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«No’ si volta chi a stella è fisso»

Leonardo da Vinci 
Scritti letterari
A cura di Augusto Marinoni
Nuova edizione accresciuta con i Manoscritti di Madrid
Rizzoli, 1991
Pagine 281 

L’equazione platonica di verità e bellezza fa sì che negli scritti di Leonardo da Vinci pulsi il fascino della parola, nonostante la deliberata scarsa sua attenzione alla letteratura, a causa della quale «non giunse mai alla stesura definitiva d’un sol volume» (Marinoni, p. 34).
Esplicito e duro contro le auctoritates, Leonardo non assolutizza però neppure la pratica. Solo se sottoposta alla guida e al controllo della scienza la sperienzia risulta praticabile e feconda. E tra le scienze è assai creativa la matematica, la quale aiuta a oltrepassare i limiti «delle sofistiche scienzie» (Discorso contro gli abbreviatori, p. 157). Per chi si dedica al sapere è dunque aperta la via della virtù che coincide con il sapere stesso, poiché

chi poco pensa, molto erra
(Pensieri, n. 66, p. 71).

La conoscenza rende padroni della propria persona e del tempo, il cui incessante fluire è oggetto da parte di Leonardo di una riflessione attenta, continua, consapevole del fatto che

l’acqua che tocchi de’ fiumi è l’ultima di quella che andò e la prima di quella che viene. Così il tempo presente
(Pensieri, n. 35, p. 68).

Il nostro desiderio del nuovo, comunque e ovunque, è da lui ricondotto a una inconscia brama di distruzione, alla volontà del corpo di affrettare la propria morte al fine di «sempre ritornare al suo mandatario», come la farfalla che brucia nel suo lume (Disputa ‘pro’ e ‘contra’ la legge di natura, p. 170).
Leonardo intuisce l’universale necessità che governa tutte le cose. Essa, «maestra e tutrice della natura […] freno e regola eterna», domina il materialismo di Leonardo, per il quale natura vuol dire la trasformazione incessante e cieca di ogni ente e dei corpi vivi in cibo e materia di altri e della terra (Pensieri, nn. 43 e 80, pp. 69 e 72).
Al determinismo fisico Leonardo accompagna – come spesso accade – una moralità tanto rigorosa quanto concreta che identifica l’elemento specifico dell’essere umano nell’azione e nel conoscere, nell’essere sempre attivi e realistici, nel rifiuto di ogni inutile crudeltà. Rispetto ai tanti, ai troppi, ai più i quali

altro che transito di cibo e aumentatori di sterco — e riempitori di destri [latrine] — chiamar si debbono, perché per loro —  altro nel mondo appare —  alcuna virtù in opera si mette; perché di loro altro che pieni e destri non resta
(Pensieri, n. 111, p. 76),

si levano i pochi che conducono una vita tale da potersi definire conclusa in qualunque momento essa si chiuda.
Per Leonardo da Vinci, dunque, la più parte degli esseri umani sono soltanto produttori di escrementi e poche sono le persone capaci di comprendere il divenire e di essere giuste — che è la stessa cosa. Costoro sono i «salvatici» e cioè «quel che si salva», coloro per i quali «imparare a vivere» coincide con l’«imparare a morire» (Pensieri , nn. 98 e 90, pp. 74 e 73), coloro per i quali

non si pò avere maggior, né minor signoria che quella di se medesimo
(
Pensieri, n. 65, p. 71).

Il disincanto e il sorriso del corpomente di Leonardo si muovono tra malinconia esistenziale e gaudio del conoscere:

Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire
(Pensieri, n. 100, p. 75).

Si tratta davvero dei superstiti frammenti «di una sapienza sconfinata» (Marinoni, p. 29), una sapienza cosmica poiché

no’ si volta chi a stella è fisso1

perché si libera da ogni angoscia colui che ha compreso la perfezione del cosmo non vivente.

Nota
1. Leonardo da Vinci, L’uomo e la natura, a cura di M. De Micheli, Feltrinelli 1982, p. 118.

