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Deserto

«Die Wüste wächst: weh Dem, der Wüsten birgt!»
‘Il deserto cresce: guai a chi nasconde in sé deserti!’
Nietzsche, Also sprach Zarathustra IV (Unter Töchtern der Wüste / Tra le figlie del deserto)
Il Covid19, ciò che scatena nel corpo collettivo, è una forma sempre più evidente di nichilismo, di nascondimento dei volti, di dissoluzione della socialità, di timore diffuso e contagioso, di ignoranza dei corpi, di tramonto del senso, di declino della razionalità, di ubbidienza fanatica, di rifiuto del limite, di negazione della insecuritas, di terrore.
È questa la follia del presente, è questo il cuore nero della desacralizzazione del mondo, lo sgomento per la  sua misura mortale e finita.
Uno spettacolo tragico e mirabile per chi conosce la pochezza della nostra specie.

 

Kaos / Kosmos

Anche se gli inventori della Grecia non sono mai stati in Grecia – tra di loro Winckelmann, Goethe, Hölderlin, Schinkel, Nietzsche – ciò che hanno pensato, immaginato e scoperto di quel mondo corrisponde in gran parte a quello che la Grecia è stata. Le motivazioni sono diverse e numerose. «La prima ragione è che il vero viaggio si svolgeva nello spazio del testo: i Greci si incontravano negli eventi narrati dagli storiografi e nelle convenzioni dei filosofi, nella tensione o nella liberazione del dramma teatrale, nella passioni dipinte dai lirici»1. Al di là di questa e di altre verità, un punto chiave è che per comprendere la Grecia antica bisogna essere antichi Greci e quei personaggi lo sono stati.
La passione dei Greci per il viaggio – pur con tutte le difficoltà e i rischi che viaggiare comportava – è motivata anche dal dinamismo e dalla curiosità in cui consiste ogni vera conoscenza, ogni passione per il sapere. Essa si rivolge – nei Greci e nei loro eredi – agli ambiti e ai temi più diversi ma tutti convergenti nella comprensione del mondo, vale a dire nella filosofia.
Si parte dall’intero, dal cielo, dagli astri, dall’ordine supremo e luminoso, dal κόσμος.
Si attraversano poi boschi, mari, pianure, montagne, tutti luoghi abitati dagli dèi.
Si vive nella città, la grande invenzione della specie umana, che per i Greci era una sola cosa con il corpomente di ciascuno, come confermano anche le parole di Socrate nel Critone, con le quali esprime il suo debito verso Atene anche quando la città lo uccide.
Per difendere e acquisire spazi e città, gli umani hanno inventato dal solco dell’aggressività animale la guerra, alla quale anche i Greci dedicarono sforzi di intelligenza, creatività, ingegno e tenacia davvero totali, e sempre allo scopo di sopravvivere e di distruggere; un solo esempio che è simbolico e dunque particolarmente significativo: il mantello dei soldati spartani era di un colore rosso acceso, che «doveva avere un valore magico ma in battaglia poteva anche avere la funzione di nascondere le macchie di sangue provocate dalle ferite» (A. Cristofori, 462).
Un’altra forma della violenza sono i sacrifici, inseparabili dalle moltissime feste che i Greci celebravano durante l’anno: ad Atene, ad esempio, in età classica i giorni di festa andavano da 120 a 144, un numero inaccettabile per il nostro stile di vita economicista e improntato alla schiavitù del lavoro. «I Greci celebravano la festa come evento comunitario […] e straordinario», un momento di vero e proprio «incontro col sacro» (E. Fontani, 649), nel quale i bambini non andavano a scuola, gli schiavi erano dispensati dal servizio, le altre attività politiche si fermavano poiché era appunto la festa l’attività politica per eccellenza. «Il decoro della festa identificava l’essere greco» (Id., 656), anche nel culto della fecondità e del piacere: tra gli oggetti sacri il fallo ha uno statuto centrale, tanto che in alcune feste le rispettabili matrone gettavano semi su statuette di peni. Il fallo infatti «fungeva da talismano per assicurare la buona crescita dei germogli. Questa pratica rituale, di esclusiva pertinenza femminile, aveva luogo a Eleusi e contemplava l’allestimento di un banchetto in un clima nel quale era ammessa ogni forma di turpiloquio (αἰσχρολογία)» (Id., 686). Delle feste erano protagonisti gli dèi e tra di loro specialmente Dioniso, per la sua vitalità, per la sua gioia. Una Hydria di Polignoto mostra due ragazze che si danno alla ‘danza delle Cariatidi’. La loro grazia appare davanti ai nostri occhi come se accadesse adesso, innocente e insieme sensuale.
