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Un'immobilità senza requie

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Il ritorno a casa
(The Homecoming, 1964)
di Harold Pinter
Traduzione di Alessandra Serra
Con: Paolo Graziosi, Alessandro Averone, Elia Schilton, Rosario Lisma, Andrea Nicolini, Arianna Scommegna
Regia di Peter Stein
Sino all’1 dicembre 2013

Il vecchio Max vive in un sobborgo di Londra con i suoi due figli, uno aspirante pugile e l’altro magnaccia, e con il fratello, che fa lo chauffeur. I rapporti tra di loro sono sprezzanti, rancorosi, verbalmente violenti. Una notte torna dopo sei anni dagli Stati Uniti il figlio maggiore, professore di filosofia, con la moglie. Al mattino si scatena la misoginia di questi soggetti dalle vite piatte e senza luce. Ruth sembra la vittima, consenziente ma anche in grado di capovolgere la situazione a proprio vantaggio.
Ancora la famiglia, la sua perversione. Ma l’elemento decisivo è un altro. È una scrittura drammaturgica capace di dire tutto sin dalle prime battute e insieme di svolgere nel tempo il viluppo iniziale di solitudine e di ferocia. I personaggi rimangono sempre gli stessi, nell’immobilità delle loro nature e della loro storia, e però scopriamo sempre qualcosa di nuovo. Personaggi monocordi e schizofrenici, convenzionali e volgari, indifferenti a tutto ciò che non siano i propri bisogni. Nel teatro di Pinter emerge la particolarissima animalità dell’umano. Noi, infatti, non potremo mai possedere l’innocenza degli altri animali, il loro essere d’emblée al di là del bene e del male. Possiamo, invece, situarci al di là del bene e del male, nella sfera dell’oggettività filosofica o in quella del sadismo e del cinismo esclusivamente umani.
Si fa fatica a capire che cosa il pubblico mediamente borghese possa applaudire di una commedia così immorale, che per quasi tre ore conduce lo spettatore dentro i meandri della degradazione. L’abitudine, forse, le convenzioni teatrali. E certamente l’apprezzamento verso una regia capace di porsi al servizio di un’immobilità senza requie.

 

L'anarchia selvaggia

 

Recensione a:
Pierre Clastres
L’anarchia selvaggia
Le società senza stato, senza fede, senza legge, senza re
(Elèuthera, 2013)
in A rivista anarchica
n. 384, Novembre 2013
Pagine 56-58

Consiglio anche -tra i tanti contributi di questo come degli altri numeri di A– la lettura di una riflessione di Stefano d’Errico sulla buona educazione come atteggiamento rivoluzionario, Generazione siberiana; del dossier dedicato alla Grecia, Exarcheia e le Cicladi; della riflessione di Peter Lamborn Wilson (alias Hakim Bey) sulla possibilità di una religione anarchica, con molti riferimenti a Nietzsche e al paganesimo; della recensione di Andrea Staid a Lo Stato di Harold B. Barclay; della critica che Felice Accame rivolge allo scientismo più dogmatico, Le scoperte dell’America e i fossili culturali; della ricostruzione che Luigi Botta fa degli ultimi istanti e dei funerali di Sacco e Vanzetti, La storia infinita di Nicola e Bart.

 

Videocrazia


La società videocratica
in L’anarchismo oggi. Un pensiero necessario
«Libertaria 2014»
a cura di Luciano Lanza
(Mimesis Editore 2013, pp. 230)
Pagine 67-71

La nuova serie di Libertaria, diventata un annuario, si apre con una riflessione a più voci e a diverse voci sulla fecondità e attualità dell’anarchismo.

«Oggi il pensiero anarchico si presenta come uno dei più originali e convincenti in un contesto caratterizzato dalla “crisi delle ideologie”. E non è un caso che l’anarchismo si sottragga a questa crisi generalizzata: non è mai stato un’ideologia nel senso pieno del termine, ma una teoria e una pratica della libertà, dell’eguaglianza e della diversità. Ed è anche per questo suo aspetto poliedrico e al contempo omogeneo (contraddizione solo apparente) che è riuscito a influenzare quasi tutti i campi del sapere e dell’arte contemporanei. Incredibile a prima vista, ma vero»
(Dalla quarta di copertina)

