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Anarchisme et Anthropologie

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Anarchisme et Anthropologie
Pour une politique matérialiste de la limite

Par les soins de Luigi Balice
Traduction de Sarah Borderie
Corrections de Louis Watier
Couverture de Marco Castagnetto
Asinamali éditions
Paris 2016
Pages 92
€ 12,00

Terza edizione, 2019

«Il est beaucoup plus probable que l’option anarchiste soit déclenchée par un profond pessimisme anthropologique plutôt que par un optimisme rousseauiste ou d’un autre type. Étant donné que l’espèce Homo sapiens sapiens figure parmi les plus féroces qui se trouvent dans la nature – et cela sans que l’on prenne en compte les variables et les caractères de chaque individu –, il faut éviter de toutes les manières possibles un pouvoir qui naisse et qui se consolide en tant que gestion individuelle, familiale, dynastique et partitaire de la structure sociale collective. Le moins de pouvoir possible à chacun ; une distribution plus large, horizontale et collective ; l’égalité entre les composantes du corps social dans la gestion des intérêts communs. Ce sont là les arguments libertaires qui sont d’autant plus légitimes si les humains sont vus comme des bêtes prêtes au bellum omnium contra omnes que si l’on maintient l’illusion d’une coopération entre celui qui détient un pouvoir séparé et ceux sur lesquels la domination s’exerce. Une politique véritablement matérialiste doit se fonder aussi sur la biologie. Rien n’est en effet plus ‘matérialiste’ que la matière, y compris celle avec laquelle sont faits les corps humains» (pp. 72-73).

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Recensioni

Pietro Ingallina, in Libertaria 2018, pp. 201-202

Eric Dussert, La Nouvelle Quinzaine Littéraire n. 1172
1 maggio 2017
«Anarchisme et limites de l’Homme»

Jonathan LouliLectures
12 aprile 2017
«Quoiqu’il en soit, malgré ces différents aspects polémiques, l’essai reste dense et riche, dans un style cinglant et concis. La critique de l’anthropocentrisme, peu courante, qui plus est à travers une approche proprement matérialiste, n’en est pas moins cohérente et intéressante à lire. Dans le livre, l’importance du regard « désenchanté » qui se forme alors au sujet de nous-mêmes produit un anarchisme individualiste et une anthropologie assez tragique. “L’homme est un loup pour l’homme”, disait Hobbes pour justifier l’État-Léviathan, source d’émancipation individuelle à travers les protections qu’il offre aux individus. “L’homme est un loup pour l’homme”, dit Biuso pour justifier la fin de l’État et du rapport destructeur à la nature, fin qui sera source d’émancipation individuelle à travers les protections qu’elle offrira aux individus. Une curieuse mais plutôt originale façon de penser l’anarchisme et l’anthropologie, mais après tout, il peut être constructif de dépasser les querelles de chapelles quand il est question de résister, chacun à son échelle, contre les principales formes de hiérarchie en place»

Pasquale D’Ascola, Anarchisme et anthropologie-Un libro per tutti pria che sia di nessuno
16 febbraio 2017
«Oggi non è così, oggi il Biuso, medico dell’anarchismo indica non la possibilità di redenzione ma di cura dell’àntroprosopopàico, questione di sopravvivenza, non di nihilismo, di ribellione, di rivolta, ma di ribaltamento, eccola, del nihilismo che è scorciatoia, in fatica».

Cateno Tempio, recensione su Sitosophia
28 gennaio 2017
«È dunque così che possiamo intendere il materialismo a cui invita Biuso in questo libro breve e denso. Proprio sulla base della corporeità imprescindibile degli esseri umani riesce a scardinare alcuni presupposti fallaci di molti modelli politici almeno a partire dalla Rivoluzione Francese, imbevuta di dottrina rousseauiana»

Gli avi, la festa

Condivido e confermo le parole di Camilleri. Sono (assai) più giovane di lui ma da bambino nella Sicilia degli anni Sessanta ho avuto la fortuna di vivere le medesime esperienze. E di questo ringrazio i miei avi, i miei morti mediterranei e non anglosassoni o celtici.