Dada

DALÍ, MAGRITTE, MAN RAY E IL SURREALISMO
Capolavori dal Museo Boijmans Van Beuningen
MUDEC – Museo delle Culture, Milano
A cura di Els Hoek e Alessandro Nigro
Sino al 30 luglio 2023

Paul Delvaux, La ville rouge ,1944

A Magritte è dedicata un’intera sala, giustamente, quella che chiude la mostra e dove sembra che le opere rispettino le regole della prospettiva, della figura e della luminosità ma che le sconvolgono dall’interno. E però non c’è soltanto Magritte e neppure soltanto Dalí o Man Ray. Né solo Duchamp, Breton, Max Ernst. No, è proprio un ludico sabba di pensieri, manufatti, deliri e invenzioni quello che si vede e che si visita al Mudec di Milano. Spazio/Museo che è dedicato in particolare all’etnologia e all’antropologia.

Magritte, La recherche del’absolu, 1967

Profondo fu infatti l’interesse dei surrealisti per le culture e le opere di gruppi umani lontani nel tempo e nello spazio: dai nativi del Nord America ai popoli dell’Oceania. Ad accomunare surrealismo e culture tribali sono molti elementi, in particolare la magia, l’animalità, il sogno, la metamorfosi.
Ad accomunare il surrealismo con l’umano è il desiderio, che Breton definì «l’unico padrone» che possa essere accettato, è l’eros, è la potenza dei corpi. La geneaologia del movimento affonda in Hieronymus Bosch, nel marchese De Sade, in Lautréamont. Il metodo è in gran parte l’automatismo, il collage di elementi disparati e casuali, a partire dal celebre «le cadavre exquis boira le vin nouveau».
Con i surrealisti ci si diverte sempre. L’esito è infatti un puro gioco, l’anarchismo metodologico, l’occhio allo stato selvaggio, il dadaismo.

Miró, Monsieur et madame, 1969

 

Infine, è da vedere qualche brano dal film di Renè Clair  Entr’act (1924).

Surrogati

Leggendo una lucida riflessione di Marta Mancini dal titolo E l’uomo creò l’uomo («Aldous», 23.5.2023) ho appreso l’esistenza di questo sito: Success. IVF Clinic & Surrogacy Center, che consiglio di visitare con attenzione e a partire dal quale non pongo questioni di carattere etico o giuridico; non chiedo se il desiderio di avere un figlio possa costituire motivo sufficiente per averne anche diritto; e neppure osservo che i Paesi di origine delle donne che vendono il loro ventre siano Cipro, Grecia, Colombia e Ucraina; e che i prezzi per acquistare un pargolo vadano dai 13.000 ai 75.000 €, in relazione alla qualità della materia prima e alla garanzia del risultato.
Pongo una questione diversa e che mi interessa di più: se i cuccioli di Homo sapiens possono essere generati in questo modo, una delle ragioni di fondo non consiste forse nel valore intrinseco dell’umano, che non è superiore a quello di qualsiasi altro prodotto naturale e artificiale, acquistabile e vendibile? Che quindi la pretesa della nostra specie di essere qualcosa di più sia semplicemente patetica? E che la convinzione di costituire «la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico» (Nietzsche, Umano, troppo umano II, af. 12) sia segno di un’arroganza tanto banale quanto irragionevole?

 

La festa dei morti

Piccolo Teatro Studio – Milano
Pupo di zucchero. La festa dei morti
liberamente ispirato a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile
testo, regia e costumi Emma Dante
con Carmine Maringola (il Vecchio), Nancy Trabona (Rosa), Maria Sgro (Viola), Federica Greco (Primula), Sandro Maria Campagna (Pedro), Giuseppe Lino (Papà), Stephanie Taillandier (Mammina), Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout (Pasqualino), Martina Caracappa (zia Rita), Valter Sarzi Sartori (zio Antonio)
sculture Cesare Inzerillo
produzione Sud Costa Occidentale
sino al 23 aprile 2023

 

Non riparo o giaciglio,
La prima casa costruita fu la tomba
Tumulo fossa monumento
Costruire fu memoria, ammonimento
(Eugenio Mazzarella, Cerimoniale, Crocetti editore 2023, p. 51)