Dissipatio

Dissipatio H.G.
di Guido Morselli
(1973)
Adelphi, 2012
Pagine 142

Il Narratore senza nome è tutti i nomi. Egli è infatti l’ultimo uomo rimasto sul pianeta dopo che in un solo istante, alle 2 della notte tra il I e il 2 di giugno, l’umanità si è dissolta. Dissipatio Humani Generis è la formula attribuita a Giamblico per indicare lo sparire dell’umano, il suo evaporare. Sorpreso, incredulo, costernato, euforico, rassegnato, ilare, sollevato, l’eletto o l’escluso -dipende dal punto di vista- ricostruisce gli eventi che hanno portato all’Evento, compresa la sua volontà di uccidersi proprio alla stessa ora in cui è avvenuto l’impensabile.
Questa «monade intellettuale senza aperture né impegni» (pag. 28) molte volte aveva desiderato la solitudine, il silenzio e ora gli si offre una Solitudine senza riserve, un Silenzio diverso da ogni altro sperimentato tacere, un «silenzio da assenza umana […], un silenzio che non scorre. Si accumula» (33). L’umano è parentesizzato. Una metafisica e insieme empiricissima epoché mostra la potenza degli oggetti e quella della natura. Gli altri animali conquistano gli spazi che una volta furono abitati da noi. L’istinto avverte gli uccelli «di una novità in cui certo non speravano; il grande Nemico si è ritirato […]. O genti, volevate lottare contro l’inquinamento? Semplice: bastava eliminare la razza inquinante» (53). La ferita, l’inganno, la vis costruttiva e distruttiva si è estinta con la nostra specie. Una calma furia politica attraversa i pensieri del sopravvissuto contro i «samaritismi ipocriti della nostra società, che offre una mano a coloro che lei, proprio lei, butta nel fosso» (25). Ma non si tratta di storia, si tratta di natura. Non soltanto di natura, si tratta del sacro. La sarcastica apocalisse è rappresentata da «tre angeli neri, gli stessi a cui, in vita, quelli si prosternavano idolatri, e ognuno dei tre porta uno scudo, e su uno degli scudi si legge: Sociologismo, sull’altro, Storicismo, sul terzo, Psicologismo. A piè del monte, due serpi loricate strisciano sibilando e buttando fuoco. E ognuna sulle scaglie ha una scritta, e su una si legge: Advertising, e sull’altra: Marketing» (88). Crisopoli, così il Narratore chiama la capitale della sua nazione, la città della Borsa, degli Affari e dell’Oro, è ora diventata Necropoli, la città di coloro che una volta sono stati e ora si sono dissipati.
Ma la morte non è che una differenza quantitativa. La corsa degli umani e degli evi verso la dissoluzione è già dentro la loro stessa nascita, dentro il germinare delle cose che si sentono vive. «Un bisogno imperioso e ignaro» (95) è già all’opera nella «impartecipazione al mondo esterno, insensibilità, indifferenza» che ci rende «morti a tutto ciò che non ci tocca o non c’interessa» (74). La “divina indifferenza” (Montale) fa sì che «morire biologicamente, è il perfezionarsi di uno stato in cui ci troviamo già ora» (Ibidem). Verso il tutto e verso se stesso l’umano era «produttore inesausto» di «danno e fastidio» e tuttavia di tanto in tanto l’Ultimo desidera i suoi simili scomparsi, o almeno li cerca, e comincia «forse a misurare la loro importanza» (43). Ma sùbito ritorna alla sua paradossale razionalità «verticale, rigorosa e irrefutata» (130), la quale gli squaderna davanti agli occhi e nella memoria l’insostenibile volatilità di ogni antropocentrismo. Che cosa facevano in sostanza gli umani? Agivano in vista del proprio utile e ragionavano su ciò che vedevano fuori di sé e su ciò che credevano di scorgere dentro di sé. Poi indicavano ed esprimevano tutto questo con parole, suoni e segni. Chiamavano tale operare Cultura e la propria storia Storia del mondo. E dunque con la loro dissipatio il mondo sarebbe finito? Neppure per sogno: «La natura non si è accorta della notte del 2 giugno. Forse si rallegra di riavere in sé tutta la vita, chiuso l’intermezzo breve che per noi aveva il nome di Storia. Sicuramente, non ha rimpianti né compunzioni» (84). «La fine del mondo? […] Andiamo, sapienti e presuntuosi, vi davate troppa importanza. Il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo. Non è mai stato così pulito, luccicante, allegro» (54). Una delle ultime testimonianze umane riferite dal racconto è l’invito che campeggia sullo striscione di un movimento politico radicale «Se siete uomini, sterilizzatevi» (141).