In queste feste così gaie si celebrava anche la morte. La morte degli altri animali, in modo che il loro sangue potesse – secondo l’ipotesi del tutto corretta di Gianfranco Mormino – ingraziarsi  gli dèi e permettere che la semina nella terra irrorata dal sangue potesse ancora produrre grano, cibo, vita. Uno dei capitoli più crudi e splendidi dei Dialoghi con Leucò di PaveseL’ospite– testimonia il dato antropologico per il quale all’inizio le vittime di questa offerta alle potenze ctonie erano altri umani, poi sostituiti da creature assai più sottomesse e impotenti di fronte alla violenza umana: gli altri animali. Enrica Fontani conferma che «il momento culminante della festa era il sacrificio (θυσία). […] Sacrificare significava onorare gli dèi per mezzo di oblazioni, per placarli o sollecitarne il favore. […] L’eziologia del sacrificio spiega in chiave di trasgressione, rispetto alla consuetudine originaria di oblazioni incruente (frutti della terra, focacce), l’atto del primo uccisore di buoi (βουτύπος) che inaugurò il regime alimentare carnivoro (Porfirio, Dell’astinenza, 2.29-30). Il sacrificio vegetariano totale cedette il passo alla prassi cruenta dell’uccisione ritualizzata (ολόκαυστον), che diventò il perno dell’identità civica e del sistema basato sulla condivisione del cibo. La dimensione politica e quella religiosa appaiono qui più che mai solidali e complementari» (653).
Di questa natura violenta ma ritualizzata della Grecità, e in generale del mondo antico, sono testimonianza sia i sacrifici animali – mentre i massacri contemporanei che su di loro si praticano non hanno nulla di sacro e simbolico, sono soltanto pura totale sterminata violenza – sia gli agoni, i giochi, le gare. Una dimensione talmente importante, questa, una passione così profonda da far sì che l’agone nato nell’ambito della festa rese alla fine la festa una semplice cornice dell’agone. Burckhardt e Nietzsche hanno dunque ben individuato «nello ‘spirito agonale’ una delle forze trainanti della civiltà greca. Ogni campo dell’attività umana sembra, per i Greci, motivo di competizione: oltre lo sport, la musica, la danza, il teatro, il simposio, fino alle dispute filosofiche. Persino la bellezza» (C. Marconi, 761).
Culti, feste, sacrifici, agoni avevano sempre come centro e sfondo il santuario. Che non è soltanto il tempio ma è il paesaggio sacro dentro il quale anche il tempio vive. Il tempio, certo, è un luogo del tutto particolare, le cui colonne – scrisse Le Corbusier riferendosi al Partenone «obbediscono ad un’unica legge, sgorgano dalla terra» (cit. da C. Franzoni, 133)– e tuttavia il racconto eracliteo degli dèi che abitano anche in cucina testimonia che «per i Greci qualsiasi luogo può essere considerato adatto a ospitare un santuario. Perché ciò accada è sufficiente percepirvi la presenza del divino attraverso i suoi segni, e sentirsi con ciò più vicini a lui» (Id., 528).
La prima divinità è la luce. Sacerdoti e fedeli si rivolgevano a est, verso il sole che sorge, «dove si immagina la divinità, quando, all’alba, ha luogo il sacrificio» (Id., 531). Il cielo, la terra, gli animali, i divini si incrociano nello spazio del santuario, che diventa così Νόμος, luogo nel quale l’umano dà a se stesso senso. Le metope del lato sud del Partenone sono ispirate «al principio generale della lotta conto il disordine (χάος) per l’affermazione dell’ordine (κόσμος)» (Id., 620).
I Greci sono anche questa identità/differenza tra il Kaos e il Kosmos.

[L’immagine raffigura l’Oggetto di Hoag, una delle galassie più singolari del cosmo, dalla forma circolare con al centro un nucleo assai luminoso. Dista 600 milioni di anni luce dalla Terra]

Nota

1.C. Franzoni, in I Greci. Storia Cultura Arte Società, a cura di S. Settis, Volume IV/1 Atlante 1, a cura di C. Franzoni, Einaudi 2002, p. XII. Le citazioni successive saranno indicate con il nome dell’autore e il numero di pagina.