Qualche anno fa avevo ricordato Gli avi, la festa. Gli avi che venivano a trovare me e le mie sorelle nella notte tra il primo e il due di novembre, i regali che lasciavano – rammento un trenino elettrico e un fucile -, la festa che questi doni creavano in casa, la gioia nei bambini, il sorriso compiaciuto dei genitori. E noi a non chiederci come facessero i morti a essere ancora vivi, a tornare tra noi come un parente lontano fa da un lungo viaggio. Perché la continuità tra i vivi e i morti è un dato antropologico che tutte le culture conosciute (almeno quelle che io conosco) hanno non soltanto affermato ma anche posto come uno dei fondamenti della propria identità.
Perché non siamo atomi irrelati nel vuoto della materia ma parte di una materia indistruttibile, come le leggi della termodinamica ci mostrano. Perché non siamo individui senza radici e vaganti in un mondo ridotto a mercato ma persone che germinano dalle comunità che ci hanno generati e accolti, che ci hanno trasmesso una lingua, un tratto somatico, un colore della pelle, un insieme di abitudini quotidiane e di cadenze collettive. Soltanto la superficiale barbarie di un capitalismo senza terra – o meglio, la cui patria sono i fantastilioni di Disney – può pensare seriamente che esistano soltanto corpimente nel qui e ora e non flussi di vite nei millenni geologici, biologici, storici.
Basta quindi uno dei racconti di Giambattista Basile (1566-1632) per far tornare in vita le sorelle, i genitori, gli zii che la profondità di un vecchio rammemora mentre ormai da solo in una casa vuota ricorda i suoi affetti. E queste nove persone lo accompagnano, lo aiutano, lo disorientano e lo indirizzano mentre tenta di plasmare un pupo di zucchero da offrire ai morti che ritornano, da condividere con loro. «Durante il rituale, in quella notte, era come se mangiando quei dolci ci si cibasse delle anime dei defunti» (Programma di sala, p. 4) in una continuità materica senza la quale rimane soltanto l’orrore.
Ed è infatti solo questo che va rimanendo in una civiltà che ha uno dei propri emblemi nella paura della morte diventata patologica, universale e insensata. Una paura che spinge alla servitù volontaria, all’imprudenza sanitaria, a un feroce conformismo sociale. I ritornanti del XXI secolo sono gli zombi della saga di George Romero, le vittime banalizzate della cronaca nera che infesta l’informazione, i rimossi dal tessuto quotidiano. La morte trasformata in orrore, in tabù, in banalità è davvero un segno di declino.
E invece «nello spettacolo, sono presenti dieci sculture create da Cesare Inzerillo che mostrano il corpo osceno della morte. In Pupo di zucchero la morte non è un tabù, non è scandalosa: ciò che il vecchio vede e ci mostra è una parte inscindibile della sua vita. La cosa non può che intenerirci. La stanza arredata dai ricordi diventa una sala da ballo, dove i morti, ritrovando le loro abitudini, festeggiano la vita» (Ivi, p. 7).
Una festa che Emma Dante declina nelle modalità verso le quali da tempo è avviata: non più soltanto teatro di parola ma una Gesamtkunstwerke, un’opera d’arte totale, nella quale a prevalere sono le musiche e i corpi che danzano o che in ogni caso scandiscono nel ritmo i loro gesti.
In Pupo di zucchero non c’è forse la tonalità straniante e ribelle di altre opere di Emma Dante ma c’è uno struggente affetto verso i legami che ci intessono.

[foto di apertura di Ivan Nocera]

Amate sponde

Amate sponde
di Egidio Eronico
Italia, 2022
Musiche di Vittorio Cosma
Fotografia di Sara Purgatorio
Trailer del film

Le «sacre sponde» alle quali accenna il primo verso di A Zacinto diventano le «amate sponde» dell’Italia. Egidio Eronico le osserva, le filma, le rende molteplici, suggestive e profonde, anche con l’aiuto fondamentale delle musiche di Vittorio Cosma. Di immagini e di suoni è fatto questo film. Di immagini e di suoni che si susseguono a volte lente e altre vorticose. Dallo sguardo sull’intera penisola offerto dai satelliti sino a chi abita i luoghi delle città italiane anche come clochard, passante, ospite.
La prima parte è dedicata ai fiumi, alle montagne, ai campi, all’Etna, al mare. Tra le acque e le terre si affacciano poi le città, il loro pulsare, gli edifici, lo squallore di molte case e quartieri. Dentro le città gli umani che camminano, che pregano (una messa cattolica officiata da un sacerdote nero davanti alle panche vuote e una moschea invece affollata), che fanno musica e ballano, che vanno in palestra o fanno sport nelle strade. E poi persone che lavorano negli impianti dove i robot costruiscono le automobili e gli umani progettano androidi, dove le enormi quantità di spazzatura e rifiuti vengono riciclate in spazi amplissimi e profondi e dove si studiano e manipolano molecole organiche e inorganiche. Tutto al ritmo dei tramonti e delle aurore, con l’avanzare delle tecnologie in ogni ambito e con le arcaiche maschere dei demoni in Sardegna che cadenzano ancora i loro ritmi davanti a falò millenari.
Su una di queste maschere e sull’uomo che la indossa si chiude un’opera che sa trarre poesia non dalle bellezze d’Italia ma dalle sue brutture, che coniuga l’umano e il cosmico nel respiro della Terra. Un film che è un’indagine di geografica antropica e che soprattutto conferma come il cuore del cinema sia il montaggio, non ciò che si racconta ma come  lo si racconta.
Una meditazione su ciò che è effimero – gli umani – e su ciò che permane – la materia – dentro il luogo che chiamiamo Italia.