Una soddisfazione dal sapore di euforia traspare in questo indefinibile libro -romanzo certo, ma la sua natura va al di là di ogni steccato e limite di genere- e consiste nel sentirsi parte di una forma che non conosce tramonto né dolore. La forma che accomuna ogni cosa che è, una forma capace di esprimersi soprattutto attraverso le stelle, l’energia, la lava, le rocce. La forma che è la materia. Essa, «annunciava altamente il grande Roland Barthes […] è ben più preziosa della vita» (114-115). Certamente. Ogni filosofia degna del proprio nome, ogni pensiero amico della sapienza, non può che arrivare a questa chiara conclusione: la materia è più preziosa della irrilevante sua escrescenza confinata -per quello che sappiamo- all’infimo pianeta Terra, il quale gira intorno a una della più modeste stelle situate alla periferia di una delle innumerevoli galassie delle quali tale materia si compone. Materia che è accompagnata dal vuoto e dal silenzio. Meraviglioso.
Il Narratore si dice disinteressato alla filosofia ma si tratta di una bugia. Questo libro è intriso di filosofia poiché è capace di pervenire a un luogo teoretico che della filosofia è territorio privilegiato di indagine: il rapporto tra l’umano, la materia e il tempo. Nel mondo senza umani tutto era «a posto e in ordine ma immobile e fuori dal tempo, perché è l’uomo che fa il tempo delle cose, e non si vedeva un uomo. Non ne rimaneva uno» (35). E tuttavia questa sensazione di immobilità del tempo, e dunque di ogni cosa, è ben presto anch’essa dissolta poiché «su questa terra non c’è l’eterno, non ci sono che attimi, per quanto incalcolabili» (107). La potenza di tali attimi innumerevoli e senza fine è la potenza stessa della materiatempo, quella che dovremmo cercare di comprendere a fondo nei tanti suoi modi (i modi di Spinoza). Il modo umano è consustanziale al tempo, come ogni altro ente ogni vita ogni fenomeno ogni evento, e quindi esso si dissolve «come, e quando, è cessato il tempo» (133). Nel tempo rimangono infatti le tracce della sua esistenza, la materia da lui plasmata, i segni della comprensione che questo grumo di materia ha avuto di se stesso.

La bellissima copertina di questa edizione di Dissipatio H. G. riproduce un’opera di Geoffrey H. Short, una Esplosione senza titolo del 2007. I suoi molteplici colori e la sua forma antica sembrano voler racchiudere e nello stesso tempo far esplodere i molti nomi che costellano la narrazione di Morselli, che non l’appesantiscono affatto, anzi la rendono ironica e sapiente. Eccoli, in ordine di apparizione: Marcuse, Durkheim, Flaubert, de Beauvoir, Penderecky, Hegel, Malinowski, Lévy-Bruhl, Montaigne, Pascal, Cartesio, Berdiaeff, Camus, Nietzsche, Proust, Pasolini, Berg, Bach, Enzensberger, Giamblico, Agostino d’Ippona, Husserl, Baudelaire, Tommaso d’Aquino, Marx, Hölderlin, Freud, Borges, Barthes, Gropius, Weber, Dostoevskij, Gauguin, Thoreau. E tuttavia la musica di questo testo non è di nessuno fra coloro. È tutta e soltanto di Morselli. Un epicedio di ironica saggezza sulla specie umana. «E anch’io, se canto, canto di notte» (53).

