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MILANO SGUARDI DI QUARTIERE. Identità e rigenerazione

Urban Center Milano
Sino all’11 marzo 2009

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«L’essenza del costruire è il “far abitare”. Il tratto essenziale del costruire è l’edificare luoghi mediante il disporre i loro spazi. Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire». Il corsivo è di Heidegger e il brano si trova a pag. 107 di “Costruire abitare pensare”, uno dei testi raccolti in Saggi e discorsi (a cura di G.Vattimo, Mursia 1976). Il costruire non è dunque in primo luogo una tecnologia ma un essere. Di fronte al grande afflusso di nuovi abitanti provenienti dal Sud dell’Italia, la Milano degli anni Cinquanta e Sessanta affidò se stessa a ingegneri e urbanisti privi della cultura dell’abitare e dediti soltanto al costruire. Il risultato fu la distruzione di luoghi che da secoli circondavano la città di acque, di coltivazioni e di comunità ben armonizzate con l’ambiente. Al loro posto sorsero i quartieri Molise-Calvairate a est e San Siro a ovest, dove fu ed è ancora possibile un abitare che si integra a fondo col tessuto urbano. Invece quartieri come Gratosoglio a sud e Ponte Lambro a est vennero fisicamente tagliati fuori dalla città diventando -come scrive Bianca Bottero- «luoghi “intimamente predisposti” alla criminalità».

Degradati anche nelle strutture -oltre che nelle persone- in questi quartieri è ora in corso un’opera di riqualificazione urbanistica e sociale della quale la mostra testimonia con documenti e fotografie le modalità e le intenzioni. Quarant’anni fa un gruppo di abitanti di Gratosoglio pose una lapide «alla fermata del tram che non arrivava mai». Sarà dura che questo tram arrivi ora, in un momento di rimescolamento sociale tra vecchi residenti e nuovi immigrati, di crisi economica e antropologica, ma fare di tutto perché la città sia luogo di vita in ogni sua parte è un dovere assoluto di chi la amministra e di chi la abita.

L’École des femmes

di Molière
Teatro Strehler – Milano
con Daniel Auteuil, Jean-Jacques Blanc, Bernard Bloch, Michèle Goddet, Pierre Gondard, David Gouhier, Charlie Nelson, Lyn Thibault
scene Jean-Paul Chambas
regia Jean-Pierre Vincent
produzione Studio Libre – Odéon Théâtre de l’Europe

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Una regia e delle scene molto sobrie bastano a rendere ancora una volta contemporaneo uno dei più profondi e feroci testi di Molière. La vicenda di Arnolphe e della sua pupilla appare, infatti, anche come una parodia demistificante del comportamentismo, di quella illusione di onnipotenza dell’educatore sull’educando che fece scrivere a Watson: «Datemi una dozzina di neonati di sana e robusta costituzione fisica e lasciate che li tiri su in un mondo scelto da me e garantisco che di qualunque di loro potrò fare qualunque cosa: medico, avvocato, artista, capovendite, e, sì, persino straccione o ladro, indipendentemente dalle sue capacità, tendenze, inclinazioni, abilità, vocazioni, e dalla razza dei suoi antenati» (Behaviorism, Norton, New York 1930, p. 104). Il tutore che pretende di fare di una ragazza la propria marionetta si merita la beffa ideata da Molière. E così la meriterebbero le frotte di pedagogisti e tecnologi della didattica che vanno ripetendo le litanie del “successo formativo” e della esclusiva responsabilità degli insegnanti sui risultati dei loro allievi…Le persone, infatti, sono vive, libere, diverse e fatte a modo proprio, come è libera l’Agnès di Molière.

