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Nessun perdono

«Perdono», «perdonare» sono parole prive di significato. Esse hanno infatti senso soltanto in relazione alla parola e al concetto di «colpa». Ma nessuno al mondo è colpevole; nessuno al mondo è responsabile di ciò che fa bensì di ciò che è. L’essere in un modo o nell’altro non dipende tuttavia dal soggetto ed è invece in relazione con la genetica, con l’ambiente, con l’innocente e insensata casualità della natura che getta i suoi dadi offrendo a uno gli occhi chiari e all’altro pupille scure. Così accade per il carattere che -ha ragione Eraclito- è il vero demone di ciascuno.
A chi si comporta in modo tale da farmi soffrire -agisce cioè in un modo che dal mio punto di vista è dannoso- io non posso poi offrire alcun perdono, per il semplice fatto che non c’è nulla da perdonare. C’è, semmai, da ricambiare con l’indifferenza, con il disprezzo, oppure colpendo a mia volta. Ma non, ribadisco, per ciò che l’altro mi ha fatto bensì per ciò che l’altro è, per il modo in cui è venuto al mondo, per il fatto stesso di essere venuto al mondo, rendendo in questo modo il mondo un po’ più triste. Ma l’altro, in quanto agente, non ha nessuna colpa. È innocente. Non posso quindi perdonarlo. «Operari sequitur esse ergo unde esse, inde operari» (Schopenhauer, La libertà del volere umano, Laterza 1988, p. 118).

Nord

Nord
(Gallimard, 1959)
di Louis-Ferdinand Céline
Traduzione di Giuseppe Guglielmi
In TRILOGIA DEL NORD
Edizione presentata, stabilita e annotata da Henri Godard
Einaudi, Torino 2010
Pagine XXXIX-1092 (Nord, pp. 293-683)

 

Zornhof è il luogo a cento chilometri a nord di Berlino dove il narratore viene confinato dopo aver girovagato da un castello all’altro. Ancor più che a Sigmaringen, la putrefazione del regime nazionalsocialista è qui evidente. Lo è al modo di un teatro di marionette nel quale tutti -feudatari prussiani, matrone russe, prigionieri politici, militari tedeschi, zingari, profughi- recitano la propria parte di folli in un mondo estremo, il mondo nel quale «la ragione è morta nel ’14, novembre ’14…dopo è finito, tutto scazza…» (pag. 443).
In questo mondo di pazzi la lucidità di Cèline è stupefacente. Lucidità su se stesso, sulla «magia della sua povera persona, così gratuita» e capace d’essere riuscita «in questa acrobazia che si trovano tutti d’accordo, un attimo, destra, sinistra, centro, sagrestie, logge, cellule, carnai, il conte di Parigi, Joséphine, mia zia Odile, Krukrubezev, l’abate Tiralira, che [io] sono la più gran sozzeria vivente» (469 e 599).
L’inquietudine che non gli fa godere l’istante è stata presa per inaffidabile cattiveria. L’innata curiosità che gli farebbe «scalare la torre Eiffel con i miei due bastoni» «per imparare anche una piccola cosa, una sciocchezza» (548) è scambiata per cinismo. L’anarchismo -«anarchico sono, come ieri domani, e me ne frego proprio delle opinioni!» (383)- è diventato immoralità. Ma è che «tutti i vinti son spazzatura!…lo so…eccome…» (303).
E tuttavia questo sconfitto della storia ha saputo persino profetizzare il futuro dell’Europa fatto di moneta  unica, di pensiero unico: «Berlino, Parigi, un’ora appena! […] il progresso di domani! dopo la guerra!…una sola moneta e l’aereo! un’ora!… piú passaporti!» (458-459). Questo sconfitto dalla passione ha descritto il patetico dell’umano e dell’amore come solo Proust ha saputo fare:

Ma i «figami» non sono solo corpi!… zotico! sono «compagne»! e i loro cinguettii, incanti e ghingheri? buon pro vi facciano! se ci avete il gusto del suicidio, incanti e cinguettii, tre ore al giorno, impiccarvi vi farà un bene boia!… lunga! corta!… sia detto senza cattiva intenzione! o passerete tutta la vecchiaia ad avercela col vostro uccello per avervi fatto perdere tanti di quegli anni a piroettare, scalpitare… fare il bello, sulle vostre zampe anteriori, su un piede, l’altro, per avere l’elemosina di un sorriso…(463)