Taranta

LA TERRA DEL RIMORSO
Contributo a una storia religiosa del Sud
di Ernesto De Martino
Il Saggiatore, Milano 19763 (1961)
Pagine XXXII-440

Appena in tempo. Ernesto De Martino fece appena in tempo nel 1959 a vedere, cogliere, studiare il tarantismo nel Salento. Di lì a poco, infatti, lo sviluppo economico, la mutazione dei costumi, la trasformazione antropologica che coinvolsero la civiltà contadina avrebbero cancellato «un fenomeno culturale già condannato a scomparire del tutto nel giro di pochi decenni» (pag. 36). I segni di una dissoluzione del tarantismo erano già evidenti a conclusione di una lunga storia nata nel Medioevo, entrata in crisi nel Settecento -a causa dell’azione convergente dell’illuminismo napoletano e della cristianizzazione da parte della cappella di San Paolo in Galatina- e ormai del tutto impoverita perché privata della sua ricchezza musicale-coreutica-cromatica. «Ma la pietà dello storico non poteva lasciarle inghiottire dal risucchio dei secoli trascorsi, senza aver tentato di restituire loro carne sensibile e dignità di vita nell’unico modo che a uno storico è consentito di fare, cioè mediante la rammemorazione del passato» (118).
Una rimemorazione metodologicamente rigorosa e profondamente partecipe del proprio oggetto; una rimemorazione interdisciplinare -lo storico delle religioni fu coadiuvato da un’équipe composta da psichiatri, psicologi, etnomusicologi e antropologi- e scandita in tre fasi costituite dall’indagine sul campo, dalla ricerca filologica e dalla ricostruzione storica.
Al di là dell’antitesi tra umanesimo e naturalismo, De Martino mostra l’insufficienza di ogni ipotesi soltanto medica, tesa a ridurre il tarantismo a una forma di aracnidismo o a disordine psichico. Il tarantismo è stato invece un fenomeno multiforme, dai tratti profondamente simbolici. Ma che cosa è esattamente il tarantismo? Chi sono i tarantati? «Convenimmo di considerare “tarantati” tutti coloro i quali, nell’estate del ’59, erano coinvolti in una vicenda che li caratterizzava come “tarantati” presso la gente del luogo e partecipavano alla ideologia della cura del morso della taranta mediante la musica, la danza e i colori» (43). Dei 37 tarantati così identificati, la ricerca ne analizzò 21. Tutti contadini, quasi tutti analfabeti, poverissimi. La simbiosi profonda fra antroposfera e zoosfera era diventata in queste persone un orizzonte esistenziale, una ricerca di significati, una sacralizzazione del quotidiano, una ritualità dolorosa e insieme redentrice: «Solo in un regime esistenziale nel quale il morso velenoso costituiva una possibilità reale connessa al momento decisivo della vita economica della società, il morso velenoso e l’animale che mordendo avvelena potevano diventare la trama di tessiture simboliche culturalmente autonome» (161). Dei 21 tarantati soltanto uno era stato morso dal latrodectus tredecim guttatus -l’unico aracnide presente in quelle terre davvero pericoloso per gli umani-, per gli altri i fenomeni reali di frenesia, malinconia, di ossessione e di danza protrattasi per ore e giorni circondati dai suonatori e dai parenti, erano un modo rituale e arcaico per sfuggire all’angoscia e al dolore, per accedere al «piccolo rustico paradiso della musica, della danza e dei colori. […] Il tarantismo offriva, oltre i simboli del rosso e del fulgore della armi, la possibilità di mimare scene di grandezza e di potenza, di successo e di gloria: ognuno poteva così rialzare la propria sorte tanto quanto la vita l’aveva abbassata, e viveva episodi che si configuravano come il rovescio della propria oscura esistenza» (170). Un riscatto antropologico e semantico, assai più che sociale e per niente economico. Il ricorso, infatti, ai suonatori, i mancati giorni di lavoro, le offerte alla cappella di San Paolo comportavano esborsi molto onerosi per dei soggetti e dei nuclei familiari già poverissimi. Ma danzare con il ragno, diventare il ragno che danza sino a sfiancarlo, identificarsi con la sua potenza e nello stesso tempo superarla e sconfiggerla attraverso l’aiuto di un santo ancora più potente significava immergersi in un ethos collettivo e simbolico «che per quanto elementare e storicamente condizionato, e per quanto “minore” nel quadro della vita culturale dell’Italia meridionale, consente di qualificare il tarantismo come “religione del rimorso” e come “terra del rimorso” la molto piccola area del nostro pianeta in cui questa religione “minore” vide per alcuni secoli il suo giorno» (179).
La Terra del rimorso è quindi certamente la Puglia, nella quale fu vivo il simbolismo della taranta che morde e avvelena ma il cui morso può essere sconfitto dalla forza della musica, del canto, della danza e dei colori intrecciati. La Terra del rimorso è anche l’intero Sud d’Italia, nel quale il passato torna ogni volta a mordere con il suo peso di ingiustizia, di violenza, di povera e cupa umanità rispetto al Sole accecante che la sovrasta. La Terra del rimorso è infine la «più vasta terra cui in fondo spetta lo stesso nome, una terra estesa sino a confini del mondo abitato dagli uomini» (273), è l’intero pianeta che torna ogni volta a sentire il morso dell’orrore e dell’errore d’esserci e in molti modi cerca di liberarsene.
De Martino intende quindi utilizzare l’etnografia allo scopo di ricostruire uno specifico ed emblematico episodio di storia religiosa nel contesto della questione meridionale ma in realtà il significato della sua indagine è molto più universale. Essa tocca i temi del tempo nel quale gli umani sono immersi insieme -non sopra o dentro ma proprio insieme– alla Terra intera. Nel tarantismo il passato che una volta è accaduto può sempre tornare, può sempre ri-mordere, in un eterno ritorno del dolore e del suo riscatto nel quale sull’originaria struttura dionisiaca si innestò -dal Medioevo in avanti- un tentativo di cristianizzazione che alla fine ebbe successo e così ne distrusse senso e contenuti, dissolvendolo per sempre. Non quindi rimorso come rammarico per l’accaduto ma ri-morso come riaccadere del dramma. Il ri-morso torna ogni anno alla stessa epoca del primo morso e ogni volta può essere esorcizzato con la potenza coreutico-musicale-cromatica che lo guarisce. La taranta è ancora viva e ogni anno ritorna ma ogni volta viene uccisa. L’eco degli antichi riti mediterranei è evidente. Anche se l’etnografo sostiene giustamente che il tarantismo è irriducibile non soltanto alla medicina o alla psichiatria ma anche al tipo sincronico di altre civiltà e all’antecedente diacronico delle culture pagane, afferma in molto altrettanto netto che

