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Macchine / Simboli

Jean Tinguely
Saodat Ismailova
Milano – Hangar Bicocca
A cura di Camille Morineau, Lucia Pesapane e Vicente Todolí, con Fiammetta Griccioli (Tinguely) – Roberta Tenconi (Ismailova)
Sino al 12 gennaio 2025 (Ismailova) e 2 febbraio 2025 (Tinguely)

Jean Tinguely (1925-1991) è uno dei più espliciti ed emblematici facitori d’arte del Novecento. Dico ‘facitore’, prima che il tradizionale ‘artista’, poiché Tinguely è stato un fabbro che ha utilizzato la fiamma ossidrica (e altri analoghi strumenti) come un pennello. Ha tagliato, ritagliato, piegato, plasmato, fuso i materiali più diversi, soprattutto ferro e acciaio. Come si legge infatti nel catalogo/guida della mostra (a p. 1) «al centro del lavoro di Tinguely c’è la macchina, intesa non solo come oggetto funzionale, ma anche come scultura dotata di movimento, suono e di una sua poesia intrinseca. L’artista trasforma oggetti di scarto e materiali recuperati, come ingranaggi e rottami, in sculture meccaniche spesso ironiche, rumorose, cacofoniche, e dotate di vita propria grazie a motori e meccanismi complessi».
È una descrizione semplice ed esatta del modo e dei risultati dell’operare materico e meccanico di questo artista. Una quarantina di manufatti costruiti tra gli anni Cinquanta e Novanta del Novecento trasmettono la fatica costruttiva e la leggerezza dei risultati, il delirio simbolico e il divertimento puro, il legame profondo con la civiltà delle macchine in cui l’Europa consiste, dai meccanismi di Ctesibio ed Erone sino al presente, quando tuttavia si allontana sempre più dallo spessore degli oggetti a favore di un virtuale disincarnato e pallido.
Non a caso se c’è una corrente nella quale poter collocare l’opera di Tinguely, questa è il Nouveau Réalisme. Altri riferimenti sono il vecchio Futurismo, Picasso, Mirò, Calder e naturalmente Duchamp, esplicitamente ricordato e citato da Tinguely in alcune sue opere.
E allora osserviamo e tocchiamo auto di Formula Uno esplose e aperte nello spazio (Pit Stop, 1984);

resti di animali dentro ingranaggi (Mercédès, 1991);


sculture lievi e dense perché fatte di ferro e di ombra (Méta-Herbin, 1955)

e anche un delicato affresco tridimensionale e d’acciaio, che emerge da uno sfondo retroilluminato (immagine di apertura: Requiem pour une feuille morte, 1967).
Manufatti, idee e sculture – queste e altre – che sembrano sopravvissute a una catastrofe che ha dissolto le cellule, lasciando la meccanica, permanendo l’acciaio. 

Prima e dopo i grandi spazi dedicati a Jean Tinguely, una sala  a parte ospita i pochi manufatti e i molti video di Saodat Ismailova (1981), un’artista uzbeka, ospite dello Hangar Bicocca con dodici opere dal titolo complessivo A Seed Under Our Tongue.

E qui cambia tutto, qui è il controcanto, qui le costruzioni umane, le architetture, i palazzi, i templi, sono piccole tracce dentro la grande steppa euroasiatica, dentro una vegetazione densa e inscalfibile, dentro i simboli, i fiumi, le montagne, i cespugli, il sacro. E allora si respira, riconciliati con l’intero e con la materia universale, al di là della monotonia della materia meccanica e del suo folle movimento senza direzione, senza senso, senza bellezza.

Ismailova, Due orizzonti

Oro / Platone

James Lee Byars
Hangar Bicocca – Milano
A cura di  Vicente Todolí
Sino al 18 febbraio 2024

