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Sulla scienza

Paul K. Feyerabend
CONTRO IL METODO
Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza
(Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, 1975 by NBL)
Trad. di Libero Sosio
Prefazione di Giulio Giorello
Feltrinelli, 2021
Pagine 263

Contro il metodo è uno dei libri più argomentati che siano stati scritti a favore della conoscenza, a chiarimento della sua natura, a difesa del suo progresso, a spiegazione del suo statuto. Un libro pervaso dalla  consapevolezza che una solida e reale acquisizione di conoscenza è possibile, pensabile e praticabile dove si dà libertà metodologica, dove si permette un pluralismo di itinerari, dove a essere rifiutati sono soltanto i dogmi di qualunque natura.
Uno dei risultati di un simile approccio è che «la scienza non ha un’autorità maggiore di quanta ne abbia una qualsiasi altra forma di vita. I suoi obiettivi non sono certamente più importanti delle finalità che guidano la vita in una comunità religiosa o in una tribù unita da un mito. A ogni modo non è compito loro limitare la vita, il pensiero, l’educazione dei membri di una società libera, dove chiunque dovrebbe avere una possibilità di pensare quel che gli pare e di vivere in accordo con le convinzioni sociali che trova più accettabili» (p. 244).
La crescita della conoscenza per Feyerabend non deve essere anarchica, è sempre stata anarchica: «Eventi e sviluppi come l’invenzione dell’atomismo nell’Antichità, la rivoluzione copernicana, l’avvento della teoria atomica moderna (teoria cinetica; teoria della dispersione stereochimica; teoria quantistica), il graduale emergere della teoria ondulatoria della luce si verificarono solo perché alcuni pensatori decisero di non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche ‘ovvie’ o perché involontariamente le violarono» (21). La ricerca più feconda infrange infatti sempre le norme metodologiche stabilite. E questo accade per una serie assai ricca di ragioni.

La prima di esse è che nessuna teoria scientifica o di altro genere è completa e in accordo con tutti i fatti del campo che intende spiegare.
La seconda è che le osservazioni empiriche sono sempre intrise di teoria e non è possibile alcuna teoria che non si riferisca in qualche misura e modalità a delle osservazioni empiriche. «L’apprendimento non va dall’osservazione alla teoria, ma implica sempre entrambi gli elementi. L’esperienza ha origine assieme ad assunti teorici, non prima di essi e un’esperienza senza teoria è altrettanto incomprensibile come (si presume sia) una teoria senza esperienza: se si elimina una parte della conoscenza sensibile di un soggetto senziente si avrà una persona completamente disorientata e incapace di eseguire l’azione più semplice» (137). Il circolo epistemologico tra osservazione e teoresi, tra ‘empirismo’ e ‘razionalismo’ è costante, completo, costitutivo. Esso è stato ben individuato da David Hume, per il quale «le teorie non possono venire derivate da fatti. La richiesta di ammettere solo quelle teorie che derivino dai fatti ci lascerebbe senza alcuna teoria. Perciò la scienza quale noi la conosciamo può esistere solo se lasciamo cadere questa richiesta e rivediamo la nostra metodologia» (55).
L’unione profonda tra fatti e teorie rende necessario un confronto serio e rigoroso con le cosiddette interpretazioni naturali, con il senso comune, con le credenze condivise da un gruppo, una comunità, un’epoca. Nella scienza non si fa mai tabula rasa del passato e nello stesso tempo non si rimane mai ancorati alla tradizione, a ciò che è stato in altre epoche osservato, scoperto, pensato. Anche per questo «l’intenzione di partire da zero, dopo avere eliminato completamente tutte le interpretazioni naturali, è condannata all’insuccesso» (64).
Una terza ragione è che nessun metodo è sicuro e perenne, che «non esiste neppure una regola che rimanga valida in tutte le circostanze» (146-147) e che «tutte le metodologie, anche quelle più ovvie hanno i loro limiti. Il modo migliore per realizzare quest’obiettivo [non sostituire un metodo con un altro] consiste nel dimostrare i limiti e anche l’irrazionalità di alcune norme che vengono di solito considerate fondamentali […] dimostrare quanto sia facile menare per il naso la gente in un modo razionale» (29).
Una quarta ragione è che filosofia della scienza, storia della scienza e storia socio-politica non sono ambiti e saperi tra di loro irrelati ma costituiscono un campo epistemologico all’interno del quale ogni metodologia, ogni ipotesi e ogni legge vanno compresi, utilizzati e interpretati in una prospettiva storica, tanto che «la storia di una scienza diventa parte inscindibile della teoria stessa» (27).