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Andrea Camilleri, «Il giorno che i morti persero la strada», pubblicato sul ‘Messaggero’ il 2.11.2007 e poi in Racconti quotidiani (Mondadori, 2008).

Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.

Nel 2014 Camilleri propose questa variante al finale:
«Poi nel 1943 arrivarono gli americani, lentamente i morti persero la strada di casa e vennero sostituiti dell’albero di Natale. Credo che però le tradizioni non si perdano del tutto. Non si trovano più i regali, i bambini non mettono più il cestino sotto il letto. Ciò non toglie che tutte le pasticcerie siciliane, per il 2 novembre, preparino quei dolci speciali che servivano una volta per il cestino dei bambini. Mi riferisco ai pupi di zucchero, ai frutti di martorana, oppure a quei dolci di miele, tra l’altro squisiti, detti ossa di morto. Questo è un modo di conservare comunque la memoria delle tradizioni. Credo non possa esserci un popolo senza memoria delle proprie tradizioni. Le tradizioni si modificano ma è fondamentale continuare a conservarle, in qualche modo, perché in un’epoca come la nostra, che è un’epoca di mutamenti, l’unico modo per non avere paura di tutto ciò che sta avvenendo, è sapere chi sei, senza bisogno di dirlo, di proclamarlo. Ma se sai chi sei, con le tue tradizioni, non perderai mai la tua identità».

Konrad Lorenz

Natura e destino
di Konrad Lorenz
(Das Wirkungsgefüge der Natur und das Schiksal des Menschen, 1978)
A cura e con introduzione di Irenäus Eibl-Eibesfeldt
Traduzione di Alvise La Rocca
Mondadori, 1990
Pagine 392

In questa antologia curata da Eibl-Eibesfeldt, Konrad Lorenz ripropone alcune delle tesi fondamentali della sua opera e offre gli strumenti per coniugare filosofia e scienze naturali, legame che costituisce uno degli obiettivi della sua ricerca. Lorenz è infatti avverso a ogni forma di riduzionismo gnoseologico e ontologico, sia esso l’assolutizzazione del metodo matematico, il dualismo “natura-spirito” o la confusione tra i livelli dell’essere, vale a dire «quegli sconfinamenti “verso l’alto” come il meccanicismo, il biologismo e lo psicologismo, che si arrogano il diritto di spiegare i processi caratteristici degli strati superiori con le categorie evolutive, per principio inadeguate, di quelli inferiori» (p. 259). È anche per questo che Lorenz attacca frontalmente il behaviorismo che riduce l’animale -compreso quello umano- a un fascio di reazioni condizionate, che fa della persona un ente privo di libertà e di dignità, malleabile nelle mani di demagoghi e ideologi, pronto a farsi strumento della tirannide. Desiderio di potere e acquiescenza alle mode culturali hanno contribuito a determinare l’ampio successo del comportamentismo nel Novecento: «Per chi desidera poter manipolare masse umane, sapere che l’uomo non è altro che il risultato dell’ammaestramento esercitato su di lui fin dall’infanzia dall’ambiente vivente e inanimato deve rappresentare la soddisfazione dei sogni più arditi. […] Il verbo to control che vuol dire “dominare” […] compare troppo spesso in Skinner»  (155)
A Charles Darwin Lorenz riconosce di dovere moltissimo, così come a Nicolai Hartmann e a Kant. Di quest’ultimo egli reinterpreta in chiave evolutiva sia l’apriori gnoseologico sia l’imperativo etico. Molte strutture presenti in natura costituiscono una sorta di apriori che rende possibile all’animale di potersi muovere, vivere, adattare al proprio ambiente; l’imperativo categorico traspone nel linguaggio dell’etica la scelta fra distruzione dell’ambiente e accettazione del posto del singolo nella biocenosi, nella comunità dei viventi.
Anche per questo Lorenz è uno dei fondatori del pensiero ecologico. Egli ritiene che i meccanismi che inibiscono la violenza verso gli altri animali siano diretti anche a impedire la violenza verso altri umani. La crudeltà verso gli altri animali contribuisce quindi al dilagare della violenza all’interno della nostra specie. In generale, «l’uomo tecnomorfo è sempre e comunque un predatore; quando sfrutta un sistema vivente, lo distrugge in breve tempo» (368). Il problema di fondo è che nell’essere umano filogenesi e ontogenesi hanno ritmi di sviluppo completamente diversi: «Considerato come specie, l’uomo, nello stesso lasso di tempo che gli è occorso per diventare signore della terra, non ha compiuto il più piccolo passo avanti per diventare signore di se stesso» (312).
Il veloce ritmo del cambiamento culturale e tecnologico non ha dato tempo ai meccanismi inibitori di svilupparsi adeguatamente; ciò comporta che nessun dispositivo naturale può frenare un uomo dal prendere una decisione che comporta la distruzione di migliaia di altre vite. È però sempre possibile lo scarto culturale, la capacità di pensare, la responsabilità per le conseguenze delle proprie azioni.