L’opera e la memoria di James Lee Byars (1932-1997) sono emblematiche di molta arte della seconda metà del Novecento e del XXI secolo. Le sue installazioni, sculture, performance oscillano infatti tra il sublime e il kitsch. Costituiscono quasi degli archetipi di queste due dimensioni delle arti visive e dell’estetica. E lo fanno a partire già dai colori.
Del significato dell’oro e del suo giallo Byars è perfettamente consapevole quando scrive che misterioso è il suo effetto «sulle persone; per alcuni è decadente e insignificante. Per me non è così: l’oro mi proietta verso la dimensione dell’infinitamente mistico. Raramente penso all’oro come a qualcosa di decorativo. Per me è un elemento spirituale» (Depliant della mostra, p. 22). E infatti numerose opere sono ricoperte da una patina d’oro e riverberano un giallo splendente.
Il rosso è affidato alle potenze indicibili, ai demoni, a una sfera composta da 3333 rose che nel periodo della mostra trascorrono da un colore vivissimo all’impallidire, allo sfiorire, al morire. Sempre intatte e di colore giallo sono invece le sfere che compongo la «tomba» che l’artista eresse a se stesso (è la sfera a sinistra nell’immagine di apertura) e la grande Golden Tower che accoglie il visitatore, la cui parte somma appare duplicata accanto alla torre – con la denominazione The Capital of the Golden Tower -, su una base nera che rende ancora più luccicante il riverbero dell’oro.


E dappertutto stanno il cerchio, la sfera, in generale le figure geometriche esemplate anche sul Timeo. «Nell’opera di Platone», scrive Byars «si trova una sublime definizione matematica della bellezza della sfera, in cui tutti i punti sono equidistanti. La superficie è liscia e levigata. Platone la eleva a una delle massime espressioni della bellezza, per poi addentrarsi nel concetto di cosmologia della Terra e dell’interpretazione religiosa» (Depliant, p. 15). Religioso non significa confessionale o fideistico ma attinente alla sfera del sacro, nella quale l’opera di questo artista tenta di immergersi in vari modi, forme, vibrazioni. Sfera del sacro che coincide in gran parte con la natura e la struttura del cosmo. Alcuni esempi sono; The Moon Books, «un grande tavolo rivestito in foglia d’oro sul quale sono disseminate sedici sculture in marmo bianco che rappresentano la luna nelle sue principali fasi – nuova, crescente, piena, calante» (p. 17);

le sfere rosse che compongono Red Angel of Marseille e quelle bianche di The Thinking Field.

Nell’immagine che documenta quest’opera, dietro le cento sfere bianche si intravede l’anfora di The Spinning Oracle of Delfi, riferimento ellenico che pervade l’estetica di Byars. Nei Greci e negli Egizi l’artista trova una spiegazione del vivere e del morire. L’ultima opera da lui realizzata è la monumentale Byars is Elephant (immagine di apertura), che così viene descritta dal curatore Vicente Todolí: 

L’installazione è costituita da due componenti in netto contrasto: da una parte un cangiante telo dorato di grandi dimensioni che pende dal soffitto e si estende fino a coprire parte del pavimento, dall’altra una palla di corda intrecciata, appoggiata su un piedistallo, realizzata con pelo di cammello. Entrambi i materiali sono legati alla storia egizia, ma con significati diametralmente opposti: la corda è un prodotto povero, utilizzato già nell’antichità per issare i blocchi di pietra con cui sono state costruite le piramidi, mentre l’oro è legato alla figura del faraone ed è simbolo di immortalità. L’artista, che aveva trascorso i suoi ultimi giorni a Giza, in una stanza d’albergo da cui poteva contemplare le piramidi, straordinari esempi di forme geometriche perfette, sosteneva che gli Egizi fossero il popolo che più avesse esplorato e compreso il concetto di morte (pp. 16-17). 

Tesi confermata da tutta la storiografia, a partire da Erodoto. Dove la dimensione sacra appare evidente è nelle grandi opere verticali come la Torre d’oro e The Figure of Death, autentico totem composto da dieci cubi di basalto che nella loro semplicità devono qualcosa al monolito di Kubrick , debito che mi sembra evidente anche in altri manufatti di Byars.

A chiudere la sintetica rassegna che ho tentato di questa mostra, segnalo l’installazione nella quale l’oro, la geometria, la sfera e lo spazio sembrano coniugarsi al meglio: la prospettiva con la quale sono strutturate e vengono guardate due opere: The Door of Innocence e The Figure of Question is in the Room, come se l’essere fosse perfetto, come se le forme immortali ed eterne fossero il vero mondo, del quale le strutture diluite e disordinate dentro cui siamo immersi sono soltanto un riverbero. Ancora una volta Platone.