Un esempio di quest’ultima tesi è la vicenda del cannocchiale e in generale il confronto tra astronomia tolemaica e astronomia copernicana, tra dinamica aristotelica e fisica galileiana. La dinamica di Aristotele è molto più generale di quella galileiana e moderna, non limitandosi al solo movimento – al moto locale in ispecie – ma riguardando anche le trasformazioni qualitative, il generarsi e dissolversi degli enti, l’accrescimento e la diminuzione di tutte le componenti in gioco in un fenomeno naturale. Galilei potè procedere all’elaborazione della propria dinamica soltanto circoscrivendo in modo netto questo insieme di linee di ricerca e applicando a quanto rimaneva l’utilizzo di uno strumento che fino ad allora aveva funzionato perfettamente soltanto nell’osservazione terrestre e che potè essere usato in ambito celeste soltanto a condizione di caricare l’osservazione di una densità teorica con la quale cercare di superare «le difficoltà che insorgono quando si cerca di considerare i risultati dell’osservazione telescopica nella loro immediatezza come indicanti proprietà stabili, obiettive, delle cose viste» (102).
Come operò Galilei per convincere i suoi interlocutori e lettori della verità del copernicanesimo rispetto all’aristotelismo tolemaico? Operò come un metafisico e come «un ciarlatano» e questo fu il suo merito, il suo genio, il suo contributo fondamentale all’ampliarsi della conoscenza. Sta qui, in questo giudizio solo apparentemente paradossale, uno dei nuclei fondamentali dell’epistemologia anarchica di Feyerabend. Galilei è Galilei perché non seguì alcun metodo come si pratica una fede religiosa, perché adoperò tutte le risorse e i trucchi retorici nei quali era un vero maestro, perché non si fermò a uno strumentalismo empirista ma ragionò, pensò e scrisse da quel metafisico platonico che era. Quella di Galilei, infatti, «è una nuova idea audace che implica un tremendo salto dell’immaginazione, […] un nuovo genere di esperienza che è non soltanto più sofisticato ma anche assai più speculativo di quanto non sia l’esperienza di Aristotele o del senso comune. Parlando in modo paradossale, ma non sbagliato, si potrebbe dire che Galileo inventa un’esperienza che contiene ingredienti metafisici. Proprio per mezzo di una tale esperienza si realizza la transizione da una cosmologia geostatica al punto di vista di Copernico e di Keplero» (76-77).
Galilei è uno dei massimi esempi della fecondità di risultati e dell’apertura di orizzonti verso i quali conduce il rifiuto dei dogmi più consolidati, ai quali il pisano oppose non un metodo ma una pluralità di metodologie, non l’idolatria dei fatti o delle teorie ma l’invenzione di nuove verità, di altri miti, di una diversa metafisica rispetto alle verità, ai miti e alla metafisica dominanti nel suo mondo. Galilei ci ha aiutato «contro tutti coloro che sono disposti ad accettare un’opinione solo se essa viene espressa in un certo modo e che prestano fede ad essa solo se contiene certe frasi magiche designate come protocolli o rapporti d’osservazione» (24); «Galileo il ciarlatano è un personaggio molto più interessante del misurato ‘ricercatore della verità’ che di solito ci viene additato come esempio da riverire. Infine, solo attraverso giochi di prestigio come questi in tale periodo particolare si poteva far progredire la scienza» (89).

La necessità di un pluralismo metodologico è motivata da numerosi altri fattori. Tra questi, la stretta relazione tra le leggi e i protocolli scientifici e i diversi linguaggi naturali dentro cui leggi e protocolli germinano e dai quali sono resi possibili non come semplice veicolo di conoscenza ma come condizioni stesse di tali conoscenze; circostanza la quale fa sì che non esista alcun linguaggio neutro e universale di osservazione e di interpretazione/resoconto dei dati osservativi ma ogni osservazione abbia senso e formuli i suoi risultati soltanto all’interno di un linguaggio dato, sia esso naturale sia esso scientifico. La questione dell’etere costituisce un caso piuttosto chiaro: «Si dice per esempio che l’esperimento di Michelson e Morley, la variazione della massa delle particelle elementari, l’effetto Doppler trasversale, confutano la meccanica classica e confermano la relatività. […] Se adottiamo il punto di vista della relatività, troviamo che gli esperimenti, che ovviamente saranno descritti ora in termini relativistici, usando le nozioni relativistiche di lunghezza, durata, massa, velocità ecc., sono rilevanti per la teoria, e troviamo anche che sostengono la teoria» (234-235).

In generale, i risultati di un’osservazione vengono espressi e comunicati con i termini e nel linguaggio della teoria che si vuole con essi dimostrare e difendere, quindi in un’altra lingua rispetto a quella delle osservazioni e teorie rivali. Si tratta per Feyerabend di una vera e propria fede linguistica che «non ha perciò alcuna rilevanza obiettiva» e che «continua a esistere esclusivamente come il risultato dello sforzo della comunità dei credenti e dei loro capi, siano questi preti o premi Nobel. È questo, secondo me, l’argomento più decisivo contro qualsiasi metodo, empirico o no, che incoraggi l’uniformità. Qualsiasi metodo del genere è, in ultima analisi, un metodo di inganno. […] Per concludere: l’unanimità di opinione può essere adatta per una chiesa, per le vittime atterrite o bramose di qualche mito (antico o moderno), e per i seguaci deboli e pronti di qualche tiranno. Per una conoscenza obiettiva è necessaria la varietà di opinione. E un metodo che incoraggi la varietà è anche l’unico metodo che sia compatibile con una visione umanitaria» (38-39).
Ne segue che quello scientifico sia soltanto uno tra i più fecondi linguaggi e strumenti inventati dalle società umane per vivere e sopravvivere nel proprio ambiente. Non è l’unico, non è infallibile e non può pertanto diventare troppo potente, esclusivo di altri linguaggi, aggressivo nelle sue conseguenze politiche e sociali. Come ogni fatto umano, anche la scienza è soggetta all’utilizzo politico, alla propaganda, all’ideologia, senza necessariamente dare un’accezione negativa all’elemento politico, alla propaganda, all’ideologia. Essenziale è però che la scienza non si presenti nelle forme colonialiste che hanno caratterizzato alcune delle sue fasi storiche e sulle quali l’analisi di Feyerabend è molto netta:

La scienza moderna schiacciò i suoi oppositori, non li convinse. La scienza si impose con la forza, non col ragionamento (ciò vale particolarmente nel caso delle ex colonie, nelle quali la scienza e la religione dell’amore fraterno furono introdotte come cosa ovvia, e senza consultarne gli abitanti o discutere con essi la cosa). Oggi ci rendiamo conto che il razionalismo, essendo legato alla scienze, non può darci alcun aiuto nel problema dei rapporti fra scienza e mito e sappiamo anche, da investigazioni di genere completamente diverso, che i miti sono molto migliori di quanto i razionalisti non abbiano osato ammettere. Così noi siamo oggi costretti a sollevare il problema dell’eccellenza della scienza […]
Le tribù non vengono soppresse solo fisicamente ma perdono anche la loro indipendenza intellettuale e sono costrette ad adottare la religione assetata di sangue dell’amore fraterno: il cristianesimo. […] La libertà viene recuperata, vecchie tradizioni sono riscoperte, sia fra le minoranze in paesi occidentali sia fra estese popolazioni in continenti non occidentali. Ma la scienza regna ancora sovrana. Essa regna sovrana perché coloro che la praticano sono incapaci di comprendere, e non disposti ad ammettere, ideologie diverse, perché hanno il potere di imporre i loro desideri, e perché usano questo potere esattamente come i loro predecessori usarono il loro potere per imporre il cristianesimo ai popoli in cui si imbatterono nel corso delle loro conquiste (241-243).

