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Paladini

22 novembre 2015 –  Centro Zo – Catania
Camurria
di e con Gaspare Balsamo
Con Giorgio Maltese e Giancarlo Parisi

La storia dei Reali di Francia e dei loro Paladini ha attraversato per secoli la cultura siciliana. Spettacolo per tutti, regolamentazione della guerra, identità cristiana, etica dell’amicizia e dell’onore, passione amorosa, il teatro dei pupi ha catalizzato ed espresso alcuni degli elementi più perenni e profondi della visione che l’Isola ha del mondo. Una tradizione che sembra essersi smarrita sino a finire, come con amarezza si afferma in questo spettacolo. Ma la concezione e l’esistenza stessa di Camurria nega tale infausta conclusione.
Gaspare Balsamo e i suoi compagni musicisti riescono infatti a rendere ben presente e vivo l’archetipo che i pupi rappresentano. Le voci e le testimonianze di quanti da bambini furono attratti da questa forma d’arte si  mescolano ai suoni molteplici della tradizione musicale siciliana. Su tale sfondo Balsamo dipana il suo racconto. E davvero sembra di vedere e di sentire intere comunità che si dividevano tra ‘orlandisti’ e ‘rinaldisti’, tutti accomunati però dall’odio verso l’infame traditore Gano di Magonza, al cui solo apparire in scena si scatenavano urla, insulti, fischi.
Un’antropologia comunitaria, fisica e condivisa è stata distrutta -come viene esplicitamente detto- «da quella minchia della televisione». Ed è stata ulteriormente ferita da luoghi che si pongono sotto il segno di una cupa identità che tende a cancellare la ricchezza delle differenze umane, storiche, estetiche. Che questi luoghi siano fisici (come McDonald’s) o virtuali (come facebook), si tratta sempre della stessa camurria, dello stesso gesto fastidioso, impoverente, squallido, venale, che attraverso il dispositivo della facilità a buon mercato deruba individui e collettività della loro forza rendendoli proni all’impero, senza che neppure capiscano che un impero c’è.
Se le comunità non si rendono paladine di se stesse, il Gano globalizzatore fa e farà il suo mestiere: uccidere.

Educare

Werner Jaeger
PAIDEIA. La formazione dell’uomo greco
Vol. I L’età arcaica – Apogeo e crisi dello spirito attico

(Paideia. Die Formung des griechiscen Menschen, 1933)
Trad. di Luigi Emery; trad. degli aggiornamenti di Alessandro Setti
La Nuova Italia, 1978
Pagine XIII-719

