Skip to content


Il Sogno di Ronconi

Teatro Strehler – Milano

Sogno di  una notte di mezza estate
di William Shakespeare

Traduzione di Agostino Lombardo e Nadia Fusini

Con: Riccardo Bini, Francesca Ciocchetti, Francesco Colella, Pierluigi Corallo, Giovanni Crippa, Raffaele Esposito, Gianluigi Fogacci, Alessandro Genovesi, Elena Ghiaurov, Melania Giglio, Marco Grossi, Sergio Leone, Giovanni Ludeno, Fausto Russo Alesi, Clio Cipolletta, Gabriele Falsetta, Andrea Germani, Andrea Luini, Silvia Pernarella, Stella Piccioni, Jacopo Crovella, Mario Fedeli, Antonio Gargiulo, Sandro Pivotti

Scene di Margherita Palli
Costumi di Antonio Marras
Musiche cura di Paolo Terni
Regia di  Luca Ronconi
Fino al 2 novembre 2008 – 12/23 novembre 2008 – 9/23 gennaio 2009

Il Sogno shakesperariano è quasi un unicum nella letteratura universale anche per la perfetta geometria onirica che lo intesse, per la varietà del linguaggio e quindi dei livelli ai quali può essere fruito, per il profondo disincanto -per nulla sognatore!- sulle relazioni umane e sull’amore. Metterlo in scena è dunque difficilissimo, perché si tratta di dare figura e forma a delle idee, a una tonalità emotiva.
Anche l’impresa di Ronconi è secondo me riuscita soltanto in parte. Tutto è insieme fastoso e sobrio, fondato sull’intuizione della fisicità del sognare e quindi su una grande concretezza di movimenti e di recitazione. L’incontro tra la regina Titania e l’asino Bottom è reso, ad esempio, con grande realismo, come un vero e proprio accoppiamento. Ma rimane l’impressione della impossibilità di trasformare le parole in teatro. Probabilmente, con quest’opera Shakespeare volle costruire l’estremo e suggerire l’irraggiungibilità del verbo. Per questo l’elemento più originale dello spettaolo è costituito dalla scenografia di Margherita Palli. A rappresentare gli ambienti sono infatti delle lettere, più o meno grandi e illuminate: Atene è dunque la parola “Atene”, così per la foresta e per la luna. Una intuizione geniale.
Annotazione in margine a proposito del pubblico, che si è messo ad applaudire freneticamente  durante le scene conclusive dedicate alla rappresentazione da parte degli artigiani ateniesi della “lacrimevole commedia di Piramo e Tisbe”. Come se non si aspettasse altro che di ridere. Ed era la prima dello spettacolo, quella seguìta da un pubblico composto soprattutto di attori e di critici…

Changeling

di Clint Eastwood
Con: Angelina Jolie (Christine Collins), Jason Butler Harner (Gordon Northcott), Jeffrey Donovan (Commissario di polizia J.J. Jones), Michael Kelly (V) (Detective Lester Ybarra), John Malkovich (Reverendo Gustav Briegleb), Amy Ryan (Carol Dexter) Devon Conti (Arthur), Gayle Griffiths (Walter Collins)
USA 2008

La vicenda accadde realmente a Los Angeles tra il 1928 e il 1935. Tornando dal lavoro, una giovane madre non trova il proprio bambino di nove anni. Dopo alcuni mesi la polizia le riporta un ragazzino che dice di essere suo figlio ma che non lo è. Alle richieste della donna di proseguire le ricerche, le Istituzioni rispondono internandola in un manicomio dal quale la salva solo un pastore presbiteriano che da anni denuncia la corruzione e la violenza della polizia della città. Viene catturato un serial killer che ha massacrato una ventina di bambini. Lo scandalo è grande. Processi e commissioni d’inchiesta danno ragione alla donna e alla sua tenacia.

