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Materia / Simboli

Dubuffet e l’art brut. L’arte degli outsider
Milano – Museo delle culture (Mudec)
A cura di Sarah Lombardi e Anic Zanzi, con il supporto di Baptiste Brun per la sezione Jean Dubuffet
In collaborazione con la Collection de l’Art Brut, Losanna
Sino al 16 febbraio 2025

L’arte del Novecento è un arcipelago ed è un continente. È un grande spazio percorso da strade e itinerari che si intersecano ed è un insieme di isole dalla struttura e dal paesaggio a volte disparati.
Jean Dubuffet (1901-1985) ha chiamato Art Brut uno dei tentativi, nella contemporaneità ricorrenti, di affrancarsi da ogni canone stilistico, psicologico, politico, per attingere al profondo dell’esigenza estetica, cromatica, formale, plastica. Gli artisti scoperti, incoraggiati, sostenuti e collezionati da Dubuffet provengono per lo più da un disagio psichico conclamato, vivono in ospedali psichiatrici o conducono esistenze certamente al di fuori di ogni regolarità.
Ma lo scopo, da Dubuffet pienamente conseguito, è far uscire questi artisti da qualunque catalogazione per cogliere dalle loro creazioni un senso e un significato che vanno al di là della semplice condizione personale.
E questo va fatto sempre. Vale per Tommaso d’Aquino come per Leopardi, per Baudelaire come per Nietzsche. Formuliamo una semplice osservazione: di persone folli il mondo e le istituzioni psichiatriche sono piene ma a dipingere, scolpire, creare manufatti di grande interesse sono ben pochi. Analogamente, di uomini oppressi dall’autorità familiare e in difficoltà con le donne ne esistono a milioni ma ciò non basta per diventare Giacomo Leopardi o qualcosa di simile.
Cancelliamo quindi la genesi personale e guardiamo alle opere, in questa mostra suddivise in una sezione dedicata a Dubuffet e in altre che si riferiscono agli artisti da lui scoperti e ai temi della Credenza e del Corpo.

Le creazioni di Dubuffet sono di grande suggestione. In esse la materia, proprio la materia del quadro, è densissima. In Le Gèologue (1950) ciò che conta non è l’omino geologo che in alto appare intento a osservare una realtà che lo sovrasta ma a contare è questa realtà stessa, questo grande ammasso di materia.


Anche da L’Organique tragique (1957) emergono delle figure umane completamente prive di autonomia, semplici espressioni dell’impasto materico.
Il siciliano Giovanni Bosco (di Castellammare del Golfo, 1948-2009) disegna forme umane accompagnate in ogni anfratto da parole e numeri, da una serie di segni enigmatici e colmi di paradossale armonia.
Giovanni Galli (1954) scandisce sulla carta dei nudi femminili come li potrebbe creare un bambino e li mescola a razzi e a formule fisico-chimiche.
Sono soltanto due esempi italiani di un insieme di artisti, quasi tutti autodidatti, i quali si esprimono con stilemi astratti, figurativi, primitivisti, seriali. Stili e materiali assai eterogenei, anche e soprattutto materiali di uso quotidiano: cartoni, stoviglie, pacchetti di carta, oggetti di plastica e molto altro. Questi elementi sono al servizio di un’ispirazione quasi sempre fortemente mitologica e sacrale, che si esprime e vive in icone, simboli, figure, diavoli, dèi, spiriti, ex voto. Evidente e potente è la presenza di archetipi e ierofanie. E questo conferma che l’umano sembra poter trovare pace soltanto nel sacro, esattamente nella materia sacra.