È quindi un errore accusare di determinismo e di fatalismo Lorenz e in generale gli etologi. Il concetto di innato non implica quello di destino ineluttabile ma anzi la comprensione dei meccanismi naturali a cui anche l’uomo è sottoposto diventa una condizione per approntare strumenti efficaci –non ideologici né totalitari- di controllo. La guerra, ad esempio, «è un prodotto culturale umano che, pur non privo di componenti istintive, non è tuttavia esclusivamente tale» e quindi si può, perché si deve, sottoporre al controllo della ragione e dell’etica (281).
Che molti comportamenti animali e umani siano innati o istintivi, per l’etologia significa esattamente e solamente due cose:
1) «analogie di comportamento (come pure analogie morfologiche), riconoscibili in diversi animali nonostante condizioni di allevamento completamente diverse, possono ritenersi fissate nel genoma» (117);
2) è innato ciò che è adattato filogeneticamente. In particolare, «della natura istintiva, pulsionale, dell’aggressività umana non si può seriamente dubitare» (305) senza che questo implichi per Lorenz l’adesione ai concetti freudiani di impulso di morte, violenza inconscia, perversione originaria, che egli anzi esplicitamente respinge.

Se Lorenz ha fornito un contributo decisivo all’antropologia nel suo senso più ampio e più profondo, è perché la sua prospettiva etologica distingue ma non separa l’uomo e la natura, la cultura e la biologia, il pensiero razionale e le sue basi istintive. Filosofia, religioni, estetiche, etiche si elevano –e non potrebbe essere altrimenti dato che l’uomo è corporeità- sulle fondamenta di comportamenti ereditari e cioè filogeneticamente adattati: «Con troppa facilità gli uomini si considerano il centro dell’universo, qualcosa di estraneo e di superiore alla natura. Questo atteggiamento deriva da una sorta di orgoglio che ci preclude quella forma di riflessione su noi stessi di cui oggi avremmo tanto bisogno. Le grandi scoperte delle scienze naturali inducono l’uomo a un senso di umiltà: proprio per questo vengono a volte avversate» (42).
L’umano è davvero, come Nietzsche ha intuito, una «corda tesa fra la bestia e lo Übermensch», è l’animale che nella corrente della vita potrebbe non essere altro –come scrive Eibl-Eibesfeldt- «che un fenomeno assolutamente transitorio. Un giorno non rappresenteremo più il culmine dell’evoluzione, e potrà accadere che la nostra specie si evolva ulteriormente o che, come tante altre prima di noi, si estingua senza discendenza immediata» (8). Non sarebbe una perdita più grave di tante altre.

Iliade

Le passioni che conducono gli Achei nella piana di Troia, a vendicare l’offesa recata da un figlio di Priamo a Menelao sovrano, saranno «anche in futuro, / per la gente di là da venire, materia di canto» (Iliade, trad. di Giovanni Cerri, VI, 358).