Come in Un mondo perfetto e soprattutto nel magnifico Mystic River, la violenza sui bambini diventa l’occasione per una riflessione classica nella forma e disincantata nella sostanza antropologica, nel riconoscimento della tenebra inestirpabile che intesse l’umano e le sue espressioni. Una saggezza che nei film di Eastwood si sta ampliando sempre più fino a decretare il limite, la violenza e l’infamia delle grandi Istituzioni: polizia, amministrazioni, manicomi. La struttura arbitraria e repressiva di questi ultimi viene descritta in un modo degno di Basaglia. Una donna fragile e sola riesce tuttavia a incunearsi dentro la Macchina del potere e a svelarne la natura malvagia. La «speranza» è così l’ultima parola pronunciata nel film. Uno sperare contro ogni rassegnazione, contro il buon senso dei più, contro la viltà. Consapevoli che il Leviatano è indistruttibile ma che va combattuto ugualmente per essere e sentirsi ancora umani. Un’idea necessaria anche nell’Italia di oggi e non solo negli USA della Grande Depressione.

Il senso e la narrazione

Giuseppe O. Longo
Springer-Verlag Italia, 2008
Pagine XVIII-214

Condensare molto di ciò che si è imparato e che si è vissuto. E farlo non soltanto esponendo dei contenuti ma anche e soprattutto trasformando la propria scrittura in una dimostrazione di ciò che si sostiene, della tesi per la quale «sopprimere la narrazione non è possibile», poiché «gli umani sono creature della comunicazione» (pp. 164 e 1). L’impresa teoretica e letteraria di coniugare in modo rigoroso e appassionato il dire e i suoi modi è a Longo perfettamente riuscita.  In questo libro si intersecano, infatti, «matematica e poesia (…) estremi opposti della possibilità linguistiche» (p. 45), si uniscono competenze scientifiche di prim’ordine con una critica dura ma sempre argomentata alle pretese del linguaggio scientifico di esaurire l’ambito del dicibile, si trae il meglio dal monoteismo logico e matematizzante del metodo occamista e galileiano ma si punta decisamente al politeismo dei segni, a quell’impero di varianti, di molteplicità, di disseminazioni che è il reale. Un regno che noi stessi -dispositivi semantici- costruiamo respirando, vivendo, immergendo i corpi che siamo nel mare del senso, che è anche il luogo nel quale il presente scaturisce dai ricordi passati e dalle intenzioni future.
La nostra mente non si limita a registrare eventi, a incamerare dati, a collezionare percezioni ma partecipa attivamente alla costruzione del mondo. La dicotomia tra il soggetto e la realtà è uno degli ostacoli più persistenti e più gravi che si oppongono alla comprensione di quel sistema complesso di segni e processi dentro il quale esistiamo. Il limite forse più consistente delle scienze -quello dal quale scaturiscono anche gli altri- sembra abitare proprio qui: nell’approccio paradossalmente acritico con il quale esse pensano il vero. In realtà, anche le scienze sono forme dell’interpretazione. Il luogo da cui esse germinano è il soggetto nelle sue relazioni storiche, concettuali, professionali, economiche. La “libertà di ricerca”, ad esempio, trova il suo limite e le sue condizioni nei finanziamenti del capitale, nella capacità dei ricercatori di ottenere consenso e collaborazione, negli specifici modelli dentro i quali nascono i progetti e le ipotesi, negli scopi operativi e commerciali ai quali la ricerca serve, nell’utilizzo ideologico -e cioè esterno al proprio specifico ambito- della “scienza” come visione generale del mondo, nella stratificazione millenaria dei saperi. Anche di quelli che il metodo scientifico reputa oggi falsi -origini che tenta di nascondere come fanno i parvenu con i parenti più prossimi…- ma dai quali esso stesso è scaturito poiché «la scienza quantitativa e matematizzata oggi vincente si è distillata in un crogiolo ribollente di scorie, passioni e credenze, dalla quali ha tratto la sua forza creativa» (p. 11). Invece di ammettere con spirito davvero scientifico queste proprie origini, i ricercatori erigono spesso tribunali e barriere, costringendo chi voglia praticare le scienze ad abiure, ad autocensure, a forme di pensiero unico, poiché «la scienza seria è, per definizione, dei riduzionisti, quella dei riduzionisti» (p. 155).
Longo non dubita della fecondità di risultati e della potenza euristica del metodo galileiano ma sostiene che al di là degli ambiti e degli enti che le scienze quantitative sono in grado di cogliere e spiegare, c’è il mondo qualitativo dei soggetti, delle sensazioni, delle passioni e delle storie. Un mondo che il linguaggio matematico è per sua stessa definizione impossibilitato a indagare e sul quale quindi sono altri i linguaggi che possono far luce, mondi che vivono di tempo e che solo il narrare può dunque spiegare: «Norbert Wiener osservò che l’impoverimento associato alla formalizzazione sarebbe devastante per discipline che, come l’antropologia, la sociologia e la psicologia, si occupano di entità (umane) complesse, immerse in una rete di relazioni essenziali, molteplici e stratificate e in una storia imprescindibile. Per molte discipline (psicologia, sociologia, antropologia) è molto più adeguata un’impostazione di tipo “narrativo”, basata sui casi particolari, sugli eventi, anche sugli aneddoti, che non un’impostazione formalistica che ne ridurrebbe l’oggetto, complesso e sfaccettato, a una caricatura per difetto» (p. 69). La necessità del narrare non è una questione di stile o di comunicazione. È una necessità intrinseca alla scienza stessa, se intende comprendere la realtà. Perché la realtà è fatta di tempo. Alla staticità eleatica, al pensiero che reputa impura ogni contaminazione con il tempo, va opposta la verità mobile e cangiante che intride di sé ogni ente, evento e processo.