Dubuffet scrisse che «con Art Brut intendiamo opere eseguite da persone immuni da qualunque cultura artistica. […] Questi autori, pertanto, traggono ogni cosa [soggetti, scelta dei materiali, strumenti, ritmi, stili di scrittura, ecc.] da dentro se stessi e non dai cliché dell’arte classica o dell’arte che va di moda» (L’Art Brut préféré aux arts culturels, Galerie René Drouin, Paris 1949).
In realtà non sembra che sia proprio così. Nonostante infatti siano autodidatti (e alcuni schizofrenici), si tratta di artisti del tutto coerenti con le avanguardie e che appaiono immersi nel loro tempo e nelle proprie culture. Un’altra prova che l’individuo geniale è un’astrazione. A esistere sono le comunità umane, le quali lavorano incessantemente, come singoli e come insiemi, a dare forma e linguaggio ai simboli che germogliano dalla materia, anche dalla materia umana.

Giovanni Bosco, Senza titolo (2006-2009)

Eco della materia

SalvArti
Dalle confische alle collezioni pubbliche

Milano  – Palazzo Reale
Sino al 26 gennaio 2025

Più di ottanta opere sequestrate a esponenti della mafia e di altre organizzazioni criminali. Acquisite definitivamente alla proprietà pubblica, saranno destinate a vari musei, soprattutto del meridione d’Italia. Intanto vengono esposte in diverse sedi, tra le quali Milano.
Le opere in mostra riguardano l’intero Novecento e gli inizi del XXI secolo. Si tratta soprattutto di dipinti e sculture di artisti italiani ma non solo.
Com’è in questi casi naturale, il livello e l’interesse è molto diseguale. Sono presenti anche correnti e artisti che sono stati molto ‘alla moda’ negli anni Ottanta del secolo scorso. In particolare opere della Transavanguardia, il cui cui critico e guru fu Achille Bonito Oliva.
Farò quindi una selezione delle opere che mi hanno più coinvolto, per ragioni estetiche del tutto personali.

Struttura B1 di Luigi Veronesi (1984) sintetizza la magia della pittura geometrica che da Mondrian in poi scandisce lo spazio e i colori ricreando costantemente il reale.

Il Disco con sfera di Arnaldo Pomodoro (2003) riduce alle dimensioni di un oggetto da tavolo le grandi costruzioni pubbliche con le quali questo scultore ha saputo riempire i luoghi di un’armonia del tutto contemporanea ma che ricorda l’antico e che sempre affonda in esso.

Il Paesaggio con alberi gialli di Ottone Rosai scandisce la tela in quattro elementi che sono nello stesso tempo geometrici e vissuti: il bianco e il blu di una strada, il giallo del muro e della dimora, il verde dorato verticale degli alberi, la semisfera della collina.


L’ennesimo Profilo antimilitarista di Enrico Baj (1964) disvela il grottesco che sta dietro e dentro le decorazioni che gli eserciti danno a se stessi, anche per nascondere il loro essere alfieri e pedine della morte.

Per l’infinito di Mirko Pagliacci (1998) saluta la gloria dell’angelo della storia. 

Un angelo è anche il Cupido di Sandro Chia (1996) dell’immagine di apertura, che nel rosso del cuore, nel giallo delle ali, nel verde ramato del corpo esprime la profondità, la malinconia, la forza del sentimento amoroso.
È una piccola scelta tra le tante possibili. Ovunque accadano, siano visibili e riempiano lo spazio, le forme artistiche regalano una luce che è eco della materia, consolazione, pienezza.

Puglia

La Puglia vista dai fotografi dell’Agenzia Magnum
Lecce  – Fondazione Biscozzi-Rimbaud
A cura di Walter Guadagnini
Sino al 5 gennaio 2025

In una piazzetta, accanto a una delle centinaia di chiese che formano il tessuto urbano di Lecce (la chiesa delle Alcantarine), ricavata dal restauro assai sapiente di un antico palazzo, la Fondazione Biscozzi-Rimbaud è uno dei più rigorosi e piacevoli musei d’arte contemporanea che abbia visitato. Attraversando i suoi spazi, salendo per le scale, ammirando la luminosa collocazione di ogni opera, si comprende che l’arte del secondo Novecento non è soltanto truffa, fuffa, narcisismo e «sistema» (lo è in gran parte) ma può costituire – come sempre l’arte fa – anche una espressione profonda della dolente geometria che dalla Prima guerra mondiale in avanti fa del mondo un luogo che è insieme matematico e feroce. Emerge e appare soprattutto una grande pulizia formale nelle opere raccolte dai coniugi Luigi Biscozzi e Dominique Rimbaud. E questo al di là dei nomi (Burri, Melotti, De Pisis e soprattutto Licini), delle correnti, delle tendenze che il museo accoglie e testimonia. Tutte sembrano avere in comune il respiro di una geometria della vita.