Alla luce di tutto questo, la proposta dell’epistemologo anarchico è di affrancare anche la scienza dal principio di auctoritas, come dovrebbe essere nella sua stessa natura, e separare quindi stato e scienza come sono state separate nell’Europa moderna stato e chiesa. Proposta che costituisce il lungo titolo (come tutti gli altri) del diciottesimo e ultimo capitolo:

La scienza è quindi molto più vicina al mito di quanto una filosofia scientifica sia disposta ad ammettere. Essa è una fra le molte forme di pensiero che sono state sviluppate dall’uomo, e non necessariamente la migliore. È vistosa, rumorosa e impudente, ma è intrinsecamente superiore solo per coloro che hanno già deciso a favore di una certa ideologia, o che l’hanno accettata senza aver mai esaminato i suoi vantaggi e i suoi limiti. E poiché l’accettazione e il rifiuto di ideologie dovrebbero essere lasciati all’individuo, ne segue che la separazione di stato e chiesa dovrebbe essere integrata dalla separazione di stato e scienza, che è la più recente, la più aggressiva e la più dogmatica istituzione religiosa. Una tale separazione potrebbe essere la nostra unica possibilità di conseguire un’umanità di cui siamo capaci, ma che non abbiamo mai realizzato compiutamente (240).

Una proposta politico-epistemologica così forte si inserisce all’interno di un’analisi – che percorre tutto il libro e gli dà senso – di ciò che chiamiamo scienza e ciò che definiamo non scienza, le quali devono convivere, collaborare, intersecarsi e interagire a favore di un progresso dell’umanità che sia libero dagli schematismi cronologici dell’idealismo e del positivismo, i quali identificano il dopo con il meglio. In realtà, «in tutti i tempi l’uomo si accostò al suo ambiente con i sensi aperti e un’intelligenza feconda, in tutti i tempi fece scoperte incredibili, in tutti i tempi noi possiamo apprendere dalle sue idee» (250).
Nessuno nega i frutti che molte teorie scientifiche hanno conseguito ma deve essere chiaro che lo hanno fatto all’interno di un più ampio campo di conoscenze e di pratiche, senza le quali non avrebbero potuto conseguire alcun risultato, senza le quali non avrebbero potuto esistere. L’astronomia e la dinamica moderne, ad esempio, «non avrebbero potuto progredire senza quest’uso scientifico di idee antidiluviane. […] Innovatori come Paracelso tornarono a idee anteriori e migliorarono la medicina. Dovunque la scienza si arricchisce con metodi non scientifici e con risultati non scientifici, mentre procedimenti che sono stati spesso considerati parti essenziali della scienza vengono tacitamente sospesi o aggirati» (248-249). Ed è per questo che «anche oggi la scienza può e deve trarre profitto da una mescolanza con ingredienti ascientifici» (249).
La separazione del campo epistemologico in elementi tra di loro irriducibili o in insuperabile conflitto rappresenta un ostacolo al progresso della conoscenza: «se desideriamo comprendere la natura, se vogliamo padroneggiare il nostro ambiente fisico, dobbiamo usare tutte le idee, tutti i metodi e non soltanto una piccola scelta di essi. L’affermazione che non c’è conoscenza fuori della scienza – extra scientiam nulla salus – non è altro che un’altra favola molto conveniente» (249).
Si può dunque dire che come la familiarità con l’idea cristiana di verità costrinse Nietzsche a mettere in discussione la verità del cristianesimo, allo stesso modo l’esigenza di rigore della scienza conduce Feyerabend a demistificare la scienza e ad affermare che «c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene» (25). Qualsiasi cosa serva ad ampliare la conoscenza dell’intricato enigma che il mondo sempre rimane e indagare il quale senza illusioni, chiusure, dogmi costituisce lo statuto e l’obiettivo stesso delle scienze.

[Dedico questo testo ai giornalisti ignoranti, alle miserabili virostar televisive, ai presidi e rettori burocrati, ai politici sadici e deliranti che hanno tentato di imporre il totalitarismo sanitario in nome di qualcosa che dichiaravano essere ‘scienza’ e che invece, come si vede, della scienza rappresenta l’opposto, costituendo piuttosto un’infame pratica oscurantista e autoritaria]

Infiniti mondi

Giordano Bruno
De l’infinito, universo e mondi
(1584)
in «Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici»
A cura di Giovanni Gentile e Giovanni Aquilecchia
Sansoni, 1985
I volume, pagine 343-544 

L’onestà intellettuale di Giordano Bruno gli fa riconoscere la validità di alcuni argomenti di Aristotele, filosofo che pur critica aspramente. Un’onestà che lo spinge a dismettere ogni fede, pregiudizio, dogma. La consapevolezza metodologico-critica che fonda l’opera bruniana è ben espressa da questa affermazione: «Chi vuol perfettamente giudicare, come ho detto, deve saper spogliarsi della consuetudine di credere; deve l’una e l’altra contraddittoria estimare equalmente possibile, e dismettere a fatto quella affezione di cui è imbibito da natività» (p. 500).
I risultati di questo atteggiamento sono tra i più importanti e fecondi del pensiero moderno e si possono riassumere nella equiparazione della Terra a ogni altro corpo celeste; nella struttura isotropa dell’universo; nella necessità che intride il mondo fisico; nella identità tra corpo e tempo.
Bruno ribadisce infatti e dimostra che «non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole; ma tanti son mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose, le quali non sono più né meno in un cielo ed un loco ed un comprendente, che questo mondo, in cui siamo noi, è in un comprendente luogo e cielo (463). In questo modo il dualismo tradizionale -aristotelico ma non solo- tra mondo lunare e mondo sublunare scompare; l’indagine si può aprire a dimensioni inaudite e sconosciute, la cui infinità fa sì che in qualunque punto e luogo ci si trovi dell’universo, esso dà sempre l’impressione di essere il centro dell’intero. Tra gli innumerevoli soli, terre, astri, non esiste vuoto e vi sono 

innumerabili ed infiniti globi, come vi è questo in cui vivemo e vegetamo noi. Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è raggione, convenienza, possibilità, senso o natura che debba finirlo: in esso sono infiniti mondi simili a questo, e non differenti in geno da questo; perché non è raggione né difetto di facultà naturale, dico tanta potenza passiva quanto attiva, per la quale, come in questo spacio circa noi ne sono, medesimamente non ne sieno in tutto l’altro spacio che di natura non è differente ed altro da questo (518).