A un regista abile e intelligente bastano pochi particolari per rendere comunque non banale la messinscena di un classico: un sacchetto di carta da grande magazzino, degli occhiali da sole, la pietra lanciata da Agnès e che da allora rimane sempre sul palco, a ricordare l’ambiguità di ogni gesto. E poi l’eccellente recitazione della Compagnia, con una Lyn Thibault naturalissima nella sua ottusa ma sempre più consapevole ingenuità e un Daniel Auteuil capace di toccare molte corde e di far ridere come il più navigato attor comico.
E su tutto, naturalmente, la bellezza del francese quotidiano e poetico di Jean-Baptiste Poquelin.

Massa e potere

di Elias Canetti
(Masse und Macht, Classen Verlag, Hamburg 1960)
Trad. di Furio Jesi
Adelphi, Milano 1981
Pagine 615

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Questo libro restituisce del tutto, senza risolverlo ma addirittura ampliandolo, l’enigma della massa. Non si tratta di un affresco storico né di una tipologia sociologica ma di una serie di frammenti per pensare. Canetti tenta (in un senso molto diverso da Foucault) una fisica e, di più, una biologia del potere. La massa e il comando vengono pensati a partire dalle loro scaturigini nel mondo vegetale e animale. Psicologia, etnologia, storia, antropologia, etologia confluiscono nel magma di un tentativo lucidissimo di comprendere ciò che accade.
La dinamica individuo-massa viene imperniata sul contrasto fra due forze opposte. Quella centrifuga spinge a conservare l’identità del singolo tramite l’isolamento nel quale ognuno sta come un mulino a vento in una pianura sconfinata. Questa situazione, tuttavia, comporta un tale peso d’angoscia -il sentimento alla lunga inaccettabile dell’esser soli- da spingere a immettersi nella forza opposta, quella che unisce gli sparsi individui e tramite la quale «l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato. Essa [la massa] è l’unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto (…) D’improvviso, poi, sembra che tutto accada all’interno di un unico corpo» (pag. 18). Nascono così gli insiemi fisici, gli aggregati centripeti, la semplice vastità del numero. Ma il momento decisivo nel quale da una raccolta più o meno vasta di individui si passa alla vera e propria massa è la «scarica» nella quale tutti decidono di fare e di essere la stessa cosa, diventano uguali e provano con ciò un enorme sollievo, di carattere appunto fisico, biologico. Alcuni esempi: la paura improvvisa di fronte a un pericolo (un predatore, un’inondazione, l’esercito avversario, le forze dell’ordine) crea la massa in fuga; il rifiuto di un’azione dovuta fa nascere la massa del divieto (lo sciopero); la volontà di uscire a tutti i costi da una situazione giudicata insostenibile forma quella del rovesciamento (rivoluzioni e jacqueries); un gruppo che si autocelebra proiettando se stesso nella natura, in un eroe o in un dio, produce la massa festiva.

Cos’è, oltre la scarica, a unificare tali e altre forme di massa? In primo luogo la necessità di crescere indefinitamente, di penetrare ovunque senza lasciare nulla fuori di sé, di coincidere -alla fine- con tutto ciò che esiste. Poi, una eguaglianza «assoluta e indiscutibile» (35), che pervade la massa dando unità alla molteplicità di sensazioni, esperienze, volontà. Ancora: una concentrazione fisica di cui la massa sente comunque sempre l’insufficienza dato che essa vorrebbe annullare lo spazio fra un elemento e l’altro dei suoi componenti. Infine, la direzione, il muoversi tutti insieme verso qualcosa, unica garanzia contro il pericolo sempre incombente del disgregamento. E quindi la forma-massa davvero originaria, modello e insieme simbolo di ogni altra, sta nella natura e nelle diverse sue manifestazioni: grano, foreste, pioggia, vento, sabbia, mare, fuoco.