Osvaldo Licini, Notturno

Il Museo ospita sino a domani (5.1.2025) una raccolta di immagini che dodici fotografi dell’Agenzia Magnum hanno dedicato alla Puglia dal secondo dopoguerra al presente. 35 fotografie che parlano dell’antropologia, dell’architettura, della miseria, della bellezza che intesse le città, la terra, il mare. E che mostrano quale tesoro di storia, identità, tradizioni, miti sia questa regione. Emblematica è un’immagine di Burt Glinn del 1963. Si intitola semplicemente Bari: tre donne e un uomo, vestiti di scuro. Due di loro emergono come dalle tenebre domestiche, l’uomo è scolpito sullo sfondo chiaro di un muro. La terza donna, seduta, sembra una Parca che fila, aspetta, tronca. Nessuno dei loro sguardi si incontra. I corpi si concentrano tutti nelle mani, in gesti che costituiscono un lungo parlare. Un braccio è diretto verso l’alto, due mani indicano il divenire, altre mani più in basso accolgono il comando. Le ultime sono pronte a recidere. Sono dei corpimito. Stupefacente.

Burt Glinn, Bari (1963)

Macchine / Simboli

Jean Tinguely
Saodat Ismailova
Milano – Hangar Bicocca
A cura di Camille Morineau, Lucia Pesapane e Vicente Todolí, con Fiammetta Griccioli (Tinguely) – Roberta Tenconi (Ismailova)
Sino al 12 gennaio 2025 (Ismailova) e 2 febbraio 2025 (Tinguely)

Jean Tinguely (1925-1991) è uno dei più espliciti ed emblematici facitori d’arte del Novecento. Dico ‘facitore’, prima che il tradizionale ‘artista’, poiché Tinguely è stato un fabbro che ha utilizzato la fiamma ossidrica (e altri analoghi strumenti) come un pennello. Ha tagliato, ritagliato, piegato, plasmato, fuso i materiali più diversi, soprattutto ferro e acciaio. Come si legge infatti nel catalogo/guida della mostra (a p. 1) «al centro del lavoro di Tinguely c’è la macchina, intesa non solo come oggetto funzionale, ma anche come scultura dotata di movimento, suono e di una sua poesia intrinseca. L’artista trasforma oggetti di scarto e materiali recuperati, come ingranaggi e rottami, in sculture meccaniche spesso ironiche, rumorose, cacofoniche, e dotate di vita propria grazie a motori e meccanismi complessi».
È una descrizione semplice ed esatta del modo e dei risultati dell’operare materico e meccanico di questo artista. Una quarantina di manufatti costruiti tra gli anni Cinquanta e Novanta del Novecento trasmettono la fatica costruttiva e la leggerezza dei risultati, il delirio simbolico e il divertimento puro, il legame profondo con la civiltà delle macchine in cui l’Europa consiste, dai meccanismi di Ctesibio ed Erone sino al presente, quando tuttavia si allontana sempre più dallo spessore degli oggetti a favore di un virtuale disincarnato e pallido.
Non a caso se c’è una corrente nella quale poter collocare l’opera di Tinguely, questa è il Nouveau Réalisme. Altri riferimenti sono il vecchio Futurismo, Picasso, Mirò, Calder e naturalmente Duchamp, esplicitamente ricordato e citato da Tinguely in alcune sue opere.
E allora osserviamo e tocchiamo auto di Formula Uno esplose e aperte nello spazio (Pit Stop, 1984);

resti di animali dentro ingranaggi (Mercédès, 1991);


sculture lievi e dense perché fatte di ferro e di ombra (Méta-Herbin, 1955)

e anche un delicato affresco tridimensionale e d’acciaio, che emerge da uno sfondo retroilluminato (immagine di apertura: Requiem pour une feuille morte, 1967).
Manufatti, idee e sculture – queste e altre – che sembrano sopravvissute a una catastrofe che ha dissolto le cellule, lasciando la meccanica, permanendo l’acciaio. 