La materia è perfetta e dunque necessaria, poiché «non può esser altro che quello che è; non può esser tale quale non è; non può posser altro che quel che può; non può voler altro che quel che vuole; e necessariamente non può far altro che quel che fa; atteso che l’aver potenza distinta da l’atto conviene solamente a cose mutabili» (384). Il determinismo è semplicemente la presa d’atto che la materia coincide con le sue stesse leggi, immutabili ed enigmatiche, delle quali l’umano è parte.
Di queste leggi è struttura fondamentale il tempo, vale a dire la potenza stessa del divenire che genera, dissolve e rigenera. Il corpo umano è anch’esso corpotempo. È infatti evidente «che giovani non abbiamo la medesima carne che avevamo fanciulli, e vecchi non abbiamo quella medesima che quando eravamo giovani; perché siamo in continua trasmutazione, la qual porta seco che in noi continuamente influiscano nuovi atomi e da noi se dipartano li già altre volte accolti» (412-413).
L’energia e lo slancio del pensiero bruniano costituiscono una forza davvero rivoluzionaria. Il filosofo ne è del tutto consapevole. A Burchio il quale sconcertato obietta che «con questo vostro dire volete ponere sotto sopra il mondo», Fracastoro giustamente e sensatamente risponde chiedendo «ti par che farrebbe male un che volesse mettere sotto sopra il mondo rinversato?» (465). No, non farebbe male.

Il sapere dei Greci

«Uno strabiliante desiderio di conoscere»1 è il fondamento della cultura greca e della sua filosofia. Il fondamento dunque dell’Europa. Conoscere, non credere. Conoscere, non sperare. Conoscere, non un fare privo di consapevolezza. Credenze, speranze e azioni hanno senso soltanto se intessute della consapevolezza di ciò in cui si crede, di quanto si spera, di come si agisce.
È anche per questo che il sapere greco è ben diverso dalle visioni non argomentate delle culture soltanto religiose e dalle argomentazioni senza visioni delle culture soltanto razionalistiche. È anche per questo che il sapere greco non si strutturò, se non in rari casi, nella forma delle autoritarie ortodossie che caratterizzano molte delle esperienze culturali europee dall’avvento del cristianesimo in poi, comprese le ortodossie dei regimi totalitari del Novecento e delle tentazioni scientiste che percorrono il sapere contemporaneo e rischiano di distruggere il suo fondamento critico, dovuto anch’esso ai Greci.
Nessuna «ortodossia alla quale i suoi membri [dell’Accademia platonica] fossero obbligati a sottomettersi» (Pellegrin, 41); in essa vigeva piuttosto tutta «la libertà creatrice che contraddistingue il pensiero greco» (Lévy, 359). Lo stesso accadeva nel Liceo di Aristotele, «nel quale il maestro incorporava alcune delle critiche e dei commenti degli astanti, che di fatto più che allievi erano colleghi» (Pellegrin, 43) e dove sollevare obiezioni, questioni, critiche, era il normale modo di apprendere, come emerge anche dal «carattere problematico ed esplorativo di buona parte dell’opera aristotelica giunta sino a noi» (Sharples, 389).
La continuità e la distanza tra Platone e il suo migliore allievo non è che l’esempio più famoso e paradigmatico di «una sorprendente diversità, nella quale l’innovazione non appare inconciliabile con un’autentica fedeltà» (Brisson, 497).
È dalla filosofia «forse più originale che sia mai esistita» (Annas, 232), quella di Platone, che la struttura critica e la dimensione rivoluzionaria del pensiero greco emergono in tutta la loro evidenza. Già nelle sue scelte private Platone mostra un coraggio inaudito, rifiutando di sposarsi e di procreare figli, cosa che era vista come un dato semplicemente naturale e del tutto vincolante nei confronti della famiglia, del clan, della città. Nel modo del suo filosofare Platone rifiuta ogni autorità che non si fondi sulla plausibilità e sul rigore dell’argomentazione; elabora prospettive anche molto diverse tra i vari suoi Dialoghi (basti pensare alle tesi della Repubblica e delle Leggi, che sembrano quasi avere autori diversi); coniuga lo sguardo rivolto alla perfezione delle Forme ideali con una chiara legittimazione della ricerca dei piaceri esistenziali, come si nota non soltanto nel Filebo – dialogo che appunto ai piaceri è dedicato – ma anche nella Repubblica e nell’opera conclusiva, le Leggi, dove il fatto «che tutti cerchiamo la felicità […] necessariamente implica che in un modo o nell’altro cerchiamo una qualche forma di piacere» (Annas, 224). Il divieto posto a chi governa di possedere alcunché – compresa la famiglia, dei figli, qualunque bene economico – rimane probabilmente la richiesta più radicale che un progetto politico abbia mai rivolto a chi desidera il potere. È anche la complessità di tali cammini di pensiero a far sì che «non esista un modo incontestabile di presentare il pensiero di Platone» (Annas, 211) e a rendere la questione platonica un motore sempre acceso del pensiero.
Colui che di tale coraggio assorbì per intero profondità e sostanza, Aristotele, applicò ai campi più diversi la critica platonica a ogni dogma, fondando alcune delle scienze che tuttora costituiscono l’orizzonte del nostro sapere. Tra di esse è particolarmente feconda la biologia, che Aristotele coniuga sempre alla vita collettiva, presentando tesi che potremmo definire sociobiologiche, fondate sulla struttura corpomentale degli enti che hanno consapevolezza d’esserci in quanto individui posti sempre in relazione con altri individui e con il mondo:

Aristotele aveva definito l’anima come la forma dell’essere vivente. Ai suoi occhi dunque essa non era un’entità separabile e immateriale (come voleva Platone), né un particolare ingrediente materiale della creatura intera (come sosterrà, ad esempio, Epicuro). Tuttavia, sempre secondo Aristotele, l’anima non è semplicemente un prodotto dell’organizzazione delle parti del corpo, e quindi non è riducibile a esse: il corpo è spiegato dall’anima e, in generale, i composti di materia e forma debbano essere spiegati dalla forma (Sharples, 402).

In questa unità si fonda la natura di animale teoretico dell’uomo.
Dell’inesauribile ricchezza del sapere greco sono parte: il nesso indissolubile tra ciò che si conosce e il modo in cui si vive, il fatto che chi sa vive meglio di chi ignora; la lucidità con la quale Tucidide vede «nella paura, nel prestigio e nell’interesse le fonti principali delle azioni umane, iscritte da una necessità assoluta (anankē) in seno alla natura dell’uomo» (Ostwald, 337); la disincantata antropologia stoica, per la quale la figura del σοφός, sapiente e insieme saggio, costituisce un progetto asintotico e tuttavia da perseguire in ogni modo, nonostante gli umani siano «tutti ugualmente ‘nulli’ (phauloi, ‘senza alcun valore’, ‘ignoranti’ e ‘folli’ al tempo stesso)» (Brunschwig, 583).
Tra le questioni fondamentali dell’essere e del vivere, i Greci furono maestri del linguaggio, sia nel suo utilizzo pressoché perfetto tra i Sofisti sia nel tentativo eracliteo «di andare oltre i limiti del linguaggio ordinario» (Hussey, 119). Un tentativo del quale Heidegger ha colto per intero significato e fecondità, praticando nei suoi corsi e seminari una lettura di Eraclito che risponde ai criteri di rigore elencati qui da Edward Hussey:

Qualsiasi serio tentativo di interpretare il pensiero eracliteo deve soddisfare le quattro condizioni seguenti:
1 Tener conto del contesto intellettuale nel quale visse Eraclito […]
2 Rispettare l’unità sistematica del pensiero eracliteo celata dalla forma aforistica e implicita nelle corrispondenze tra espressione e significato che legano l’una all’altra le sentenze […]
3 Saper rilevare le indicazioni linguistiche fornite dai frammenti […]
4 Tener conto di ciò che dice o fa capire lo stesso Eraclito sulla natura del lavoro di interpretazione delle frasi difficili, e dell’identificazione che opera tra comprensione e interpretazione (121).

Tra le questioni fondamentali dell’essere e del vivere, i Greci furono maestri della metafisica. Non soltanto di quella dispiegata a partire da Platone e Aristotele sino al neoplatonismo ma anche di quella che li precede, quella dei pensatori arcaici, dell’ἀρχή, del principio, dell’inizio, i quali tutti intesero la φύσις come la condizione dalla quale e dentro la quale sorgono e splendono l’energia e la potenza delle cose che sono e che divengono, degli enti, degli eventi, dei processi, del movimento inteso nella varietà del suo darsi nello spazio e nel tempo.
È il tempo/temporalità che il sapere greco sa, conosce, esperisce e dice. Ancora una volta non soltanto nei fondatori ma in tutti. Epicuro, ad esempio, per il quale «mentre le affezioni del corpo sono limitate al presente, l’anima, che abbraccia il passato e il futuro, ne moltiplica l’intensità» (Laks, 111). O Stratone di Lampsaco, convinto che «il movimento e il tempo sono continui, mentre il numero è fatto di unità discrete; egli quindi definisce il tempo come quantità, o misura, sia del movimento sia del riposo, facendolo esistere così indipendentemente dal movimento» (Sharples, 396), tesi fondamentale che va oltre il limite aristotelico del tempo/movimento. O il maggiore dei commentatori dello Stagirita, Alessandro di Afrodisia, che affranca la temporalità dall’elemento numerante della mente, confermando la natura ontologica e non soltanto epistemologica del tempo:

Aristotele aveva ritenuto inoltre che non vi potesse essere tempo senza un’anima che eseguisse la numerazione (Fisica,  223 a 21 sgg.). Alessandro invece sostiene che il tempo è, per sua natura, un’unità, e che solo nel nostro pensiero esso viene suddiviso dall’istante presente. Ai suoi occhi dunque il tempo in se stesso potrebbe esistere al di fuori di ogni numerazione; ed egli sembra identificare il tempo così concepito col movimento continuo numerabile della sfera celeste più esterna (Sharples, 397). 

Anche per questo, se un anacronismo è concesso, la scienza contemporanea nella quale il sapere greco meglio e più si manifesta è la termodinamica, il cui nome è interamente ellenico, nel suo riferimento al movimento e al divenire del calore. Uno dei primi affrancatori da ogni superstizione, Anassagora, ritiene infatti che «le ‘cose che sono’ non nascono né muoiono, ma si ‘riuniscono’ (synkrisis) e si separano (diakrisis). Anassagora così potè concepire la storia del mondo non come l’immagine impoverita del discorso ontologico, ma come il luogo stesso del suo dispiegamento» (Laks, 6). Uno dei più radicali liberatori dalle paure, Epicuro, così sintetizza gli elementi del mondo:

La stoicheiōsis fisica comporta dieci proposizioni […] che comportano l’armatura indistruttibile della disciplina […]: 1) niente nasce da ciò che non esiste; 2) niente si dissolve in ciò che non esiste; 3) l’universo è sempre stato come è ora e lo rimarrà sempre; 4) l’universo è fatto di corpi e di vuoto; 5) i corpi sono di due tipi: atomi e composti di atomi (gli aggregati); 6) l’universo è infinito; 7) gli atomi sono infiniti di numero e il vuoto infinito per estensione; 8) gli atomi di forma identica sono di numero infinito, ma il numero delle loro forme è indefinito, non infinito; 9) il movimento degli atomi è incessante; 10) gli atomi hanno solo tre proprietà in comune con le cose sensibili: la forma, il volume e il peso (Laks, 104).