Effimeri

Recensione a:
David Benatar
La difficile condizione umana.
Una guida disincantata alle maggiori domande esistenziali
A cura di Luca Lo Sapio
Giannini Editore, 2020
Pagine 271
in Scienza & Filosofia
numero 24 / 2020
Pagine 367-373

«Dopo tutto, quelli che non esistono non si trovano in nessuna condizione, men che meno in una difficile condizione. Non sono destinati a morire».
Una fenomenologia dell’esistenza che sia libera da presupposti religiosi, moralistici e millenaristici non può che condividere parole come queste.

Polvere cosmica

Star Stuff
di Milad Tangshir
Italia, 2019
Con: Gaspar Galaz, Emilio Molinari, Sivuyile Manxoyi, Willem Prins, Joan Rodriguez, Rodriguez Miguel, Martin Gonzelz, Fransiena Onke, David Barrera, Magdalena Blauun, Fernando Salgado, Betty Anza
Trailer del film

Collocata in un punto preciso e insieme cangiante – in ogni caso del tutto irrilevante – del cosmo, l’umanità ha sin dall’inizio cercato di capire che cosa fosse la fonte della luce che consente di vivere e quali enigmi racchiudesse il buio della notte, profondo sì ma abitato da luci molteplici e diverse, alcune fisse (le stelle) e altre erranti (i pianeti), variabili anche nell’intensità del loro manifestarsi.
La vicenda umana è quindi inseparabile dall’astronomia. Tre dei più importanti osservatori astronomici contemporanei – Atacama nel deserto del Cile, l’isola di La Palma nell’Oceano Atlantico, il Grand Karoo in Sudafrica – vengono in questo film presentati insieme agli umani che abitano quei luoghi. Non soltanto i rapporti tra astronomi, scienziati e abitatori ma anche e soprattutto le diverse credenze sulla natura del cielo, sull’ontologia cosmica. E poi le tradizioni, i sogni, le scoperte, le meditazioni, le riflessioni, i pensieri, le rabbie, le perdizioni e le riconquiste che a quelle terre derivano dalla potenza delle luci astrali.
Gli osservatori astronomici, questi tra i massimi risultati dell’ingegno e dell’ingegneria umani, diventano così luoghi palpitanti, nei quali l’evidente insignificanza – e ‘insignificanza’ è già troppo – della vita su questo pianeta si riscatta nel suo essere polvere di quelle stelle dalle quali gli enti raffreddandosi derivano; polvere delle galassie con il loro vertiginoso numero di mondi; polvere del magma solare del quale la Terra è stato un trascurabile sasso, diventato crosta, oceani, atmosfera.
La storia dell’astronomia è coinvolgente anche dal punto di vista teoretico per la pluralità delle tesi, delle ipotesi e dei metodi con i quali da almeno 3000 anni i cieli vengono studiati. E lo è anche per il fatto che l’astronomia non è soltanto una scienza sperimentale nel senso galileiano, poiché i suoi fenomeni sono osservabili ma non manipolabili. Come afferma nel film un astronomo cileno: «non posso immettere o togliere qualcosa nelle stelle e vedere l’effetto che fa; devo cercare di conoscere la loro storia e la loro natura da qui, da lontano, dalla interpretazione dei dati». E tuttavia a partire dai suoi fondamenti matematici e fisici (Pitagora, Platone, Democrito, Aristotele, Tolomeo) l’astronomia è sempre stata una scienza fondamentale. Questo significa, tra l’altro, che scienza e scienza sperimentale non sono sinonimi, che la seconda è un ambito più ristretto della prima.
La potenza del cielo – luminoso, oscuro, popolato di luci, in espansione, statico, vuoto, pieno – è tale da aver generato gli interrogativi più vari, le risposte più raffinate e più implausibili, le più formalizzate e insieme le più bizzarre. Tra le ultime, ad esempio, l’universo delle stringhe o i multiversi, ambiti nei quali la cosmologia mostra la propria assai stretta vicinanza con la fantascienza e ben oltre ogni fantasiosa metafisica.
Neppure i metodi delle scienze contemporanee possono rispondere alla domanda se l’universo abbia un tempo finito o se sia eterno, da sempre e per sempre (io credo che lo sia), ma certamente ci dicono che l’universo, inteso più concretamente come spaziotempo, è sostanzialmente vuoto, è continuo -non esistendo in esso  nulla di isolato dall’intero- è omogeneo ed è isotropo, il che significa (ed è un’acquisizione fondamentale) che nessun punto dell’universo può avere un qualche privilegio materico, osservativo e ontologico, tantomeno teologico. Come afferma in questo film l’astrofisico Emilio Molinari, «noi siamo tra i ‘qualunque’ dell’universo, come tanti altri qualunque».
Una conclusione che costituisce un definitivo affrancamento dall’ingenuità antropocentrica, della quale la filosofia e la cultura dell’antica Grecia erano già criticamente consapevoli e che l’astrofisica contemporanea ha definitivamente dissolto nell’immensità dello spazio e del tempo.
Anche questo porsi oltre ogni ingenuità epistemologica e antropocentrica fa dell’astronomia una scienza filosofica per eccellenza.