[Consiglio di ascoltare una breve e interessantissima intervista radiofonica rilasciata da Longo a proposito dei temi affrontati nel libro. Una versione più ampia di questa recensione si può leggere in Nuova Civiltà delle Macchine, anno XXVI, numero 1/2008, pagine 108-109]

Etologia umana

Irenäus Eibl-Eibesfeldt
ETOLOGIA UMANA
Le basi biologiche e culturali del comportamento

(Die Biologie des menschlichen Verhaltens Grundriss der Humanethologie
R.Piper GmbH e Co. KG München, 1984)
Edizione italiana a cura di Rossana Brizzi e Felicita Scapini, con gli aggiornamenti dell’autore per l’edizione USA, 1989.
Bollati Boringheri, Torino 1993
Pagine XII-554

«L’etologia umana può essere definita come la biologia del comportamento umano» (pag. 4) dove si definisce comportamento ogni azione che abbia uno scopo e sia consapevole, pianificata e intenzionale. Studiare la biologia del comportamento vuol dire analizzarne le componenti innate, quelle insite nell’organismo, sapendo comunque che nei mammiferi gli elementi innati e quelli acquisiti cooperano sempre nel produrre l’una o l’altra azione. Dal punto di vista etologico innatismo non vuol quindi significare che la natura umana sia immutabile, proprio perché la capacità di apprendere e quindi adattarsi meglio all’ambiente è costitutiva della nostra specie. «La vecchia contrapposizione tra empirismo e innatismo è oggi senz’altro superata. I tentativi del behaviorismo di ricondurre ogni comportamento a semplici collegamenti stimolo-reazione che si formano attraverso l’esperienza, possono considerarsi falliti. Il nostro sistema nervoso centrale non viene riempito di contenuti solo attraverso le percezioni sensoriali. Esso, al contrario, è predisposto a percepire, e dunque non è una tabula rasa. Il behaviorismo sopravvive tuttavia nelle idee di molti profani e le sue tesi semplicistiche sono accolte da una certa parte delle pedagogia, psicologia e sociologia» (380).
L’unità profonda di corpo e psiche fa sì che la cultura sia «per l’uomo una seconda natura e ciò influisce in maniera determinante sul destino della nostra specie» (441). L’invenzione della cultura ha aperto nuove prospettive nel percorso umano, tanto che Eibl-Eibesfeldt arriva a ritenere probabile «che cambiamenti culturali dello stile di vita possano indurre in futuro anche cambiamenti genetici; a favore di questa ipotesi vi sono già buoni indizi» (12). È stata l’intelligenza l’elemento più adattativo della specie e quindi un’evoluzione di grado superiore potrebbe riguardare le caratteristiche più tipicamente umane come la creatività, l’eticità, la razionalità. Le nostre possibilità di estinzione sono elevate quanto quelle di una ulteriore evoluzione e noi potremmo davvero rappresentare «un missing link, ossia un ipotetico anello di congiunzione» (437) a condizione che si riesca a sopravvivere.