Artificio e ripetizione

Pittura italiana oggi
Palazzo della Triennale – Milano
A cura di Damiano Gulli
Sino all’11 febbraio 2024

Come accade per i libri collettanei, una mostra nella quale sono esposte le opere di 120 artisti (nati tra il 1960 e il 2000) non può che avere una marcata differenza di risultati. Troppe opere, in ogni caso, che impediscono una riflessione adeguata sulle tendenze che esse veicolano e nelle quali affondano. E invece una tale riflessione costituisce un elemento didattico e comunicativo che in questo tipo di mostre non dovrebbe mai essere trascurato.
Gli stili sono naturalmente disparati: la più parte delle opere sono figurative – e questa è la conferma di una tendenza di fondo del presente -, altre sono astratte, concettuali e soprattutto non poche francamente orrende e assai deboli. Emergono infatti in questa esposizione la ripetizione, l’artificio, le citazioni. Peggio ancora, emerge l’adulazione verso alcune mode mediatiche come il riscaldamento globale, la sostenibilità, i neri, le intelligenze artificiali, le pubblicità.
Le misure dei quadri sono per lo più eccessive, come se la pochezza di ispirazione potesse essere colmata dalla vastità delle superfici dipinte. I colori sono cupi o sgargianti, nessuna armonia cromatica naturalmente.
Tra gli artisti almeno accettabili c’è Nicola Verlato, le cui opere sulla vicenda di Pasolini avevo già visto a Matera nel 2022; qui viene proposta la grande tela dal titolo Hostia, che avevo documentato in Pasolini, il mito.

A Verlato si possono aggiungere le geometrie di Stanislao Di Giugno:

Di Giugno, Inutile girarci intorno (2023)

la citazione su citazione di Matteo Fato:

Fato, Madonna che calpesta la pittura (2023)

l’esplicita ripresa della luce di Van Gogh da parte di Stefano Arienti, che costruisce con la plastilina un poster tratto appunto da Van Gogh:

Arienti, Ospedale da Van Gogh (2022)

E infine l’opera appositamente pensata da Roberto Coda Zabetta per il Palazzo della Triennale (in gergo: site-specific) e installata nel cavedio dell’edificio. Si intitola Frana e fango (2023). Osservata da un punto ben preciso dell’interno appare come un dipinto sul muro; nella foto che ho scattato (immagine di apertura) dialoga invece con la finestra e con lo spazio.
Al di là di questi esempi, ben poco e ben brutto. Certo, non è facile doversi inventare sempre nuove soluzioni, forme e ispirazioni; anche l’arte è frenetica, così come tutto l’esistere contemporaneo, tutto il mercato contemporaneo. Non è facile ma in ogni caso questa è una mostra da non visitare.

Post

Chen Zhen
Short-circuits

Hangar Bicocca – Milano
A cura di Vicente Todolí
Sino al 21 febbraio 2021

La bauxite, un minerale dal magnifico colore rosso ruggine, si stende e accoglie nella propria sostanza oggetti di alluminio dentro teche riempite d’acqua. Dei letti vengono piegati sino a diventare strumenti musicali a percussione. Centinaia di vasi da notte, di comune uso in Cina, compongono strutture architettoniche e sonore. Piccoli Buddha sono appesi a rami di bambù. Oggetti rituali formano ovali, gabbie, protezioni. Automobili ormai immobili sono coperte da tante automobiline in miniatura, così come un barcone abbandonato pullula di soldatini giocattolo. Tavole rotonde nelle quali a sedersi sono 29 sedie di foggia, stili ed epoche diverse.
E così via, e così via. In una metamorfosi del mondo e dei suoi oggetti che Chen Zhen ha chiamato transesperienze. Che arrivano al culmine in due delle 24 installazioni ospitate nello Hangar Bicocca.
La prima si intitola Purification Room (2000; immagine di apertura) e consiste in una miriade di oggetti d’uso quotidiano che però stavolta hanno perduto il loro cromatismo artificiale e malinconico e sono ora rivestiti tutti di una spessa coltre di argilla grigia, come se τὸ ἄπειρον (Anassimandro), la polvere e l’energia della materia e del tempo, avessero ricoperto da millenni ciò che gli umani nelle loro vite ebbero la ventura di produrre.
Come se il consumismo fosse stato consumato dai secoli a venire. E la materia artificiale stesse rientrando lentamente e inesorabilmente alla sua fonte, alle molecole, agli atomi, all’ultima e autentica purificazione che è il tornare all’energia della materia e del tempo, all’ἄπειρον dal quale sono sgorgati gli umani e i loro manufatti.
La seconda installazione chiude la mostra e completa davvero questo itinerario dentro il postumo. È anch’essa del 2000, si intitola Jardin-Lavoir. Undici letti colmi dell’acqua che sgorga da una fontana posta loro sopra. Letti riempiti ciascuno di una tipologia di oggetti: giocattoli, monitor, vestiti, televisori, utensili da cucina, libri e altro. Un giardino di meditazione, un camposanto, il cimitero della specie che finalmente si è purificata della propria effimera esistenza ed è tornata alla meraviglia dell’acqua che discende, sino al momento nel quale la Stella che ci illumina  si espanderà nell’ultimo soffio della sua potenza e assorbirà nella propria mortale luce ciò che l’intera Terra e la sua storia saranno stati.
E allora sarà per sempre pace, allora una parola risuonerà per un’ultima volta nelle cose: post. «Sarà come se non ci fossimo mai stati» (David Benatar, La difficile condizione umana, Giannini Editore 2020, p. 245).