Tutti cerchiamo di elemosinare un sorriso dentro «sta troia merda di esistenza…» (444). C’è chi per carattere e per storia ha imparato a pensare soltanto a sé, e sono la più parte -«quando la gente si preoccupa di te è a loro che pensano» (622)- e c’è chi commette l’errore che anche Proust aveva compreso quando afferma che «le due massime cause d’errore nei nostri rapporti con un’altra persona sono di aver buon cuore, oppure, quell’altra persona, amarla. Si ama per un sorriso, per uno sguardo, per una spalla. Tanto basta» (La fuggitiva, Einaudi 1978, p. 121). Anche Céline pensa che «il crimine, umanamente parlando, l’imperdonabile errore: pensare agli altri!…Prudenza, Egoismo fanno una coppia perfetta, schifosa, merdosa, ma così compatta; adorabile, solida!» (520). Non è forse vero, ad esempio, che bisogna possedere almeno un poco di nobiltà per continuare a rispettare una persona che ti ama molto e che si prostra ai tuoi piedi, al tuo cuore? Quante persone conosci, lettore, capaci di tale rispetto?
Ma nonostante la nostra specie che «infila, genera, stronca, squarta, si ferma mai da cinquecento milioni di anni…che ci sono uomini e che pensano…storto e di traverso, vai a capire, ma forza! copulano, popolano, e braoum! tutto esplode! e tutto ricomincia!» (517), nonostante la storia e la ferocia degli umani «c’è del buon cuore dove che sia, non si può dire che tutto è crimine…» (409).
Quel qualcosa di buono che pur esiste va prima visto per poter essere poi anche vissuto. E «non vediamo che quel che guardiamo e non guardiamo se non quello che abbiamo già in mente…» (479). La più parte degli umani è cieca alla luce. E forse soltanto il bagliore immenso di una catastrofe tecnologica e bellica potrà aprirle gli occhi.
Tutto questo può fare a meno del contesto in cui Nord si svolge. Al di là della storia, al di là della contingenza e dell’ora di un momento -che sia il 1944 o altro- la parola di Céline è al sempre che guarda, è il sempre che coglie.

 

Millenni di Sole

Ritmo di contrabbando
di Eugenio Bennato
da Sponda Sud (2007)

«Quando sona la taranta / è il mio sud che dal suo ghetto / sta sfidando tutto il mondo / col suo ritmo maledetto / sta sfidando anche l’inferno / il mio sud scomunicato / quando sona la taranta / quella musica è il peccato» (Eugenio Bennato). Il potere della Taranta è la disperazione mistica e felice delle terre infuocate da millenni di Sole, abitate dal lutto e dalla gloria, viventi nella servitù e incoercibili nell’anarchia, sprezzanti verso i preti e obbedienti alle loro magie. Il Sud è fatto di disordine e di necessità, del giallo di campi riarsi e del turchese di un cielo senza pace. È fatto di una solitudine senza salvezza, di una diffidenza senza futuro, di una solidarietà monadica che ignora la communitas. Il Sud è l’ironia che sta al fondo della morte e che nell’ultimo tratto della propria fatica si piega lentamente verso il sonno invocando ancora una volta la Madre. Il Sud è la tenebra che rende possibile ogni luce. Il Sud è un arrendersi che non conosce sconfitta.

[audio:Ritmo_di_ contrabbando.mp3]

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Ignoranza e altri crimini

Mente & cervello 100 – aprile 2013

Il terremoto che il 6 aprile del 2009 colpì l’antica e splendida città dell’Aquila fu forse -nonostante i 308 morti e i 1600 feriti- il minore dei mali che da allora si sono riversati su quella terra. La catastrofe foriera di angoscia, di perdita dell’identità storica, di gravi sindromi tra i quali la depressione, è arrivata dopo ed è stata portata non dalla Terra e dalla sua energia ma dai potenti e dalla loro ignorante avidità.
È quanto emerge con chiarezza da un’inchiesta di Mente & cervello dal titolo «Il terremoto dell’anima». Si accenna alla corruzione profonda che guidò le scelte del governo Berlusconi e della Protezione civile in mano ai suoi complici. Al di là della stessa corruzione fu -ed è- una profonda ignoranza antropologica e filosofica a ispirare i delitti di costoro. Ignoranza del fatto che «una città, e tanto più una città italiana, con una storia millenaria, non è solo un luogo dove le persone abitano. È un luogo dove le persone vivono» (M. Cattaneo, p. 3). E invece le fredde e artificiali New Town sono «non luoghi, spazi replicati a cui non si riesce a dare significato» (R. Salvadorini, 32). Soltanto un’ideologia politicotelevisiva come quella di Berlusconi poteva scambiare il gelo di una scenografia pubblicitaria -la New Town appunto- con il calore dei luoghi dove si stratifica la vita. La decisione di non ricostruire subito il centro dell’Aquila deportando invece i suoi abitanti in tali non luoghi è uno dei più gravi crimini dei governi berlusconiani. Ma non è bastato neppure questo: la menzogna televisiva -sempre guidata dallo stesso soggetto- si è accanita a produrre quello che lo psicoterapeuta Massimo Giuliani ha definito il trauma mediatico, vale a dire «la negazione degli eventi e della sofferenza. A partire dalla frase di Berlusconi che invitava a prendere le tendopoli come una “vacanza in campeggio”. Un invito a non credere alle proprie percezioni. […] Quando in certe trasmissioni si sentiva dire che gli aquilani stavano bene, molti vivevano l’ingiustizia di vedere negato il proprio disagio concreto; così quello che è successo all’Aquila ha fatto sentire molte persone violentate nella propria sofferenza. […] Perché non c’è niente di peggio che raccontare bugie sul dolore delle persone». E quindi è adesso necessaria la «ricostruzione dei luoghi, dello spazio e di una “saldatura” del tempo» (Id., 33).