Anime morte

Nikolaj Vasil’evic Gogol’
Le anime morte
(Мёртвые души, 1842)
Trad. di Natalia Bavastro
Introd. di Serena Vitale
Garzanti 1989
Pagine XX-360

Leggere gli scrittori russi è un’esperienza affascinante. Tolstoj è un’epopea della pienezza. Dostoevskij insegna sugli uomini delle verità essenziali. Solo Proust e Thomas Mann possono stargli accanto.
Accanto a Dostoevskij e in modo assai diverso da lui, sta anche Nikolaj Gogol’, le cui Anime morte parlano della Russia profonda e ci aiutano a penetrare gli enigmi di un popolo così decisivo nella storia dell’Europa. In questo romanzo il flusso narrativo, la profondità psicologica, la consapevolezza della tragedia e dell’enigma che è il vivere si compongono a delineare una compiuta antropologia.

Del romanzo Gogol’ portò a termine, e conservò, solo la prima parte; della seconda rimangono i primi capitoli e alcuni frammenti  con molte lacune. Il resto non si sottrasse al rogo decretato dallo stesso Autore mentre la terza parte – una sorta di inutile poema del riscatto – non venne mai scritta.
Quello che rimane è un capolavoro. Ci troviamo a viaggiare per la vasta Russia insieme a Pavel Ivanovic Čičikov. Nulla sappiamo all’inizio di questo personaggio, se non qualcosa delle sue fattezze rotonde e banali e dei suoi modi cortesi e affettati. Neanche i luoghi hanno un nome ma in essi Čičikov cerca, tratta, acquista delle anime morte, vale a dire quei servi della gleba deceduti fra un censimento e l’altro ma sui quali i possidenti pagano ancora le tasse. Perché Pavel Ivanovic le vuole? Per dimostrare di essere anche lui un possidente e ottenere il prestigio e le agevolazioni governative che tale condizione comporta.
Solo alla fine della prima parte si viene a sapere qualcosa di più sul protagonista, sulla sua infanzia triste, sui pessimi educatori, sulla tenacia da lui dedicata alla carriera nell’Amministrazione dello stato e sui frutti della corruzione esercitata nei vari uffici in cui si era trovato a lavorare. Prima però Čičikov ha modo di farsi amare, stimare e poi calunniare dai funzionari – e dalle rispettive mogli – della città, portando comunque a termine la sua impresa. Nella seconda parte (ripeto, frammentaria) crescono l’ambizione e le disgrazie fino a un arresto ignominioso e a una rocambolesca liberazione…
Gogol’ definì il proprio romanzo «un poema» e della Divina Commedia quest’opera non ha solo il progetto iniziale in tre parti ma anche una vera e propria discesa nei gironi della volgarità umana, di quella che in russo si chiama poölost. Compito dello scrittore è infatti descrivere 

tutto ciò che ogni minuto si trova davanti agli occhi di tutti e che gli occhi indifferenti non vedono affatto -tutta la terribile e irritante melma delle meschinità che impastoiano la nostra vita, tutta la bassezza dei caratteri freddi, invertebrati, quotidiani, che brulicano sul nostro cammino terreno, talvolta amaro e tedioso… (p. 125).