[L’immagine è di Francesco Battistella; raffigura la Nebulosa del Cigno, NGC 7000]

Diego Bruschi su Animalia

Diego Bruschi
Un libro dedicato agli (altri) animali
in appunti, semplicemente appunti, 26.12.2020

Diego Bruschi scrive, tra l’altro, che «ogni pensiero intorno all’animalità è contiguo, incardinato, correlato al pensiero intorno all’umano. Il problema scaturisce dall’umano, dalla difficoltà di accettarne la reale condizione, la finitudine che lo contraddistingue e che in tutti i modi si cela con infinite, disperate, mai risolutive, utopie. […]
Il testo contiene molti riferimenti, tanto alla storia culturale (come sempre un amore mai deposto da Biuso verso i Greci e la loro accettazione della finitezza umana), quanto alle acquisizioni della scienza. […]
Gli umani sé dicenti sapiens non sono ben definibili in assoluto, non sono l’ultimo elitario gradino di una scala (che non c’è), sono solo una delle innumerevoli fasi del processo magmatico e unitario della vita».
La riflessione che Bruschi ha dedicato ad Animalia è profonda nella sua sintesi e rigorosa nell’indicare con chiarezza il senso del libro.

«Perché è malvagia»

Tommaso
di Abel Ferrara
Italia, 2019
Con: Willem Dafoe (Tommaso), Cristina Chiriac (Nikki), Anna Ferrara (DiDi)
Trailer del film