A quanti -siano essi fisici o metafisici- si ostinano a negare l’esistenza e la pervasività del tempo risponde la realtà stessa dei loro cervelli, i cui neuroni hanno bisogno di un continuo dinamismo spaziotemporale anche soltanto per continuare a percepire suoni, colori, immagini, odori, sapori.  Quegli odori e quei sapori dei quali «il neuroscienziato Proust» (così lo definisce Jonah Lehrer nel titolo di un suo libro) era perfettamente consapevole. Un articolo di Daniela Ovadia riassume la fisicità del tempo proustiano, la potenza della memoria corporea sulla quale è edificata l’intera Recherche, la scoperta che i ricordi sono continuamente riscritti dalla condizione presente in vista degli obiettivi futuri, la consapevolezza che il tempo è anche tutto questo poiché a essere corporea è la vita.
«Per diventare stabili, i ricordi devono creare nuove sinapsi e ogni rievocazione ne modifica la struttura biologica, consolidando i legami tra alcuni neuroni e rimuovendone altri. Ecco perché ciò che ricordiamo è fallace e contiene sempre una quantità più o meno grande di “invenzione”, una situazione che Proust, terrorizzato dall’idea di perdere tracce di sé, aveva già magistralmente descritto nella sua opera» (45).
Il corpomente intriso di memorie e di attese, il corpomente fatto di tempo, è sempre stato il vero obiettivo anche di coloro che dicono di dedicarsi all’“anima”. Il Museo laboratorio della mente, allestito a Roma nell’ex manicomio di Santa Maria della Pietà, mostra ancora una volta come ogni potere sia un biopotere. Nei suoi spazi si fa evidente «come l’istituzione prenda possesso del corpo, l’ultima cosa che davvero apparteneva al paziente e lo distingueva dagli altri» (G. Sabato, 85-86).
È quanto testimoniano anche il celebre esperimento che Stanley Milgram condusse nel 1963 -a partire dal caso Eichmann- e che trasformò dei semplici volontari in aguzzini di altre persone soltanto perché qualcuno in camice bianco ordinava loro di trasmettere delle scariche elettriche “in nome della scienza”. (D. Ovadia, 66 e sgg.).
Lo testimonia la persistenza di una pratica come la vivisezione, ormai tenuta in piedi soltanto per ragioni finanziarie e non scientifiche, tanto che persino Steven Hyman, già direttore del National Institut of Mental Health (NIMH) e ora docente ad Harward, sostiene che «i ricercatori e le autorità dovranno trovare il coraggio di saltare la sperimentazione animale, che rischia di essere fuorviante» (intervista di G. Sabato, 39). Che si tratti di una pratica tanto feroce quanto insensata è dimostrato da un “esperimento” di questo genere: «Come modello della depressione si prendono topi appesi per la coda o messi in un recipiente d’acqua e si misura quanto tempo impiegano a smettere di dimenarsi, segno che ormai sono “disperati”. Ovviamente il test non riproduce le tante manifestazioni e meccanismi biologici della depressione. Ma l’imipramina, uno dei primi antidepressivi, prolunga il tempo per cui i topi lottano, e questa capacità di “contrastare la disperazione” è presa a segno dell’efficacia. […] Questi studi non hanno aggiunto nulla alla comprensione della patologia depressiva. In questo caso del resto neanche la biologia del fenomeno è rispecchiata: i test nei roditori individuano composti che agiscono dopo un’unica somministrazione, mentre l’umore dei depressi migliora solo dopo settimane d’uso» (36).
Ci sono tanti modi di essere ignoranti ma gli effetti sono sempre criminali. Su questo Socrate aveva ragione.