Le forme che la volgarità assume nel mondo possono essere tante, alcune tipiche di un luogo e di un tempo, altre eterne. La maldicenza, ad esempio, il pettegolezzo del quale nel IX capitolo viene delineato un magnifico ritratto; oppure la corruzione, le tangenti, il denaro chiesto per svolgere semplicemente il proprio dovere.
La giustificazione che viene data del malaffare è davvero quella di sempre: «ho approfittato del superfluo; ho preso là dove ognuno avrebbe preso; se non avessi approfittato io avrebbero approfittato gli altri» (230). È la giustificazione di tutti i ladri della cosa pubblica. Al di là delle proprie posizioni ideologiche e delle idiosincrasie Gogol’ offre un quadro efficace, reale della situazione della Russia alla metà dell’Ottocento, prima che il servaggio venisse abolito e dopo la guerra napoleonica. Ma è insieme un quadro talmente originale e complesso da far sì che il romanzo sia stato rivendicato sia dagli slavofili sia dagli occidentalisti. E in effetti la Russia dei servi della gleba appare qui in mano a possidenti o inetti o corrotti o del tutto idioti ma è una Russia in ogni caso più ricca e produttiva di quella comunista e del Novecento:  i beni ci sono, le terre offrono grano e tanti altri generi, le potenzialità sono enormi. Gogol’ sembra diffidare delle proposte innovative che venivano dai liberali e spesso le loro idee subiscono la satira più feroce, mentre – nella seconda parte – uno dei personaggi migliori è un possidente tradizionalista e però estremamente efficiente.
Ciò che sempre traspare è comunque un grande amore verso la nazione e la civiltà russe. L’immagine che conclude la prima parte è fra le più belle. La Russia vi viene descritta come una troika lanciata a folle velocità nella storia mentre «gli altri popoli e gli altri paesi si fanno da parte e liberano la via» (240).

C’è qualcosa che va oltre Čičikov e il suo commercio di anime, che va oltre la terra russa e il suo destino, ciò che fa di Gogol’ un autore universale. È la riflessione quasi ossessiva sugli umani. L’Autore osserva e descrive con minuzia non soltanto gli oggetti, gli ambienti, i paesaggi ma soprattutto i caratteri, non disdegnandone nessuno «e fissandogli addosso il suo occhio indagatore», come egli stesso afferma in una dichiarazione di poetica (234).
Il risultato di tale indagine è analogo a quello di Dostoevskij: l’umano come enigma impossibile da sciogliere, l’uomo come un ente capace di qualunque cosa, pensiero, azione: «È forse verosimile?…Tutto è verosimile, tutto può avvenire in un uomo» (120) e come un refrain ricorre spesso l’esclamazione «va’ a capire qualcosa dell’uomo!» (198).
Diversamente da Dostoevskij, però, il tono dominante in Gogol’ è l’ironia, il grottesco, il divertimento. Certe pagine, così come alcuni personaggi o battute, sono irresistibili. Finché, procedendo, tutto diventa più serio e drammatico e il libro si conclude con un severo e appassionato discorso del governatore generale ai suoi funzionari, discorso inquietante nella sua attualità per alcune nazioni e alcuni governi: «È giunta l’ora di salvare la nostra terra…ormai accanto all’ordine di cose legittimo se ne è formato un altro, molto più forte di quello legittimo» (360).
Ma la grandezza, la lucidità, di Gogol non è politica, non è morale. È piuttosto uno sguardo talmente plastico, verosimile e ironico sull’umano da poter dire, con Cioran, che «noi amiamo in lui la ferocia, il disprezzo degli uomini, la visione di un mondo condannato» (La tentazione di esistere, Adelphi 2022, p. 177). Noi amiamo in lui lo gnostico.

Warburg

L’«antico» come dispositivo psichico collettivo
il manifesto
5 gennaio 2023
pagina 11

Il contributo di Aby Warburg alla cultura contemporanea e alla comprensione dell’antico consiste prima di tutto nell’avere infranto ogni barriera accademica e ogni confine disciplinare, aprendo il sapere a sentieri intricati e interrotti ma fecondi, capaci di condurre nel cuore della grecità e nel nucleo del presente attraverso non soltanto libri, analisi, saggi e conferenze ma con l’invenzione di una Biblioteca dalla struttura e dalle intenzioni completamente inedite, una vera e propria «macchina per studiare».
Forse per ragioni di spazio l’articolo uscito sul manifesto manca delle poche righe conclusive, che trascrivo qui:
E in questo modo [Warburg] ha reso plurali il Classico, il Rinascimento, i Greci, gli europei, ha moltiplicato il dionisiaco nei saperi e nel tempo. Warburg è diventato ciò che studiava. E questo rappresenta il culmine della conoscenza.

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