 

 

Terre / Popoli / Confini

Australia. Storie dagli antipodi
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Eugenio Viola
Artisti in mostra: Vernon Ah Kee, Tony Albert, Khadim Ali, Brook Andrew, Richard Bell, Daniel Boyd, Maria Fernanda Cardoso, Barbara Cleveland, Destiny Deacon, Hayden Fowler, Marco Fusinato, Agatha Gothe-Snape, Julie Gough, Fiona Hall, Dale Harding, Nicholas Mangan, Angelica Mesiti, Archie Moore, Callum Morton, Tom Nicholson (with Greg Lehman), Jill Orr, Mike Parr, Patricia Piccinini, Stuart Ringholt, Khaled Sabsabi, Yhonnie Scarce, Soda_Jerk, Dr Christian Thompson AO, James Tylor, Judy Watson, Jason Wing and Nyapanyapa Yunupingu.
Sino al 9 febbraio 2020

Nel 1770 il capitano inglese James Cook toccò le coste dell’Australia e ripetè il gesto del suo collega italiano Cristoforo Colombo, prendendo possesso in nome dei propri sovrani di una terra che era di altri ma che venne definita vuota, disabitata. Gli umani che la abitavano non contavano evidentemente nulla. La violenza contro i veri australiani –veri nel senso semplice ma fondamentale che abitavano quella terra da molto tempo prima che arrivassero gli occidentali– appare assai chiara nell’opera forse più politica di questa mostra: Salvado de Que? (2019) di Archie Moore. Si tratta di una grande bandiera verticale di colore blu, lo stesso colore della bandiera australiana, sopra la quale c’è scritto Salvado. Ai piedi della bandiera ci sono tracce di sangue. Il sangue dei popoli aborigeni che dal 1910 al 1970 videro molti dei propri figli sottratti ai genitori per essere educati al modo occidentale e nella fede cristiana. L’immagine qui sopra è invece di Khadim Ali (Untitled 2, dalla serie Fragmented Memories, 2017-2018) e costituisce un complesso tentativo di sintetizzare il passato e il presente dell’Australia, fatti anche di genocidi degli antichi abitatori.
Quando nessuno sarà più così buono e così filantropo da dedicarsi in questo modo alla salvezza degli altri  popoli, ad esempio con guerre democratiche e umanitarie, il rispetto e la libertà saranno meglio garantiti nelle vicende umane.
Quando nessuno sarà più così buono e così globalista da ignorare il fatto che Homo sapiens è un animale tanto nomade quanto fortemente territoriale, allora popoli e comunità eviteranno di farsi massacrare, sottomettere o sostituire come accadde agli accoglienti popoli centro americani con gli spagnoli, agli aborigeni australiani  con i britannici (i Native [2019] dell’immagine-parola di Tony Albert) e come può accadere all’Europa stoltamente ingenua del XXI secolo.
Ask us what we want, still (2019) di Jason Wing denuncia giustamente il furto di terra perpetrato da Cook, perché la terra, le proprietà, i confini, prima di essere delle astrazioni ideologiche costituiscono delle realtà antropiche. Chi non ne tiene conto è -appunto– o un ‘crook’, un criminale, o una vittima dei criminali. Per inciso, le attuali politiche sull’emigrazione della nazione australiana sono tra le più dure e severe al mondo: in pratica la quasi totalità di coloro che cercano di entrare illegalmente in Australia viene respinta e rimandata da dove è venuta. Per usare il linguaggio degli europei accoglienti, si tratta di un Paese dai tratti ‘fascisti’. E tuttavia i nostri bravi democratici non ne fanno parola. Forse perché quando è così lontano il ‘fascismo’ si scolora?
Insieme a quelle di Moore e Wing, il PAC ospita le opere di altri 30 artisti australiani contemporanei, dando la possibilità di conoscere la varietà e la ricchezza della cultura figurativa di quel Paese-Continente. Opere che si possono descrivere come un tentativo di tenere distinti ponendoli in dialogo tra loro concetti come paesaggio/artificio, autoctono/esterno, digitale/materico (ad esempio i power point di Agatha Gothe-Snape e gli scheletri costruiti con il vetro di Fiona Hall), corporeo/astratto (da una parte il corpo di Jill Orr che si mescola letteralmente e profondamente con la terra, gli alberi, gli elementi e dall’altra parte i segni arcaici di James Tylor).