La gravità della condizione umana oggi è data anche dal fatto che nel corso della filogenesi non vi è stata alcuna pressione selettiva contro la guerra, contro l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, contro l’esplosione demografica del Novecento -quando è chiaro che «se proseguirà anche in futuro la crescita esponenziale della popolazione terrestre, che fino ad oggi sembra inarrestabile, si profila per i prossimi decenni una catastrofe generale» (IX)- contro il potere delle immagini televisive -fenomeno evidentemente nuovissimo e il cui impatto è ancora difficile da valutare in termini evolutivi anche se è possibile fin d’ora coglierne i rischi di omologazione politica e culturale. Vicino alle riflessioni di Nietzsche, l’antropologo indica il compito primario della scienza -oggi- nell’«insegnare a pensare rigorosamente, a giudicare prudentemente e a ragionare conseguentemente», dando spazio alle speranze evolutive della specie «purché lo sviluppo della ragione umana non si arresti!». (Umano, troppo umano I, af. 265 e Umano, troppo umano II. Il viandante e la sua ombra , af. 183). Anche Eibl-Eibesfeldt, infatti, individua nell’ethos scientifico «l’unico ethos culturale di portata universale. Esso si basa sull’accettazione del realismo scientifico, sul presupposto della libertà di pensiero e di ricerca, e anche sull’idea che la conoscenza sia un bene e quindi che il sapere sia sempre meglio dell’ignoranza» (477). Non a caso l’autore conclude il suo libro ricordando la necessità socratica di diffondere almeno la consapevolezza dei problemi di fronte ai quali la specie umana oggi si trova e delle conoscenze che possono renderne più concreta la soluzione, in questo rimanendo «fedele all’invito che si trovava anticamente inciso sul tempio di Apollo a Delfi: “Conosci te stesso” » (479).

Il metodo utilizzato da Eibl-Eibesfeldt è quello comparativo, reso possibile dalla grande quantità di dati raccolti dallo scienziato nel corso di lunghi e ripetuti soggiorni presso alcune popolazioni dell’Africa, del Centro America e dell’Oceania: i Boscimani, gli Yanomani, gli Eipo e altri ancora. Verso di loro lo studioso rivolge uno sguardo scientifico e oggettivo ma anche e soprattutto empatico e partecipe: «al loro ricordo provo un forte senso di nostalgia per quella che è stata quasi la mia seconda patria» (459).

Robert Frank

Lo straniero americano
Milano – Palazzo Reale
Sino al 18 gennaio 2009

Un bianco e nero feroce e raffinato. Capace di svelare la pienezza del non senso. «All present in front of always changing fog», come scrive lo stesso Robert Frank (nato in Svizzera nel 1924). Nebbia che avvolge un’umanità silenziosa, profonda. Le foto mostrano il battito del suo cuore. Luoghi e città esistono solo come proiezione degli umani che le abitano e le edificano E tuttavia lo sguardo è fuori dal tempo, come se fossero tutti morti. Specialmente nella serie dedicata al 4 luglio 1958 a Coney Island -con i soggetti che dormono soli sulla spiaggia umida- e nelle opere più recenti, degli anni Novanta. Infatti, «you know, photographs immediately make everything old» e «now doesn’t really exist in photography. It’s always the past». Un’America senza retorica, un’umanità fatta di individui che cercano una qualche luce «per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi» (Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, p. 459).

L’Adalgisa Disegni milanesi

Carlo Emilio Gadda
Garzanti 2007 (1943)
Pagine 297

     


Milano
«città egèmone» (p. 171), con nel suo antico simbolo una «proliferante scrofa, animale dilettissimo all’Autore» (193), è il luogo sociale e psichico nel quale accadono gli eventi del tutto quotidiani ma che Gadda sa trasfigurare in un epos di stupefacente, galoppante, frenetica e splendida invenzione linguistica, in una dolente osservazione del cosmo umano, in una fenomenologia dei gesti, degli eventi e delle cose che si esprime in molteplici forme: nello sterminato elenco di oggetti, nella miseria del pettegolezzo attuato da chi “senza né figli, senza più voglie, si prese la briga e di certo il gusto di dare a tutte il consiglio giusto” come canta De Andrè, nella accurata descrizione del fumare, nel disvelamento della macabra ipocrisia dei necrologi. Dal quotidiano alla grande storia salto non v’è. E una magnifica pagina ricostruisce la vita di un Napoleone Bonaparte «intrigante arrivista (…) incoronando prepotentello» immerso nella «dorata e smaltata chincaglieria ed aquileria cesarea» (51-56).