La fisica atomistica, la fisica termodinamica, la fisica della materia/struttura e della materiatempo, affondano  le radici in questo sapere. Non a caso non ci è rimasto alcun libro di uno dei più profondi filosofi di ogni tempo, Democrito. E questo perché «la tradizione atomista, rappresentata da Democrito e poi da Epicuro, cozzava brutalmente con gli interessi di coloro che ci hanno trasmesso la loro selezione dell’eredità classica, in particolare i letterati cristiani» (Furley, 68).
A Democrito vorrei dedicare il tentativo di metafisica che ho cercato di attuare in Tempo e materia. Che un platonico, quale in gran parte sono, possa fare una simile dedica è una piccola conferma della profonda libertà che i Greci hanno regalato a chiunque voglia coglierne i saperi.

Nota

1.P. Pellegrin, in Il sapere greco. Dizionario critico (Le savoir grec, Flammarion 1996), a cura di J. Brunschwig e G.E.R. Lloyd; edizione italiana a cura di M.L. Chiesara, Einaudi 2007, vol. II, pp. 54-55. Le citazioni successive saranno indicate con il nome dell’autore e il numero di pagina.

[Del primo volume di quest’opera coinvolgente ed enciclopedica ho parlato qui: La totalità dell’esistenza]

«Mò ce stà ‘o virùss»

Veloci sono spesso i cambiamenti collettivi. A volte anche repentini. Diventano fulminei in presenza di eventi che sconvolgono proprio da un giorno all’altro la vita di milioni di persone. E quindi se «fino a pochi mesi addietro, in tutti i paesi si indicava come uno dei gravi drammi dell’epoca la solitudine», se «se ne discuteva sulla stampa, in radio, in tv, sul web», se «per combatterla si proponeva la ricetta dell’empatia. Dell’affetto. Della vicinanza. Dell’abbraccio. Di colpo, lo scenario si è rovesciato. […] Distanziamoci. E criminalizziamo chi non sta alle regole» (Marco Tarchi, Diorama Letterario 355, maggio-giugno 2020, p. 1).
Criminalizzazione che è uno degli effetti di «una vera e propria fabbrica della paura, che mette quotidianamente in circuito immagini e discorsi allarmanti» (Id., p. 2). Alcune delle conseguenze sono state sperimentate in un modo o nell’altro da tutti i cittadini. E sono queste: «La gran parte delle persone ha sacrificato volontariamente la propria libertà in cambio di un’illusoria sicurezza. La nostra prigionia, per quanto imposta dallo stato, è accettata dai più come male necessario. Lo Stato, principale responsabile della diffusione dell’epidemia, si declina come Stato Etico, padre che comanda, punisce e imprigiona i figli per il loro “bene”. I nemici sono quelli che non si piegano alle regole, persino quelle più insensate. I nemici sono i sanitari che denunciano la strage, invece di scrivere una pagina del libro Cuore del Covid-19. I nemici sono i lavoratori che scioperano nonostante i divieti, perché il ruolo di agnello sacrificale gli sta stretto. I nemici sono i detenuti che provano a sopravvivere. La delazione verso il vicino che trasgredisce è il premio morale per chi, strangolato dalla paura, resta intanato in casa, in inconsapevole attesa che il virus gli venga recapitato a domicilio dal parente che lavora o fa la spesa. Il panopticon globale è il passo successivo, la condizione che ci viene posta per passare dai domiciliari alla libertà vigilata. Sinora i più si sono piegati allo stato di eccezione senza opporre resistenza» (Maria Matteo, A Rivista anarchica, n. 443, maggio 2020, p. 12).

Sullo stesso numero di A Rivista anarchica, Giuseppe Aiello descrive una situazione che ho vissuto anch’io, identica, nel dialogo con alcuni amici e colleghi: «In tempi di pace, quando i morti sul lavoro, sulle autostrade, di cancro industriale si contano a decine di migliaia, ma non c’è “lo Gran Morbo” a minacciarci, citano Foucault come se fosse una specie di amico di famiglia dal quale hanno analiticamente appreso i segreti della microfisica del potere sin da quando erano in fasce. Adesso che si sono all’improvviso brancaleonizzati, della critica dell’istituzione medica, dell’analogia strutturale tra luoghi di detenzione brutale come il carcere e quelli della salute statalizzata non sanno più nulla. Ma come, il rapporto medico-paziente non era uno dei cardini della torsione autoritaria della società disciplinare? L’ospedale non aveva lo stesso significato di manicomio e caserma? No, roba passata, mò ce stà ‘o virùss» (p. 32).

Il virus ha colpito in modo drammatico l’Italia e l’Europa, le cui classi dirigenti reputano la sanità pubblica uno spreco da tagliare, tagliare, tagliare. In Lombardia, terra molto solerte nel tagliare, le conseguenze sono state tragiche.
L’Unione Europea, come mostra anche l’«accordo» suicida che in questi giorni i media presentano come una vittoria dell’Italia (!), non mira soltanto a tagliare quanto più possibile le spese sociali ma, più in generale, a «fare tabula rasa della lunga e ricca storia europea» (Yann Caspar, Diorama letterario 355, p. 14), cancellando il tesoro delle differenze a favore di una omologazione identitaria fondata sul primato di ciò che Aristotele chiamava crematistica, vale a dire l’elemento soltanto finanziario.