Sullo sfondo, la coppia fondamentale costituita da natura/cultura, la cui esemplificazione più interessante sono i video e le fotografie di Maria Fernanda Cardoso –On the Origins of Art I-II (2016)-che documentano alcuni momenti della vita di un piccolo ragno australiano, Maratus (qui sopra). L’esistenza di questo animale è ragione sufficiente per mettere in discussione una delle tante convinzioni antropocentriche, quella che anche Karl Marx espresse nella sua nota affermazione secondo la quale «il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera» (Il Capitale, libro I, sezione III, primo capitolo ‘Processo lavorativo e processo di valorizzazione’). E invece le immagini di Cardoso mostrano il maschio di questo insetto corteggiare la femmina mediante danze, suoni, colori. Un cromatismo denso ed espressionistico, per il quale si potrebbe capovolgere l’affermazione marxiana e dire che c’è nella testa del ragno un’idea ricca e complessa che lo induce a produrre movimenti e a generare forme in vista di uno scopo che gli è chiaro prima che si metta in azione.
È pensata e agita l’armonia delle forme della quale è capace un qualunque maschio Maratus, la cui femmina deve evidentemente essere a sua volta capace di valutazione critica, potendo accettare o respingere le offerte erotico-artistiche del suo corteggiatore. Forse l’errore sta nella scala assiologica, nell’ossessione umana di costruire gerarchie di valori dove ci sono delle semplici differenze. Quelle per le quali la body art che gli aborigeni d’Australia hanno coltivato per millenni non è peggiore o migliore, ad esempio, dell’arte barocca. Sono entrambe delle coinvolgenti manifestazioni della natura poietica di Homo sapiens, del suo incessante costruire mondi intorno e dentro di sé. Anche Patricia Piccinini costruisce opere -come Kindred (parenti, affini, 2018)– nelle quali risaltano gli elementi di continuità tra la specie umana e gli altri primati, in questo caso gli orangutan.
Questo e molto altro, soprattutto i numerosi video di vari artisti, è detto ed espresso in forme e modalità che confermano come tutta l’arte contemporanea sia arte concettuale.

What Yet Remains

Sheela Gowda. Remains
Milano –  Hangar Bicocca
A cura di Nuria Enguita e Lucia Aspesi
Sino al 15 settembre 2019