Prima e dopo i grandi spazi dedicati a Jean Tinguely, una sala  a parte ospita i pochi manufatti e i molti video di Saodat Ismailova (1981), un’artista uzbeka, ospite dello Hangar Bicocca con dodici opere dal titolo complessivo A Seed Under Our Tongue.

E qui cambia tutto, qui è il controcanto, qui le costruzioni umane, le architetture, i palazzi, i templi, sono piccole tracce dentro la grande steppa euroasiatica, dentro una vegetazione densa e inscalfibile, dentro i simboli, i fiumi, le montagne, i cespugli, il sacro. E allora si respira, riconciliati con l’intero e con la materia universale, al di là della monotonia della materia meccanica e del suo folle movimento senza direzione, senza senso, senza bellezza.

Ismailova, Due orizzonti

DissacrArte

Domenica 17 novembre 2024 alle 11.00 nella sede della Galleria Carta Bianca di Catania presenterò il numero 20 della rivista Antarès (Bietti Editore), dedicato ai rapporti tra Avanguardia e sacro nell’arte contemporanea. Insieme a me Luca Siniscalco, curatore della rivista, e Fulvia Toscano.

Antarès tocca, saggia, attraversa i territori sempre plurali del sacro: il sacro dei Greci, il sacro alchemico, il sacro cattolico, il sacro ortodosso (non può esserci sacro protestante), il sacro induista, il sacro di altre culture e popoli dell’Asia centrale. E questo anche, come scrive Luca Siniscalco nell’editoriale,  con l’obiettivo di «scoprire le tracce degli antichi dèi, edificando templi al deus adveniens».
Le condizioni per tentare con successo questa scoperta sono rigorose: anzitutto lasciare al loro destino  quelle forme estetiche che sono soltanto espressione, tipicamente moderna, di «un ego narcisistico alle prese con una superficiale interiorità». Un’espressione che Siniscalco mette coerentemente in relazione con il sistema dell’arte, vale a dire con quell’insieme di strutture, azioni, manufatti e informazione che secondo Giuseppe Frazzetto rappresenta il Terzo stato dell’arte.
Per i teorici, gli artisti, i narratori che hanno dato vita a questo numero della rivista, l’arte non è soltanto – è certamente anche – la vita di tale sistema, l’arte non è «mero divertissement, né uno strumento al servizio delle ideologie, bensì una topologia della libertà». Una definizione non soltanto molto bella ma anche e soprattutto molto vera. In questo l’arte è proprio un’espressione filosofica, dato che la filosofia è quasi impossibile dove non si respiri liberamente.
Per non risultare soltanto un divertimento, un ornamento, o l’ennesima espressione della forza delle autorità costituite, l’arte non può ricondursi e ridursi – come giustamente scriveva nel 1994 Alberto Abate – alla Linguistica o alla Psiconalisi, vale a dire al solo significante ma deve sempre puntare al disvelamento di significati. Non di un solo Significato, unico, dominante ed esclusivo, come neppure della «sterile confezione sterminata dei significanti», pronti a dissolversi al primo soffio delle mode del sistema dell’arte o, per dirla in altro modo, dello Zeitgeist, ma di una una molteplicità di significati, i quali emergono dal vedere il mondo e dal comunicare ciò che si è visto. L’arte come ontologia e l’arte come espressione.
Le analisi teoriche, le testimonianze prassiche, le proposte operative di Antarès possono essere ben riassunte in una formula di Luca Siniscalco il quale, riprendendo le affermazioni di alcuni artisti, parla di «un Antico Futuro […] ossia un richiamo all’Origine come ricerca d’Avanguardia, una conservazione estetica capace d’innovare».
Al di là di ogni progressismo e di tutti i conservatorismi il futuro sta nell’origine, sempre.