Di fronte alla massa -suo prodotto? suo nemico? Canetti non sembra chiarirlo del tutto- sta il potere, la cui natura è in primo luogo biologica e consiste nell’afferrare ciò che sta davanti e a disposizione, mangiarlo, incorporarlo e annientare così ogni diversità rispetto a colui che divora. In ogni luogo e ovunque appaia, che cosa è il potere? «L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza» (273). Il potente è in primo luogo il sopravvissuto, l’unico superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili; il suo trono poggia su mucchi sterminati di cadaveri: «Il più antico ordine -impartito già in epoca estremamente remota, se si tratta di uomini- è una sentenza di morte, la quale costringe la vittima a fuggire. Sarà bene pensarci quando si parla dell’ordine fra gli uomini» (366).  Lo strumento e la tonalità del potere è la dissimulazione, il silenzio sulle proprie reali intenzioni, il segreto indicibile, il moltiplicarsi delle maschere, la finzione. Solo così la parola detta, quando sarà detta, avrà il peso di un’autorità senza limiti, di una sentenza senza appello. Ogni ordine è parte di questa morte che viene dall’alto, una spina che si conficca in chi la riceve, che non si potrà dimenticare e da cui ci si potrà liberare solo trasmettendo a un altro lo stesso identico comando. Ma anche il potente vive la sua angoscia: essa è il contraccolpo della sorte, il poter perdere l’autorità e dover subire la vendetta di coloro a cui si è comandato: «sapere che tutti coloro cui si sono impartiti comandi, tutti coloro che si sono minacciati di morte vivono e si ricordano (…), questa sensazione profondamente radicata e tuttavia indeterminata, poiché non si sa mai quando i minacciati passeranno dal ricordo all’azione, questa tormentosa, invincibile e indefinita sensazione di pericolo è appunto l’angoscia del comando» (373). È questa per Canetti la spirale paranoica del potere.

L’unica forma di liberazione dall’impulso a sopravvivere distruggendo ciò che è diverso da noi «è per propria natura una soluzione riservata solo a pochi» e consiste in «un isolamento creativo che faccia acquistare l’immortalità» (570): l‘arte, il sapere, la cultura come sopravvivenza che non si nutre della morte altrui, anzi moltiplica e ricrea la vita: «Così i morti si offrono come il più nobile nutrimento ai vivi. La loro immortalità torna a vantaggio dei vivi: grazie a questo capovolgimento del sacrificio del morti, tutto prospera. La sopravvivenza ha perduto il suo aculeo e il regno dell’inimicizia è alla fine» (336).

Canetti non giudica la massa, la descrive come qualcosa che costituisce il mondo, sia umano sia animale e vegetale. Valuta invece il potere, svelandone la vera e propria natura patologica. Ma in questa modalità del giudizio sembra permanere l’idea roussoviana delle masse che autolegittimano il loro potere nella volontà generale, masse che si autocelebrano come Volk e come fonte di una giustizia inappellabile. Masse che esprimono anch’esse quel desiderio di morte che «si trova davvero ovunque, e non è necessario scavare molto nell’uomo per trarla alla luce» (87).
Il libro coinvolge a fondo. Un maestro della scrittura -Premio Nobel per la letteratura nel 1981- in delle pagine splendenti offre una comprensione radicale del potere, guarda il volto della Medusa e sopravvive.

Giovanni, il dissoluto

Spazio Teatro 89– Milano

Giovanni – Il dissoluto in attesa di giudizio

di e con Gianluca Di Lauro
Drammaturgia e regia Marcela Serli
Una produzione APARTE e Mauro Bosio
Sino al 30 ottobre 2008

Giovanni è il bambino coccolato dalla madre, è l’adolescente che la madre non riconosce più, è il compagno di conquiste dello Sgangia, è il seduttore che coltiva tre relazioni contemporaneamente, è il desiderio nascosto del buon padre di famiglia che si reca nelle discoteche per trasmettere ai ragazzi gli insegnamenti di Benedetto XVI sull’amore, è -delle discoteche- l’annoiato sovrano, è il bevitore di intrugli e di donne, è -infine- Don Juan Tenorio, il gentiluomo di Mozart e Da Ponte.

