il titolo della mostra nasce dal fatto che «secondo alcuni linguisti il termine Europa risale all’etimo eurus (ampio) e ops (occhio): l’Europa è continente dall’ampia visione» e uno dei suoi obiettivi è contribuire a «un’Europa non di cartapesta, ma comunità di destino», scrive Sottile Zumbo con accenti heideggeriani (La Scuola delle Cose, p. 2)
Quella di Oliveri è un’antologia del Contemporaneo permeata dai simboli in bronzo di Spoerri, posti quasi a difesa e a significato dell’intero evento, che accoglie invenzioni cinematiche, corpi contratti e insieme dilatati, simboli arcaici, poesie grafiche, il sangue, l’oro, la luce, le linee, i segni, le geometrie, l’astratto e il materico. Che accoglie insomma alcune delle espressioni e dei capisaldi di un’arte la cui tensione verso la purezza della forma svicola, converge e si compie nella centralità ed essenzialità di ogni segno, anche del più piccolo, periferico, apparente; converge nel gioco tra Gegenstand e Bedeutung, tra il dato e il significato, poiché ogni segno è un oggetto/evento composto di significante, significato e riferimento. E questo accade perché l’umano «is a sign; so, that every thought is an external sign. That is to say, the man and the external sign are identical, in the same sense in which the words homo and man are identical. Thus my language is the sum total of myself; for the man is the thought» (Peirce, Collected Papers, 5. 314). Il segno significa in un tessuto di relazioni e regole combinatorie inserite in un mondo più ampio di azioni ed eventi, un mondo che è sempre temporale.
«Ein Zeichen sind wir, deutungslos» (Hölderlin, Mnemosyne, v. 1), siamo un segno che nulla indica. Nulla, al di là di se stesso, del proprio indicare, della vita come segno, parola, concetto, significato che abita in noi e non certo nelle cose e nella materia, che bisogno di senso non hanno. Anche per questo le forme contemporanee significano sempre tutto e non hanno bisogno di significare nulla di specifico, limitato e particolare. Anche per questo l’arte contemporanea, qualunque cosa si indichi con tale espressione, è un’ermeneutica della materia. Poiché  «qualcosa è segno solo perché viene interpretato come segno di qualcosa da qualche interprete» (C.W. Morris, Lineamenti di una teoria dei segni, Paravia 1955, p. 31). La natura più profonda del segno consiste in questo suo legame con la verità molteplice del mondo, nel suo saperla dire, indicare, custodire.
Ed è esattamente questo che le invenzioni molteplici, diverse, enigmatiche e avvolgenti di Europae operano nello spazio: dicono, indicano, custodiscono.

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