Metafisiche contemporanee

Metafisiche contemporanee
in Vita pensata, numero 22, maggio 2020
pagine 5-11

La metafisica è sempre stata un tentativo di pensare il mondo nella varietà, complessità ed enigmaticità delle sue strutture. Anche per questo essa ha mantenuto un carattere plurale, che ha generato a sua volta la molteplicità delle filosofie. Sia nella esplicita e reciproca continuità sia nel tentativo di differenziarsi l’una dall’altra, metafisica e filosofia sono state in Occidente inseparabili. La tesi aristotelica per la quale «τὸ δὲ ὂν λέγεται μὲν πολλαχῶς» ‘l’ente si dice in molti modi’ (Metaph., IV 2, 1003 a 33) si adatta perfettamente alla metafisica, che si dice anch’essa in molti modi a partire dal suo inizio e sin dentro la contemporaneità ermeneutica, fenomenologica e analitica.
La metafisica è da intendere non come fondazione/fondamento ma come comprensione dell’ininterrotto eventuarsi in cui mondo, materia e umanità consistono. Metafisica non come soggettivismo/idealismo ma come schiusura, apertura e compenetrazione del mondo umano dentro il mondo spaziotemporale che lo rende ogni volta e di nuovo possibile.
Mετά può dunque significare – e significa – non la ricerca di un fondamento assoluto o una duplicazione dell’esistente ma un andare oltre la parzialità della materia che pensa; significa l’apertura di tale materiacoscienza a sciogliersi nella materia tutta. 

Il saggio è diviso nei seguenti paragrafi:

  • Introduzione: la filosofia è una scienza?
  • Metafisiche analitiche
  • Metafisiche plurali
  • Metafisiche necessarie
  • Metafisiche perenni

Per la metafisica

Martin Heidegger
Segnavia
(Wegmarken, 1967)
Edizione tedesca a cura di F.W. von Hermann, Klostermann 1976
Edizione italiana a cura di F. Volpi, Adelphi 1987
Pagine XIV-522

 

«Leonardo da Vinci scrive: ‘Il nulla non à mezzo e li sua termini è il nulla’ – Infralle cose grandi che intra noi si trovano, l’essere del nulla è grandissima’ [Codice Atlantico, folio 289 verso b e folio 389 verso d]. La parola di questo grande non può e non deve dimostrare nulla; essa rimanda alle questioni: in che modo si dà l’essere, in che modo si dà il niente? Da dove ci viene un simile darsi? In che misura siamo ad esso già assegnati in quanto esseri umani?»
(Heidegger, La questione dell’essere, p. 367)

«Il niente, è questo l’unico tema pensato dalla Prolusione» (p. 333) svolta da Martin Heidegger a Friburgo il 29 luglio 1929. Il coraggio di pensare il niente è la metafisica. Il niente che sta a fondamento dell’intero, il niente che è l’originario, il niente che per lo più non percepiamo e che tuttavia sentiamo profondamente intramato nelle nostre viscere, negli istanti, nel destino che conosciamo e che tutti ci accomuna, che tutto accomuna.
La filosofia nasce dalla meraviglia, certo, nasce dalla meraviglia che qualcosa ci sia, invece che il nulla. La domanda di Leibniz sul perché c’è l’ente invece del niente ha dietro di sé lo stupore aristotelico. Ed è anche per questo che Heidegger sottolinea, alla lettera, che «la Fisica aristotelica è il libro fondamentale della filosofia occidentale, un libro occultato e quindi mai pensato sufficientemente a fondo» (196). Aristotele pensa infatti prima e al di là di qualunque distinzione tra natura e cultura, tra spirito e materia.
Φύσις non è ‘natura’, φύσις è ἀρχή κινήσεως, è principio, origine e sostanza del mutamento, è costante divenire dell’ente che non sta fermo mai, la cui unica costante è μεταβολή, è la trasformazione, è quindi il divenire, è il tempo.

Il profondo aristotelismo di Heidegger lo induce a sostenere -a ragione- che «in Essere e tempo, ‘essere’ non è qualcos’altro rispetto a ‘tempo’, perché il ‘tempo’ viene indicato come il nome della verità dell’essere, quella verità che è ciò che dispiega l’essenza dell’essere ed è perciò l’essere stesso» (327). Nell’adesso in cui tutto si raggruma sono anche l’essere stato e il sarà, perché l’adesso non è un istante che sparisce non appena lo si pensi ma è il durare di ciò che essendo stato continua a essere, è la potenza capace di trasformarsi da ciò che adesso è in qualcosa che ancora non si dà, è l’apparire ora e qui dell’essere che nel celare la sua essenza immutabile disvela tuttavia istante per istante la pienezza della materia nello spaziotempo, nell’incessante mutare degli atomi, delle molecole, degli aggregati, dei corpi, degli organismi, dei pensieri, delle parole. Anche per questo la verità non è una funzione del linguaggio, un carattere della parola, una dimensione dei pensieri ma consiste nella modalità sempre uguale e sempre diversa in cui gli enti e il loro intero esistono.

La metafisica rivela il suo limite quando, invece di cogliere la dinamica di svelamento che sta nelle cose stesse, confonde il mondo con la rappresentazione più o meno corretta che delle menti si fanno del mondo. E tuttavia la metafisica mostra la propria perennità, la propria -se si preferisce- inoltrepassabilità quando pur incentrandosi soltanto sull’ente in quanto ente fa emergere in esso e da esso la luce dell’essere. Perché rispetto a ogni altro sapere, rispetto a tutte le scienze, è esattamente questa la capacità, è questo il proprio della filosofia, è il fatto che «ovunque la metafisica rappresenta l’ente, già traluce l’essere. L’essere ha il suo avvento in una svelatezza (Aλήϑεια). […] Pertanto si può dire che la verità dell’essere sia il fondamento in cui la metafisica, come radice dell’albero della filosofia, si sostiene e si nutre» (318).
Il legame tra il niente, l’essere e la metafisica è quindi radicale, profondo. Uno dei grandi elementi e meriti della filosofia di Heidegger è averlo colto. Il niente rimane infatti sempre, nella sua differenza dall’ente, «il velo dell’essere» (266) ma è proprio per questo velo che le cose sono, che il mondo esiste, che l’intero si dà. Senza questo niente gli enti non potrebbero essere perché sarebbero l’essere. Il niente è quindi tale differenza tra gli enti e l’essere. Per questo il niente è originario. Una differenza che si dispiega come μεταβολή, divenire e trasformazione, e quindi come tempo. Il tempo è il niente, certo. Il tempo è il niente che nella sua differenza rende possibile l’emergere della molteplicità dall’indistinto della materia, dall’Uno parmenideo, dalla potenza inquieta e insieme stabile dell’essere. Gli enti possono essere soltanto differenza, possono essere soltanto tempo. «Appartiene alla verità dell’essere che mai l’essere dispiega la sua essenza (west) senza l’ente, e che mai un ente è senza l’essere» (260).