What Yet Remains è il titolo-metafora di un’opera del 2017 costruita con ciò che ancora rimane di alcune lastre di metallo dalle quali in India si ricavano i bandli, contenitori sferici di materiali utilizzati dai muratori. L’artista trasforma costruisce inventa anche ciò che rimane dello sterco delle mucche, che diventa combustibile mattoni fertilizzante. Lo trasforma in scultura ritmo simbolo.
Carta e inchiostro ricomposti sono ciò che rimane di tante pagine di giornale.
Edifici, rifugi, monumenti e rettangoli grigi e colorati sono ciò che rimane di innumerevoli bidoni. Dentro uno di essi -dal titolo Chimera (2004)– si muove una spirale e riposa al fondo una luna.
Di molti tessuti rimangono i colori e le forme.
Delle porte rimangono linee, superfici, volumi che si librano nell’aria.
Di molta gomma rimangono tappeti.
Di chilometri di capelli resta la forza verticale.
Di alcune fotografie restano gli umani immobilizzati nell’atto della violenza, nel gesto della rivolta. Nell’opera più enigmatica –Collateral (2007)– rimane la cenere, la corteccia, la polvere.
Della pittura dell’occidente resta Quadrato nero di Kazimir Malevič, un’opera che ha segnato a fondo l’astrattismo.
Nell’arte antica e sacra di Sheela Gowda rimane la materia, τὸ ἄπειρον, l’illimitato, la polvere della terra e del tempo, il suo flusso infinito. La materia minerale, la sua complessità, l’alchimia, l’eternità. Dissolti nell’icona gli umani; degli animali rimaste soltanto tracce; il vivente diventato ricamo combustione segno. Metabolizzati nello spaziotempo le piante i fiori il grano. Rimane soltanto la materia. E basta. Rimane ciò che merita di rimanere. Rimane lo splendore delle pietre.
Il resto è stato un sogno dello spazio, un’invenzione del tempo, una forma votata alla dissipatio, una metamorfosi. What Yet Remains è la gloria.

«L’odeur et la saveur restent encore longtemps»

Io, Luca Vitone
Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
A cura di Luca Lo Pinto e Diego Sileo
Sino al 3 dicembre 2017

L’arte contemporanea è greca ed è wagneriana. Tende infatti a essere opera d’arte totale, Gesamtkunstwerke, a diventare colore, tatto, suono, odore, parola intrecciati, diversi, unici. Le invenzioni/installazioni/spazi di Luca Vitone corrispondono a tale intento.
Vitone ha pitturato l’intero Padiglione d’Arte Contemporanea di un bianco macchiato da spesse punte nere, realizzate con la polvere raccolta nello stesso PAC. Polvere che ritorna in quattro grandi acquarelli monocromi intitolati Raüme (Stanze), dipinti anch’essi con le polveri di alcuni edifici pubblici tedeschi.
Un’opera grafica e sonora è dedicata all’identità delle regioni europee. Le loro musiche tradizionali compongono una cacofonia che si dipana in un brusio universale, il suono stesso degli insetti e della terra che li nutre. Corteggiamenti è fatta di 9 opere in legno, strumenti musicali, luci elettriche. 9 come sono le Muse, che danno infatti il loro nome a ciascuna opera. Imperium è una stanza vuota ma intrisa di sensazioni olfattive, seducenti e insieme aspre. L’ambizione è restituire l’odore del potere. Ultimo viaggio racconta di un’avventura in Persia prima che si trasformasse nell’Iran khomeinista. Una vecchia Peugeot è poggiata sulla sabbia e circondata da immagini di quel viaggio.
Anche altre opere descrivono l’itinerario dei corpimente dentro le memorie individuali e collettive, cantano la polvere del tempo e la nostalgia della musica, meditano l’andare, la sabbia, l’avventura e i simboli: bandiere, anagrammi, strumenti musicali. Domina ovunque la potenza degli oggetti risignificati, risemantizzati, pervasi di ironia e di concetto.
L’intenzione politica di quest’artista anarchico è esplicita. Le due opere all’ingresso sono dedicate alla P2: su una parete il triangolo massonico, su quella di fronte un grande foglio sul quale sono scritti i nomi dei membri della Loggia Propaganda 2, tra i quali ci sono politici, giornalisti, professionisti, dirigenti, banchieri, ancora vivi e facenti danno.
Una mostra politeistica e molteplice, fatta di identità etniche, simboliche, territoriali, e insieme di differenze culturali, estetiche, linguistiche, percettive. La mostra ha altre due sedi milanesi: i Chiostri di Sant’Eustorgio e il Museo del Novecento, come a voler riempire gli spazi di questa bellissima città.
Abbiamo l’arte per non naufragare nell’unicità del comando, della sua spina, e sentire invece che davvero «quand d’un passé ancien rien ne subsiste, après la mort des êtres, après la destruction des choses, seules, plus frêles mais plus vivaces, plus immatérielles, plus persistantes, plus fidèles, l’odeur et la saveur restent encore longtemps, comme des âmes, à se rappeler, à attendre, à espérer, sur la ruine de toute le reste, à porter sans fléchir, sur leur gouttelette presque impalpable, l’édifice immense du souvenir» (Proust, À la recherche du temps perdu, Gallimard 1999, p. 46).

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