Paideia_JaegerIdentità e distanza, eredità ed estraneità, modello e rifiuto sono soltanto alcune delle modalità che caratterizzano l’approccio moderno alla Grecità. Gli studi di Werner Jaeger consentono di comprendere meglio i Greci ma anche il nostro atteggiamento verso di loro. Jaeger si muove, infatti, tra una esplicita presa di distanza da ogni forma di classicismo antistoricistico e la profonda convinzione della natura esemplare del mondo greco. Egli intende costruire una storia della Bildung ellenica che vada oltre l’approccio letterario-formale e oltre quello soltanto politico-storico per cogliere invece i Greci come esperienza assolutamente centrale per l’identità culturale dell’Europa. La compenetrazione fra cultura e politica rappresenta l’orizzonte ermeneutico nel quale Jaeger esplicitamente si pone. Ciò gli consente una lettura corretta e sempre chiarificatrice dei rapporti fra individuo e comunità nel mondo ellenico, evitando indebite attualizzazioni di segno liberale o autoritario, nella consapevolezza della inscindibilità per i Greci di morale pubblica e privata. Anche questo elemento consentì loro di evitare quasi sempre gli eccessi della dipendenza da capi geniali e della subordinazione alla volontà delle masse e dei loro demagoghi.
Fra le chiavi di lettura utilizzate dall’Autore sono importanti: la convinzione della costanza nel tempo, dentro la ricchezza di tutti i suoi sviluppi, della forma originaria dello spirito greco; il suo affondare le proprie radici nella contrapposizione/complementarità di apollineo e dionisiaco; la centralità della misura di contro a ogni υβρις, la continua rammemmorazione dei limiti dell’paideia’educazione, infatti, ha senso soltanto come frutto ed espressione di un progetto sull’umano.
L’originalità educativa dei Greci consiste soprattutto nel fatto che essi non solo possiedono una paideia ma costituiscono nel loro stesso esistere, operare, produrre una paideia fra le più alte e complesse d’ogni tempo. E ciò perché essi sono «il popolo antropoplasta per eccellenza» (p. 15), la cui analisi dell’uomo rappresenta in primo luogo la chiarificazione delle leggi universali della natura umana. Natura umana: è precisamente quanto molti progetti educativi e politici della contemporaneità negano che possa persino esistere, frammentata e dissolta nelle infinite variabili storiche, sociologiche, psicologiche che fanno da alibi alla paura di capire chi e che cosa siamo. Nessuna, forse, delle produzioni culturali elleniche può essere compresa al di fuori di categorie come fato, carattere, necessità. La loro razionalizzazione produsse l’idea centrale di Tucidide -come di Platone- «che le vicende degli uomini e dei popoli si ripetono, perché la natura umana rimane la stessa» (p. 652). L’umano è infatti inseparabile dal cerchio più grande delle cose, dalla struttura generale dell’essere, dalla componente biologica della specie. Eraclito parla di tre anelli concentrici -l’umano, il cosmologico, il teologico- i quali fanno sì che l’umanità sia sottoposta come ogni altro ente alla legge che governa gli eventi.
Il significato pedagogico della Grecità consiste in gran parte nella radicale consapevolezza dei limiti di ogni pratica educativa. L’ira di Achille dimostra che contro la potenza dell’irrazionale, contro l’Ate divina, ben poco può fare anche il migliore degli educatori: l’antico maestro di Achille -Fenice- rimarrà inascoltato. Molto, certo, dipende dalla formazione ma moltissimo, l’essenziale, da ciò che si è già, fin dall’inizio, all’apparire nel mondo. Tale limite educativo è pertanto inseparabile dalla differenziazione di vari livelli all’interno dell’umano. Dato che questo è precisamente il nucleo di ogni questione sociale, si conferma la profonda unità per gli Elleni della dimensione pedagogica con quella politica, entrambe radicate sul terreno antropologico. Pur nella grande varietà delle loro esperienze sul potere, i Greci concordano nel far discendere la differenziazione sociale «dalla naturale diversità fisica e psichica degli individui» (p. 28). Ciò che veramente conta è -come dichiara il Pericle di Tucidide- che l’uguaglianza di fronte alla legge si accompagni all’aristocrazia del talento. Senza di essa -aggiunge Platone- «non vi sarà pace per la città e per l’intero umano genere» (Repubblica, 473 c-d). L’originalità politica dei Greci nel mondo antico consiste soprattutto nel superamento del privilegio di nascita sociale, di stirpe, di luogo, di ricchezza in favore dell’areté quale vera nobiltà della persona. Soltanto su questa base diventa possibile porre alla società, e quindi all’educazione, la meta di un infinito miglioramento degli uomini fino alla formazione di un’umanità superiore rispetto a quella del presente.
Si scioglie così e si chiarisce il magnifico paradosso educativo individuato da Jaeger:

Occorre ricordare come questa stessa aristocrazia greca dello spirito abbia tuttavia costituito il punto di partenza d’ogni cultura umana superiore e cosciente, e s’intenderà come appunto in tale intima antinomia tra il dubbio pensoso circa l’educabilità e l’indomabile volontà d’educare stia l’eterna grandezza e fecondità dello spirito greco (p. 527).

È lo stesso paradosso, o meglio la medesima complessità colta da Jacob Burckhardt nella sua formula sintesi della Grecità: pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà. Di fronte al riduzionismo comportamentista e di tutte le sue tecniche didattiche, rispetto a ciò che Jaeger definisce la «smania di livellamento della novissima sapienza pedagogica» (p. 37), la paideia dei Greci mostra ancora tutta la sua potenza teoretica e operativa.
Due sono i contributi centrali che questo volume offre a una pedagogia che voglia essere coraggiosa e unzeitgemäß, feconda perché inattuale. In primo luogo il ricordare che esiste una cultura non riconducibile alle capacità puramente tecnologiche e professionali e che l’invenzione di tale cultura la si deve ai Greci. E poi la tranquilla consapevolezza che i Greci ebbero (e che è radicata nella struttura biologica e sociale degli umani) del fatto che «nessuna forma di società può sopravvivere a lungo senza una accurata e cosciente educazione dei suoi membri più capaci e più valenti» (nota 6, p. 31).