La domanda metafisica parte dunque dal nulla che non è se non come differenza, si sofferma sull’ente che è in quanto differenza, perviene all’essere come radice della differenza da sé e quindi come dispiegamento della molteplicità. Se l’umano è l’ente che interroga, la metafisica rimane e rimarrà sempre parte costitutiva del suo stare al mondo. «L’andare oltre l’ente accade», infatti, «nell’essenza dell’esserci. Ma questo andare oltre è la metafisica. Ciò implica che la metafisica faccia parte della ‘natura dell’uomo’. Essa non è un settore della filosofia universitaria, né un campo di escogitazioni arbitrarie. La metafisica è l’accadimento fondamentale nell’esserci. Essa è l’esserci stesso. […] Se la domanda del niente da noi sviluppata ci ha realmente coinvolti, allora non ci siamo presentati la metafisica dall’esterno, e neppure ci siamo ‘trasferiti’ in essa. Noi non possiamo in alcun modo trasferirci nella metafisica, perché, in quanto esistiamo, siamo già da sempre in essa. φύσει γάρ, ὦ φίλε, ἔνεστί τις φιλοσοφία (Platone, Fedro, 279 a). In quanto esiste l’uomo, accade il filosofare. Ciò che noi chiamiamo filosofia non è che il mettere in moto la metafisica, attraverso la quale la filosofia giunge a se stessa e ai suoi compiti espliciti»  (77).

Questo è la metafisica, un punto di osservazione sul mondo che cerca di andare -pur nei limiti di tutti gli attingimenti umani- al di là di ogni etica, oltre ogni posizione antropocentrata, per comprendere, accogliere e rispettare l’autonomia dell’intero dalla sua parte umana, una parte tra le altre, una forma in mezzo al tutto.
La metafisica è perenne sì, perché non dipende dall’umano, dal divino, dalla storia, dalle scienze ma costituisce il sapere dell’essere, nel duplice senso del genitivo: il sapere che l’umano conserva delle cose e il sapere nel quale l’essere dispiega per intero, pur nei limiti della comprensione umana, se stesso.
«Un pensiero che pensa alla verità dell’essere certo non si accontenta più della metafisica; ma esso non pensa nemmeno contro la metafisica. Per restare nell’immagine, esso non strappa la radice della filosofia, ma ne scava il fondo e ne ara il terreno. La metafisica rimane la prima cosa della filosofia, anche se non raggiunge mai la prima cosa del pensiero. Nel pensiero che pensa alla verità dell’essere, la metafisica è oltrepassata e cade la sua pretesa di amministrare il riferimento portante all’ ‘essere’ e di determinare in maniera decisiva ogni rapporto con l’ente in quanto tale. Ma questo ‘oltrepassamento (Überwindung) della metafisica’ non mette da parte la metafisica. Finché rimane animal rationale, l’uomo è animal metaphysicum. Finché l’uomo si considera un essere vivente dotato di ragione, la metafisica, come dice Kant, appartiene alla natura dell’uomo. È invece possibile che il pensiero, qualora riesca a ritornare al fondamento della metafisica, possa contribuire a occasionare un mutamento dell’essenza dell’uomo, con cui andrebbe di pari passo una trasformazione della metafisica» (319-320).
A quel punto la metafisica diventerebbe, probabilmente, la scienza suprema del niente e del suo stupore. In questa apologia attuale e potenziale del vuoto e del nulla sta forse il primo e ultimo segreto gnostico di Heidegger.

Linguaggio e oscurantismi

Dal 16 al 18 ottobre 2019 la sede di Ragusa Ibla del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania ospiterà un denso convegno dedicato ai Linguaggi del potere. Nel pomeriggio di venerdì 18 (alle 15,15) interverrò con una relazione dal titolo Contro il politicamente corretto. Sarà un’occasione per cercare di argomentare alcune delle ragioni sulle quali si fonda la mia critica alla censura e alle imposizioni del linguaggio politically correct.
La prima è che «das In-der-Welt-sein des Menschen ist im Grunde bestimmt durch das Sprechen. Die Weise des fundamentalen Seins des Menschen in seiner Welt ist, mit ihr, über sie, von ihr zu sprechen. So ist der Mensch gerade durch den λόγος bestimmt», «l’ ‘essere nel mondo’ dell’uomo è determinato, nel suo fondamento, dal parlare. Il modo dell’essere fondamentale dell’uomo nel suo mondo è il parlare con il mondo, sul mondo, dal mondo. L’uomo, insomma, è determinato proprio dal λόγος» (Heidegger, Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, Adelphi 2017, § 5, p. 53; trad. di G. Gurisatti) ed è per questo che l’umano è un’entità politica la quale per costruire una vera comunità ha bisogno di un parlare libero, che non sia censurato o autocensurato dal timore che qualcuno si possa sentire offeso dal nostro linguaggio ideologico, etico, religioso, filosofico.
Per non offendere nessuna visione del mondo sarebbe infatti necessario stare zitti. Che è, di fatto, il vero esito di ogni dire politicamente corretto, il cui dispositivo non può che risultare oscurantista. Chi non rispetta la molteplicità delle parole non rispetterà, alla fine, neppure la molteplicità delle persone.

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