Religione, invidia, figli

Mente & cervello 99 – marzo 2013

Nell’esagono che compone le scienze cognitive -psicologia, neurologia, linguistica, filosofia, antropologia, intelligenza artificiale-, l’antropologia sta emergendo sempre più. Essa, infatti, rende possibile l’individuazione delle radici più profonde di molti fenomeni della vita individuale e collettiva e mostra la loro dimensione olistica, lontana da ogni interpretazione troppo riduttiva di realtà assai complesse nel loro statuto e nelle loro conseguenze.
Di tali realtà fa parte l’esperienza religiosa. Le ricerche sperimentali sembrano dimostrare che «più ci si impegna in attività religiose e meglio si sta» (S. Upson, p. 25). Le ragioni di questo fenomeno vanno naturalmente al di là delle specifiche credenze dell’ebraismo, del cristianesimo, dell’islam, dell’induismo o di altre fedi e hanno a che fare anche con i contesti nei quali l’esperienza religiosa viene vissuta: «I credenti saranno forse più felici dei senza Dio, ma solo se la società in cui vivono dà molto valore alla religione, e questo non succede sempre» (Id., 26). Altri studiosi offrono risposte di tipo evoluzionistico. Le credenze religiose, infatti, rispondono assai bene al bisogno che i mortali hanno di trovare un significato forte e totalizzante alle proprie esistenze: «I bambini vengono al mondo con una propensione fortissima ad attribuire significato ai fenomeni dell’ambiente in cui vivono, rintracciando continuamente pattern e relazioni causali negli eventi del mondo» (V. Girotto, T. Pievani, G. Vallortigara, 34). Tali relazioni causali sono all’origine dell’individuazione di agenti consapevoli ai quali ascrivere l’origine di ciò che accade: è assai più pericoloso attribuire al vento l’agitarsi di un ramo, se invece è un predatore a esserne la causa, che vedere un predatore là dove agisce soltanto il vento. «Questa ipersensibilità del meccanismo per la rilevazione degli agenti deve essere stato un motore cruciale nell’evoluzione delle credenze nel sovrannaturale» (Id., 36). Ovviamente lontano dalla forma mentis evoluzionistica, già Spinoza aveva comunque attribuito a fattori naturali la credenza nel teleologismo, nella presenza di divinità che agiscono al fine di favorire o danneggiare gli umani.
Favoriti o danneggiati siamo dagli altri mortali, i quali a volte -spesso- ci tradiscono e che noi tradiamo. Il tradimento può essere rivolto non soltanto a una persona ma anche a un’idea, un’organizzazione, una fede. Tra le tante possibili cause, una delle più tristi è l’invidia, sentimento che personalmente giudico ripugnante e con il quale il soggetto che lo nutre attesta da sé la propria inferiorità nei confronti dell’invidiato. Intervistato da Paola Emilia Cicerone, Mario Perini sostiene che «le persone, le qualità, le idee oggetto di ammirazione possono trasformarsi in oggetti odiati nel momento in cui la loro superiorità suscita nel soggetto un intollerabile sentimento di inferiorità. Il tradimento può essere un modo per allontanarsi dalla fonte del dolore, e insieme attaccarla e distruggerla» (47).
Quanto meglio sarebbe, invece, valorizzare ciò che ci accade e ciò che siamo, senza confrontarlo con ciò che accade agli altri e con ciò che gli altri sono. Positività e gratitudine, infatti, «migliorano la salute e il benessere psicofisico» non soltanto nostro: «Cercare di essere felici può apparire uno sforzo egoista, ma in effetti è un obiettivo utile da perseguire non solo per se stessi, ma per la nostra comunità» (E. Seppala, 102 e 103).
Motivo di invidia e di tristezza potrebbe essere il non avere figli ma in un loro libro –Senza figli. Una condizione umana, recensito da P.E. Cicerone- Duccio Demetrio e Francesca Rigotti difendono la condizione di «chi sceglie di essere genitore e figlio di se stesso e il senso della vita lo cerca altrove, magari proprio nel “partorire con la mente”. […] E forse, concludono gli autori,  la discriminante vera “non è tra chi di figli ne ha avuti e chi no, ma tra chi non si interroga sul senso amaro, dolente del vivere e chi invece dedica a tale scopo la sua inesausta, sempre incompiuta ricerca”» (104).

Bioetica

AA. VV.
Dizionario di Bioetica
A cura di Gaetano Vittone
Direttore responsabile Giuseppe Torresi
Villaggio Maori Edizioni
Catania 2012
Pagine 470

Ho collaborato a questo Dizionario con le seguenti voci:

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