[Del II volume dell’opera di Jaeger ho parlato alcuni anni fa: Paideia ]

Ibridazioni e alterità

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Martedì 27.10.2015 parteciperò a una delle sessioni del Secondo Colloquio di Ricerca organizzato dal Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania. Interverrò in Aula Magna alle 15,00 con una comunicazione dal titolo Ibridazioni e alterità.

Nella sezione Eventi del sito Disum è possibile leggere il programma completo del Colloquio su Verso nuovi modelli di ricerca. Epistemologia, interdisciplinarità e umanesimo nelle comunità scientifiche contemporanee.

Internet / Postumano

From Internet to Posthuman
(liberamente leggibile in pdf)
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
Anno 6 – Numero 2/2015
pp. 305-310

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Abstract

La natura sociale e interattiva dell’essere umano ha generato strutture politiche, etiche, tecnologiche assai diverse tra di loro. Internet è una di esse. La comprensione della funzione, delle potenzialità e dei rischi del World Wide Web ha bisogno certamente di paradigmi sociologici, psicologici e cognitivi ma ha bisogno anche e soprattutto di uno sguardo teoretico radicale su quanto di umano e postumano abiti e si muova nella Rete e nei suoi dispositivi.

Immagine / Stasi

Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza
(En Duva Satt På En Gren Och Funderade På Tillvaron)
di Roy Anderson
Svezia, 2014
Con: Holger Andersson (Jonathan), Nisse Vestblom (Sam), Lotti Törnros (L’insegnante di flamenco), Charlotta Larsson (Lotta, la Zoppa), Viktor Gyllenberg (Carlo XII), Jonas Gerholm (Il colonnello solitario), Ola Stensson (Il capitano-Il barbiere), Oscar Salomonsson (Il ballerino), Roger Olsen Likvern (Il custode)
Trailer del film

Un piccione seduto su un ramoLa cinepresa è immobile. Ritrae 39 storie legate tra di loro da due figure il cui mestiere consiste nell’«aiutare la gente a divertirsi». Vendono denti di vampiro, bombolette-risate e maschere di Zio Dentone. Lo fanno in maniera lugubre e metodica. I piani sequenza si alternano in una perfezione formale che stride con la miseria degli ambienti.
Roy Anderson compone dei veri e propri quadri-immagine, la cui grana visiva è quella delle fotografie degli anni Sessanta, il cui stile è una mescolanza di Hopper, Bosch e realismo magico, il cui tessuto è onirico, la cui antropologia è devastante. Ambienti, abiti, oggetti appartengono alla metà del Novecento ma i personaggi utilizzano dei cellulari. In due delle scene ambientate in un bar di periferia irrompe il giovane sovrano di Svezia Carlo XII che va in guerra contro i russi e ne ritorna sconfitto nella sua arroganza di ragazzo.
Il film si apre con tre momenti i cui personaggi muoiono all’improvviso nella solitudine o nel gelo degli astanti. Si conclude con la sezione Homo sapiens, feroce e plastica descrizione delle torture che gli umani infliggono ai loro simili e agli altri animali.
In molte delle scene i protagonisti parlano al telefono e ripetono quasi la stessa, unica frase: «Sono contento che stiate tutti bene».
Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza è un’opera che innesta sulla cupezza luterana del cinema svedese il surrealismo mediterraneo e la poetica beckettiana; fa emergere i fantasmi dell’angoscia umana riconducendoli alla loro reale misura di nullità; fa del cinema uno smagliante movimento della mente. E di nient’altro.