il tarantismo non soltanto rinvia agli antecedenti dei culti orgiastici e iniziatici dell’antichità classica e ai paralleli africani che, dentro certi limiti, si richiamano alle civiltà protomediterranee, ma deve la sua formazione di fenomeno molecolare storicamente individuato al fatto che durante il Medioevo la vita culturale delle popolazioni rivierasche dell’Italia meridionale fu particolarmente esposta, soprattutto a partire dalla rapida espansione dell’Islam con il VII secolo, a plurisecolari influenze che possiamo genericamente chiamare “afro-mediterranee”. (188)

Si tratta quindi di una sopravvivenza tenace del menadismo dionisiaco, alla quale la contaminazione cattolica del culto di San Paolo tolse lentamente ma inesorabilmente significato proprio perché Paolo di Tarso fu il più ostinato nemico dei culti dionisiaci, come risulta particolarmente evidente nella Prima lettera ai Corinzi. La pratica coreutica del tarantismo si collega alla catartica musicale del pitagorismo, fiorito nelle stesse terre. Il personaggio eschileo (Prometeo) di Io, ragazza/vacca tormentata dalla continua puntura di un tafano e per questo costretta a mai interrompere il proprio andare, si reincarna nelle tarantate, le quali «ricordavano menadi, baccanti, coribanti e quant’altro nel mondo antico partecipava a una vita religiosa percossa dall’orgiasmo e dalla “mania”» (31). Dioniso fu il dio più importante della zona della Magna Grecia che aveva in Taranto il proprio centro. Il morso, il contesto acquatico e silvano del rito, l’altalena, lo specchio, la catartica coreutico-musicale «si ritrovano nel mondo religioso greco secondo strutture mitico-rituali e funzioni esistenziali analoghe, che richiamano quelle del tarantismo» (199).
Di tutto questo Paolo fu nemico totale e accanito. La costruzione a Galatina della cappella a lui dedicata fece convergere in quel luogo le menadi contadine, che dal santo venivano ogni volta graziate ma che alla fine furono dissolte nel senso stesso della loro identità, intesa come orizzonte sacro di riscatto. Sta qui, in questa esiziale ambiguità del santo cristiano tarantato allo scopo di cancellare ogni traccia del menadismo dionisiaco, il profondo significato e l’esito della ricerca di De Martino.