 

 

Poiesis / Techne

Hangar Bicocca– Milano

Chiara Camoni
Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e Fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentasse

A cura di Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli
Sino al 21 luglio 2024

Nari Ward  – Ground Break
A cura di Roberta Tenconi e Lucia Aspesi
Sino al 28 luglio 2024

Chiara Camoni cerca, raccoglie, plasma, inventa, progetta e costruisce la materia vegetale e minerale. La materia bella. La materia – rami, marmo, sassi, fiori – trasformata in forme religiose, mitologiche, sacre.

Il religioso è un sentimento che si esprime anche in forme istituzionali, in dottrine più o meno rigorose e dogmatiche, in rivelazioni che il fedele può interpretare ma non respingere. Il mitologico è la potenza del racconto che spiega in forme molteplici, contraddittorie, ironiche e violente l’origine del cosmo, il derularsi della materia, l’incarnazione del divino, l’identità con esso dell’umano. Il sacro è l’enigma di un significato assoluto, perduto, sempre tenacemente ricercato e a volte trovato sia in interiore homini  sia nel cosmo, nella tonalità panteistica della sapienza.
Camoni esprime soprattutto quest’ultima dimensione attraverso il fiorire di alberi antropomorfici che diventano idoli ai quali anche accendere candele; attraverso il gioco simbolico di pavimenti a mosaico che sembrano resti di antiche basiliche dove si adora il cielo; 

attraverso marmi, argille, terrecotte che assumono forme zoomorfe come serpenti di pietra sinuosi tra le dee e i pavimenti; assumono soprattutto le forme di leonesse, di cani e di una bellissima, fiera, ieratica lupa.

Lo spazio di Chiara Camoni è tutto alla luce del giorno. Quello di Nara Ward è invece immerso in un buio dal quale emergono anche in questo caso forme e figure simboliche e apotropaiche. Sembrano quindi due mostre in apparente e in parte reale continuità. Ma rispetto alla freschezza materica di Camoni, Ward ripete di continuo il gesto di Duchamp, raccogliendo oggetti di uso quotidiano, elevandoli e trasformandoli in forme archetipiche. E quindi vediamo e osserviamo l’ennesima raccolta di rifiuti, di elettrodomestici, di sanitari. È una discarica plasmata in forme a volte anche pretenziose.
Pretesa che raggiunge il culmine della furbizia con la Home Smiles, una macchinetta per scatolette attraverso la quale – a dire del catalogo – «l’artista raccoglie e vende i sorrisi, offerti dai passanti che si specchiano all’interno di scatolette di latta che vengono poi sigillate» (pp. 23-24). Il fatto che poi questi ‘sorrisi inscatolati’ vengano venduti (a 15 € l’uno) a sostegno dell’organizzazione «Save the Children» aggiunge a questa banale imitazione della Merda d’artista di Piero Manzoni (1961) un’insopportabile patina di compassionevole conformismo.
L’insieme delle due mostre in corso allo Hangar potrebbe essere sintetizzato come un itinerario dalla sacralità della Terra alla ὕβρις della tecnologia, dalla ποίησις alla τέχνη.

In generale, e con riferimento all’opera di Ward ma anche di moltissimi altri artisti e performer viventi, si assiste sempre più all’inevitabile manierismo del contemporaneo. Forse sarebbe da auspicare un’avanguardia che compia opera di rottura con gli epigoni del XX secolo (il plagio di Ward da Manzoni fa anche tenerezza nella sua esplicita mancanza di creatività) ed esprima in forme riconoscibili, in forme altre, in forme distanti, una bellezza pura, metafisica. Senza però indulgere in classicismi e in nostalgie. È difficile, certo, ma ormai è necessario per evitare l’eterno ritorno dell’identico in numerose mostre, in troppi artisti. Una piccola traccia di questa possibilità è un’opera dello stesso Ward che si intitola Wishing Arena (2023); opera che viene presentata in questo modo: «l’artista si misura con l’architettura del sacro» (p. 14) e che nella sua struttura circolare e armonica permette di meditare mentre la si osserva. Torniamo così all’inizio, torniamo all’essenziale.