Leonardo / L’intero

Leonardo da Vinci 1452-1519
Palazzo Reale – Milano
Sino al 19 luglio 2015

Il mondo di Leonardo da Vinci. Una parte, certo, di quel mondo ma esposta con cura e in un intelligente percorso, che si snoda soprattutto attraverso i disegni. Vi sono il suo maestro Andrea del Verrocchio e i contemporanei Filippino Lippi, Botticelli, Perugino, Bramante, Luca Pacioli. Vi sono -nelle due ultime sezioni- l’eredità di Leonardo (con gli allievi che dimostrano l’abisso che c’è tra un artista assoluto e i suoi imitatori) e il mito di Leonardo, con la Gioconda ridipinta da Duchamp, Warhol, Baj e soprattutto con una assai bella Donna con la sua perla, di Corot (1858-1868 ca. ) decisamente pervasa da spirito leonardesco.
Quest’uomo fu pittore, ingegnere, mago, filosofo. Fu una confluenza di storia e natura. Leonardo raccolse il mondo antico, con il quale il suo confronto fu costante, nonostante non conoscesse né il greco né il latino. L’Uomo vitruviano sta lì a dimostrarlo con la potenza della sua perfezione geometrica. Ma sempre per Leonardo «l’imitazione delle cose antiche è più laudabile delle moderne».
Storia sono gli eventi che Leonardo dipinse, la varietà di invenzioni già in parte progettate da ingegneri precedenti o coevi ma portate da Leonardo a una plausibilità tecnologica che non aveva più nulla di fantasioso. Storia sono anche l’astrologia e l’esoterismo, da Leonardo coltivate con la curiosità che sempre immetteva nella vita. Storia sono alcuni sorprendenti disegni ideali: città a livelli sovrapposti, altre con canali perpendicolari tra di loro, una Milano divisa in 10 sezioni. La bellissima Città ideale di Anonimo conservata a Urbino (e qui esposta ) non è la città di Leonardo, al quale interessava sempre anche la realizzabilità di tutti i suoi progetti. E gli interessava soprattutto l’unità dei saperi, riflesso e forma dell’unità del mondo.
Per Leonardo infatti arte e scienza coincidono anche perché l’arte è il modo più profondo ed efficace di comprendere e comunicare la natura. L’unità del mondo naturale e artificiale non è un concetto, non è un’ipotesi o un auspicio. Per Leonardo è una realtà. I riccioli del Battista, ad esempio, sono fluidi come acqua che scorre tra le terre. La pittura è per lui «figlia di natura» e la natura è energia senza posa che produce, annienta, trasforma ogni essente.
Dai grandi affreschi ai piccolissimi disegni, l’artista dedica alle sue opere la stessa cura, la medesima potenza. Perché la pittura è soprattutto «cosa mentale». I ritratti, ad esempio, restituiscono i «moti mentali» della persona. Così, il Ritratto di musico (1485 ca.) è collocato in questa mostra accanto al folgorante Sorriso dell’ignoto marinaio di Antonello da Messina. E sembra di entrare nei pensieri stessi degli umani. Umani dei quali Leonardo coglie con implacabile rigore anche l’inconsistenza. Le Cinque teste grottesche sembrano una plastica testimonianza dei tanti, dei troppi, i quali «altro che transito di cibo e aumentatori di sterco -e riempitori di destri- chiamar si debbono» (Leonardo, Pensiero 111, in Scritti letterari, a cura di A. Marinoni, Nuova edizione accresciuta con i Manoscritti di Madrid, Rizzoli, 1991, p. 76). Di fronte a costoro si levano i pochi che conducono una vita tale da potersi definire compiuta in qualunque momento essa si interrompa. Sono i pochi capaci di capire e di esser giusti, che per il socratico Leonardo è la stessa cosa. Questi uomini sono i «salvatici» e cioè «quel che si salva», coloro per i quali «imparare a vivere» coincide con l’«imparare a morire» (Pensieri 98 e 90, ivi, pp. 74 e 73).
Il naturalismo di Leonardo è uno dei fondamenti di una una moralità tanto rigorosa quanto concreta che identifica lo specifico dell’essere umano nell’azione e nel conoscere, nel porsi di fronte all’esistenza in modo sempre attivo e realistico, nel rifiuto di ogni inutile crudeltà. Leonardo era infatti vegetariano. Ed era un pagano. Il quale dipinge una potente Leda abbracciata al Cigno, con i quattro gemelli da lei generati (Elena, Clitemnestra, Castore e Polluce). Anche nella copia non leonardesca degli Uffizi questa donna ha lo stesso sguardo di una madonna. Sguardo che nel ritratto di Lucrezia Crivelli diventa movimento del corpo e degli occhi. Nel mondo di Leonardo il cristianesimo è paganizzato, l’essere è divenire.

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