La polemica paolina contro l’anarchia pneumatica della chiesa di Corinto e a favore di un Dio che non è dio di disordine, ma di serenità, colpiva nel cuore i culti orgiastici, che apparivano all’apostolo nel segno del  caos, fracasso di bronzi sonori e di cembali vibranti di fronte alla interiore potenza morale dell’agape cristiana: e se per la coscienza storiografica attuale quei culti racchiudono il loro ordine, la loro mania telestica, per la coscienza dell’apostolo combattente essi si configuravano necessariamente come negatività assoluta, come tentazione demoniaca. […] Nel corso della stessa polemica così vigorosamente condotta nella prima lettera ai Corinzi, Paolo stabilisce, com’è noto, una gerarchia secondo la quale se Dio è il capo di Cristo e Cristo è il capo dell’uomo, il capo della donna è l’uomo, onde la donna riflette Dio attraverso la mediazione dell’uomo. Questa teorizzazione non è gratuita ma serve all’apostolo per giustificare una prescrizione precisa sul comportamento delle donne nelle assemblee liturgiche: mentre l’uomo, immagine e gloria di Dio, può stare in chiesa a capo scoperto, la donna -che è gloria dell’uomo e suo tesoro privato- deve invece velarsi come segno della sua soggezione a Dio mediata dalla sua soggezione all’uomo. L’immagine culturale della menade così come la tragedia greca e l’iconografia ce l’hanno trasmessa era in tal modo respinta dall’ordine cristiano: l’obbligo del capo velato durante la assemblea liturgica fondava infatti un modello di comportamento in antitesi a quello delle chiome al vento, nel ritmo di una frenetica danza, allo stesso modo che nel Vangelo di Giovanni il dolore muto e interiore di Maria ai piedi della Croce fondava un modello di comportamento in antitesi a quello delle lamentatrici pagane. (236-237)

Una spiegazione data, come si vede, in una forma letterariamente così bella, in uno stile tanto sobrio e  insieme coinvolgente, da fare de La terra del rimorso un capolavoro non soltanto dell’etnografia del Novecento ma anche di una saggistica narrativa che nel raccontare nulla perde del proprio rigore e guadagna, invece, in chiarezza argomentativa e in profondità ermeneutica.

[ Questo video del 1962 documenta il fenomeno al suo tramonto ]

 

Storia / Natura

Essential Killing
di Jerzy Skolimowski
Con: Vincent Gallo (Mohammed), Emmanuelle Seigner (Margaret)
Polonia, Norvegia, Irlanda, Ungheria, 2010
Trailer del film

Tre colori. Il giallo dei deserti afghani, dove Mohammed uccide alcuni soldati statunitensi prima di essere catturato. Il nero della prigione in cui viene torturato. Il bianco delle foreste e delle sconfinate pianure innevate della Polonia, nelle quali riesce a fuggire durante un trasferimento.
Ovunque braccato, ovunque assassino. Nel silenzio, nella solitudine, nell’interiorità assoluta prodotta dalla sua sordità, si struttura il piano inclinato che conduce quest’uomo a una condizione ferina, nella quale la fame, il freddo, la paura, la totale volontà di vivere non sono temperati da nulla. Soltanto i frammenti di ricordi lontani -una scuola coranica, la moschea, la moglie, il figlio- testimoniano che Mohammed è ancora un umano. Un umano che si nutre di cortecce, di insetti, di pesci vivi. Che si lancia sul seno di una madre per suggere da lei il latte. Sul bianco di un cavallo che lo porta verso l’altrove si staglia alla fine il sangue della sua umana animalità.
Un film nel quale il protagonista non pronuncia una sola parola restituisce al cinema la sua specificità di pura immagine e metafora del mondo. Metafora costruita sulla continuità tra la natura e la storia, tra la durezza implacabile degli elementi e la ferocia altrettanto implacabile delle relazioni umane, individuali e collettive. Assai prima della «pietra e della fionda» (Quasimodo) e di ogni altro dispositivo di sopravvivenza e di morte, è il corpo animale che siamo a reclamare per sé vita, anche quando la vita è ricondotta allo sgorgare irriflesso dei bisogni. È in questa natura che affonda la storia umana.

 

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