Anche in un libro composto in gran parte dai lacerti di altri, nella affettuosa e spietata descrizione della vita milanese agli inizi del Novecento, Gadda riesce a meditare sulla «folla tediosa dei viventi» (233), segnata dal limite costitutivo per il quale «ogni più nobile schema nella imperfettibilità del mondo si avvera e perfeziona cariandosi, cioè accompagnandosi di qualche inevitabile imperfezione. Così come il corpo, andando, si accompagna del peso (gravame): e talora di un’ombra» (136). Il male, la morte e l’oltraggio -che della morte è figura- disegnano la potenza del tempo, costruiscono la vita come forma malinconica della memoria, di quanto ottenuto, del molto smarrito.

leggi di più

Ricordi – A se stesso

Marco Aurelio Antonino
(Ta Eis Eauton, 172 d.C.)
Introduzione di Max Pohlenz
Traduzione di Enrico Turolla
Commento di Marcello Zanatta
Testo geco a fronte
Rizzoli, Milano 1997
Pagine 770

Marco Aurelio ama e disprezza gli uomini in una trama di sentimenti davvero inestricabile: egli disdegna l’opinione del volgo la cui ammirazione è rivolta immancabilmente a quanto c’è di più basso, è convinto che il saggio non possa lamentarsi della malvagità dei molti poiché «è follia la pretesa che i malvagi non commettano colpe. Desiderio impossibile veramente!» (XI, 18) e tuttavia invita se stesso ad accettare e perfino amare coloro che la sorte gli ha posto accanto. Una contraddizione che diventa splendida in V, 20: «Un uomo è cosa, sotto un certo aspetto, in rapporto assai vicino con la mia persona, in quanto io debbo far del bene e debbo sopportare un mio simile; tuttavia in quanto taluni insorgono contro il loro dovere, in questo senso l’uomo diventa per me cosa indifferente non meno del sole, del vento, d’una bestia».
Qui appaiono chiarissime la comunanza e la differenza fra lo stoicismo e il cristianesimo. Anche Marco Aurelio denigra il corpo e i piaceri a esso legati, ribadisce di continuo una sorta di vanitas, omnia vanitas, giudica fumo «il ricordo, la gloria e qualsiasi altra cosa» (IX, 30) mostrando di condividere in pieno il nichilismo cristiano; come Agostino, anche Marco Aurelio indirizza l’interiorità socratica verso la dimensione morale e non più metafisica; anche l’imperatore trasforma la filosofia da indagine sulla natura, la vita, la bellezza in meditatio mortis.
E tuttavia egli rimane un romano che vive nell’orizzonte degli dèi che tutto intrecciano in una Necessità non etica ma naturalistica («Concedi che la Parca faccia il suo intreccio con quegli eventi che vuole» [IV, 34]; «Qualunque cosa ti accada, da secoli senza numero t’era stata preparata. E l’intreccio delle cause ha preparato la tua esistenza, da tempo infinito intessendola insieme con lo svolgersi di quella singola cosa» [X, 5]), che immagina il mondo come un unico grande corpo pulsante di trasformazioni incessanti e quindi di vita e di morte; che attacca esplicitamente il volontarismo cristiano ribadendo per intero l’etica intellettualistica dei Greci: «Quale l’arte tua? Esser buono. E questa meta come puoi raggiungere se non per mezzo d’una preparazione intellettuale, uno studio profondo sull’universale natura, uno studio sulle caratteristiche proprie della costituzione umana?» (XI, 5; cfr. anche XI, 3). L’etica diventa antropologia. La sofferenza non è frutto di una colpa ma di un errato giudizio della mente che valuta come essenziali cose a lei in realtà indifferenti.

Le splendide e intime riflessioni rivolte dall’imperatore a se stesso possiedono un sapore amaro, come il presentimento di una sconfitta, di una rinuncia alla forza straripante della vita. Dei tre elementi che secondo Eric Dodds definiscono il saggio stoico –spassionato, spietato e perfetto– Marco Aurelio sembra possedere la perfezione morale e l’indifferenza verso le passioni ma non quella energia che, se necessario, diventa riso e sorriso sulla commedia tragica e grottesca della vita e degli umani.

Vai alla barra degli strumenti