Kiefer

Anselm
di Wim Wenders
Germania, 2023
Con: Anselm Kiefer
Trailer del film

Da molti anni lo Hangar Bicocca di Milano ospita in modo permanente I sette palazzi celesti di Anselm Kiefer. «Una verticalità immobile  e cangiante» l’ho definita. E tutta la poetica di Kiefer è anche questa verticalità. Il film di Wim Wenders lo dimostra intessendo l’apparire delle opere – poiché di una epifania si tratta  – con la vicenda biografica che ha condotto questo artista visionario dalla collaborazione con Joseph Beuys a un ampliamento sempre più imponente delle immagini, delle costruzioni, degli spazi. Sino a occupare intere ex fabbriche o ettari di terreno per trasformarli in luoghi poietici, dentro i quali sorgono le spose/Lilith; sorgono gli enormi pannelli fatti di ferro, cemento, ondate di colore; sorgono le torri disseminate nello spazio; sorgono le fotografie raccolte in volumi di piombo.
Kiefer appare dunque come un alchimista e un fabbro, la cui fiamma ossidrica vorrebbe illuminare anche la storia recente della Germania, accompagnato dalla lettura costante ed empatica delle poesie di Paul Celan.
Introducendo Celan, leggendo le sue poesie, Kiefer e Wenders parlano anche di Martin Heidegger. Lo fanno con immagini e video che raffigurano il filosofo mentre cammina, con il suo sguardo sempre ironico e magnetico.  Kiefer e Wenders ricordano l’incontro tra Celan e Heidegger a Todtnauberg, nella baita. Celan scrisse in quell’occasione nel libro degli ospiti una frase che accenna all’attesa di una parola. Wenders/Kiefer rilevano che quella parola non è stata pronunciata.
Evidentemente l’ossessione nei confronti di Heidegger è pervasiva e sotterranea anche in un artista così disincantato come Kiefer. Quale parola si attendeva da Heidegger? Una parola di pentimento? Pentimento collettivo o individuale? Una parola di sottomissione ai vincitori? In realtà il punto non è questo, mai. Che ne siano o no consapevoli, i detrattori biografici di Heidegger – da distinguere dai critici teoretici più rigorosi – esercitano la loro moralità non sui «silenzi» e neppure sul «rettorato» ma su altro: sul fatto che per un filosofo di questa grandezza l’etica sia succedanea, secondaria, non necessaria. E invece io credo che anche qui, forse soprattutto qui, sta la grandezza di Heidegger: nell’aver tolto autonomia all’etica e nell’averne fatto la conseguenza dell’ontologia. Ci si comporta per come si è e non si cambia se non nei particolari; «operari sequitur esse», come ricorda anche Schopenhauer riprendendo Pomponazzi.
Secondariatà dell’etica rispetto all’ontologia che con altro linguaggio anche Carlo Emilio Gadda esprime con chiarezza: «Dopo rotto il déclic della molla organica interna, non c’è diti di Vescovo né virtù ed unzione di Sacramento che valga a rimontarne il tic-tac. Il gioco multiplo e avaro degli infinitesimi, delle minime elezioni accumulatrici, della dura disciplina selettrice, s’è scombinato in un blando desiderio di requie, s’è rilassato in un abbandono (alla lubido), o ne’ pisoli della vanità soddisfatta, s’è sdraiato in una eutanasia: l’essere è, da dentro, un morente: per cui la tromba la può suonare a perdifiato, ma suona invano» (L’Adalgisa, Garzanti,  2007, p. 280).
Heidegger ha rifiutato il primato etico della modernità e questo sembra ossessionare e nello stesso tempo affascinare molti interpreti. Ossessiona e affascina anche due artisti come Wenders e Kiefer capaci di cogliere, plasmare ed esprimere il male del mondo. Ancora un passo e capiranno che non c’è niente da chiedere a Heidegger ma c’è soltanto da capire, da conoscere, da sapere. 

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