E tutto questo diventa corpo e azione attraverso un solo, eccellente, attore e su una scena spoglia ma raffinata nei suoi pochi oggetti, movimenti e musiche. Fondamentali queste ultime, da Piero Ciampi alla Tekno. Gianluca Di Lauro e Marcela Serli riescono soprattutto a trasmettere la frenesia di un personaggio che non può star fermo, mai. Perché l’immobilità è morte. Giovanni desidera, conquista e abbandona, secondo il più noto degli schemi. Ma è la morte che vorrebbe sedurre.  Non potendo, moltiplica il suo corpo nelle altre, affinché in loro qualcosa di sé rimanga ancora vivo. Per sempre. E così è.

Ethnopassion

La collezione etnica di Peggy Guggenheim
Altre culture a Milano

Milano – Fondazione Mazzotta
Sino al 22 febbraio 2009

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La Terra-madre, entità ambivalente che dà e toglie vita (Medea costituisce un’eco arcaica nel pieno della classicità ellenica); la fecondità come dono e come richiesta continua rivolta al divino; gli spiriti ermafroditi che di tanto in tanto arrivano nei villaggi; l’universalità e necessità delle iniziazioni, senza le quali il tempo individuale e quello collettivo risulterebbero separati e quindi morti. La consunstanzialità di Tempo e Corporeità.

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Il Sogno di Ronconi

Teatro Strehler – Milano

Sogno di  una notte di mezza estate
di William Shakespeare

Traduzione di Agostino Lombardo e Nadia Fusini

Con: Riccardo Bini, Francesca Ciocchetti, Francesco Colella, Pierluigi Corallo, Giovanni Crippa, Raffaele Esposito, Gianluigi Fogacci, Alessandro Genovesi, Elena Ghiaurov, Melania Giglio, Marco Grossi, Sergio Leone, Giovanni Ludeno, Fausto Russo Alesi, Clio Cipolletta, Gabriele Falsetta, Andrea Germani, Andrea Luini, Silvia Pernarella, Stella Piccioni, Jacopo Crovella, Mario Fedeli, Antonio Gargiulo, Sandro Pivotti

Scene di Margherita Palli
Costumi di Antonio Marras
Musiche cura di Paolo Terni
Regia di  Luca Ronconi
Fino al 2 novembre 2008 – 12/23 novembre 2008 – 9/23 gennaio 2009

Il Sogno shakesperariano è quasi un unicum nella letteratura universale anche per la perfetta geometria onirica che lo intesse, per la varietà del linguaggio e quindi dei livelli ai quali può essere fruito, per il profondo disincanto -per nulla sognatore!- sulle relazioni umane e sull’amore. Metterlo in scena è dunque difficilissimo, perché si tratta di dare figura e forma a delle idee, a una tonalità emotiva.
Anche l’impresa di Ronconi è secondo me riuscita soltanto in parte. Tutto è insieme fastoso e sobrio, fondato sull’intuizione della fisicità del sognare e quindi su una grande concretezza di movimenti e di recitazione. L’incontro tra la regina Titania e l’asino Bottom è reso, ad esempio, con grande realismo, come un vero e proprio accoppiamento. Ma rimane l’impressione della impossibilità di trasformare le parole in teatro. Probabilmente, con quest’opera Shakespeare volle costruire l’estremo e suggerire l’irraggiungibilità del verbo. Per questo l’elemento più originale dello spettaolo è costituito dalla scenografia di Margherita Palli. A rappresentare gli ambienti sono infatti delle lettere, più o meno grandi e illuminate: Atene è dunque la parola “Atene”, così per la foresta e per la luna. Una intuizione geniale.
Annotazione in margine a proposito del pubblico, che si è messo ad applaudire freneticamente  durante le scene conclusive dedicate alla rappresentazione da parte degli artigiani ateniesi della “lacrimevole commedia di Piramo e Tisbe”. Come se non si aspettasse altro che di ridere. Ed era la prima dello spettacolo, quella seguìta da un pubblico composto soprattutto di attori e di critici…

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