Ad Abel Ferrara non manca certo il coraggio. Film forti e perturbanti come The Addiction (1994), Il cattivo tenente (1992), The Funeral (1996) lo dimostrano. Questi tre titoli compensano ampiamente le eventuali successive cadute. In Tommaso il coraggio consiste nel mettere in scena le proprie difficoltà, i fallimenti, le debolezze. E farlo in modo esplicito e poco compiaciuto.
Il Tommaso di Dafoe è infatti marito di Nikki e padre di Didi, che sono interpretate dalla moglie e dalla figlia di Ferrara. Vivono a Roma, dove Tommaso progetta un film, cerca di imparare l’italiano, continua a frequentare un gruppo di alcolisti anonimi che raccontano le loro vite e l’uscita dalla addiction del bere, diventa molto geloso della giovane moglie, sino ad alcune violente scenate di gelosia. E infine, in due delle scene/metafora del film, offre il proprio cuore a un gruppo di africani e si fa crocifiggere davanti alla stazione Termini.
Termini, l’ingresso di Roma, città che ha evidentemente ammaliato il regista newyorchese (come accadde per il cuore nero e pulsante di Napoli), che in questo film ha la capacità di offrirne un ritratto singolare, lontano sia dalla magnificenza estetica sia dal degrado incombente; radicato invece nel quotidiano movimento tra le strade, tra i negozi del quartiere, i cortili, i balconi, gli ascensori. Ed è forse la cosa più suggestiva di Tommaso.
Artisti, filosofi, teologi, sociologi, fisici, parlano sempre anche di sé, qualunque sia il grado di oggettività delle loro opere. Già la scelta di diventare regista, pittore, filosofo, astronomo, giurista, è una dichiarazione autobiografica che testimonia in modo evidente del proprio sguardo sul mondo, della teleologia che l’esistere si ritiene abbia o non abbia, della propria tonalità caratteriale. Quando poi si prende la penna, la cinepresa, il pennello, uno strumentario tecnologico, in essi e attraverso essi riverbera immediatamente il senso che si vuole dare al tempo che si è. Il valore di un’opera d’arte o d’intelletto consiste anche nell’essere intramata da questa potenza della persona e però conseguire ed esprimere elementi, esiti, concetti universali, collettivi, condivisi.
Qui Ferrara mette in comune la propria vicenda di persona e il proprio sguardo di regista cinematografico. Con un candore che è da apprezzare, con una forse raggiunta saggezza rispetto al male del mondo che si esprime chiaro e inquietante in The Bad Lieutenant, The Addiction, The Funeral.
Nel primo emerge un mondo svuotato, una ferocia senza direzione, l’oscillare tra perdizione e redenzione, altari, santini, prime comunioni, tutto immerso in un radicale pessimismo antropologico. Un film freddo e appassionato, duro e coraggioso, una vera e propria discesa nell’inferno dell’abiezione umana.
Il secondo coniuga con naturalezza vampirismo e filosofia in una metafora dal significato evidente: l’umanità corrotta moltiplica il male moltiplicando se stessa. In una delle discussioni metafisiche che intessono il film (numerose citazioni da Sartre, Heidegger, Kierkegaard, e perfino un brano musicale di Nietzsche) si afferma che «gli uomini non sono peccatori perché commettono dei peccati ma commettono peccati perché sono peccatori. L’umanità non è malvagia poiché compie il male ma compie il male perché è malvagia».
Il terzo è un’opera funebre e geometrica, intessuta anch’essa di simboli cattolici: preghiere, statue, dottrine. La vicenda e i dialoghi confermano la natura gnostica della visione di Ferrara, che condanna l’uomo e con lui il suo malvagio demiurgo.
Tali cupe verità sono in Tommaso trasformate al fuoco degli affetti, dei desideri e dei ritmi quotidiani. Non vengono certo negate – il cuore estratto dal petto e la crocifissione ce le ricordano– ma sono espresse con il disincanto sull’orrore che la vita alla fine insegna.

Espressionismo manzoniano

I Promessi Sposi
di Mario Bonnard
Italia, 1922
Con: Domenico Serra (Renzo), Emilia Vidali (Lucia), Umberto Scalpellini (Don Abbondio), Mario Parpagnoli (Don Rodrigo), Enzo Billiotti (Fra’ Cristoforo), Rodolfo Badaloni (L’Innominato), Ida Carloni Talli (Agnese), Ninì Dinelli (Gertrude), Olga Capri (Perpetua)

Restaurato e accompagnato da musiche contemporanee, questo capolavoro del cinema muto mostra una coinvolgente originalità formale e narrativa. Mario Bonnard fa del romanzo di Manzoni un percorso dentro la storia, l’antropologia, il male. La vicenda di Renzo e Lucia quasi rimane sullo sfondo delle grandi scene collettive, fatte di folle, soldati, appestati, ribellioni. Scene nelle quali la violenza delle vicende, la malvagità degli umani, l’inesorabilità degli eventi emergono dallo sfondo ora idilliaco del lago ora concitato della città. I rappresentanti dell’ideologia religiosa di Manzoni – fra’ Cristoforo, il cardinale Federigo – appaiono costantemente rivolti verso l’alto, distanti, quasi emaciati, ininfluenti. Come se fossero estranei rispetto alla concretezza della manzoniana fenomenologia dell’umano. Le libertà narrative che Bonnard si è preso – l’Innominato alla guida dei suoi soldati contro i lanzichenecchi; Lucia malata in casa di Donna Prassede; i dettagli del tradimento del Griso e della sua morte; le lunghe scene del saccheggio di Mantova; – sono funzionali a una disincantata descrizione della città umana, così come essa va sempre o come andava ‘nel secolo XVII’:
«In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo…voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo»
(I Promessi Sposi, a cura di G. Getto, Sansoni, Firenze 1985, cap. VIII, p. 184).
E tutto questo viene narrato in una tonalità color seppia, con moderne dissolvenze delle forme, tramite giochi tra sfondo/primi piani e altre modalità espressionistiche. Un grande film.

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