Che cosa narra tale canto? Narra degli umani che sono incapaci «di vedere insieme il prima e il dopo» (II, 343) mentre sapienza e saggezza consistono anche nel sapere «le cose che furono, sono e saranno (I, 70). Gli umani sono la fragilità stessa della materia, sono come foglie che «il vento ne sparge molte a terra, ma rigogliosa la selva / altre ne germina, e torna l’ora della primavera: / così anche la stirpe degli uomini, una sboccia e l’altra sfiorisce (VI, 147-149). Tutte le generazioni rimangono composte da «miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano / pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi, altra volta cadono privi di vita» (XXI, 464-466). Ciò accade perché «gli dei stabilirono questo per gl’infelici mortali, / vivere in mezzo agli affanni; loro invece sono sereni» (XXIV, 525-526). E dunque «non c’è niente di più miserevole di tutti gli uomini fra tutti gli esseri / quanti respirano e arrancano sulla faccia della terra» (XVII, 446-447).
Di tale condizione affannata, effimera e miserabile, l’Iliade mostra forme, ragioni e struttura. Esse si condensano nel  πόλεμος, nel conflitto che -afferma Eraclito- è padre di tutte le cose, di tutte è signore (fr. 53). La guerra intride qui tutto. È uno dei due archetipi che fondano la letteratura europea, l’altro è il viaggio, è l’Odissea.

La guerra. Rovinosa (κακοιο, II, 284). Terribile (κακόν, XIII, 225). Che fa ribollire il fiume Xanto «di spuma, di sangue e di morti» (XXI, 325), che eleva al cielo e ovunque «il lamento e il tripudio degli uomini / che uccidevano ed erano uccisi, grondava di sangue la terra» (IV, 450-451 e VIII, 64-65). In questo poema i guerrieri muoiono a frotte, con estrema facilità, in poco tempo colpiti e annientati da chi è più abile di loro, vale a dire da coloro la cui mano è guidata dalla volontà di qualche dio. Guerrieri che non vorrebbero morire, che arrivano a temere la fine sino a fuggire, mandando in malora onori e obiettivi, «a tutti un tremore prese le membra, / e si studiava ognuno da che parte sfuggire a morte immediata» (XIV, 506-507). Morire, infatti, vuol dire andare nell’Ade, «dimora umida, spaventosa, di cui pure gli dei hanno orrore» (XX, 65)
Guerrieri la cui psyche facilmente li abbandona, uscendo dalle ferite aperte dal bronzo, lasciando soltanto una tenebra. Perché qui psyche non vuol dire per nulla anima o qualcosa di simile ma significa, semplicemente, la vita, l’indistinta unità del corpomente che esiste nello spazio e nel tempo. Guerrieri che piangono spesso, con voluttà, senza alcuna vergogna, come accade anche nel conclusivo dialogo tra Priamo e Achille: «Immersi entrambi nel ricordo, l’uno per Ettore massacratore / piangeva a dirotto prostrato ai piedi di Achille, / mentre Achille piangeva suo padre, ma a tratti anche Patroclo: il loro lamento echeggiava per la casa» (XXIV, 509-512). Un pianto che tutti accomuna e dopo il quale l’uccisore del figlio e il padre dell’ucciso gustano infine «il piacere di guardarsi l’un l’altro» (XXIV, 633).
Il conflitto è ovunque. Non soltanto tra nemici di stirpe e di terre ma anche all’interno delle stesse comunità, famiglie, tribù. Il risentimento e l’ira di Achille verso Agamennone sono ben noti. Meno lo è quanto Ettore dice a proposito del fratello Alessandro Paride, fonte per Ilio di tante sciagure: «Se lo vedessi discendere dentro i recessi di Ade, / direi che un brutto malanno avrebbe scordato il mio cuore» (VI, 284-285). Odio e vendetta sono per queste culture realtà del tutto ovvie e naturali. E questo vale per l’intera Grecità, da Omero ad Aristotele, secondo il quale «vendicarsi dei nemici è più bello anziché riconciliarsi» (Retorica A, 9, 1367 a, 20).

Nell’Iliade la ferocia è continua. Non è davvero possibile definire i Greci ‘umanisti’ quando qui si descrivono come del tutto comuni i sacrifici umani -Achille sgozza sulla tomba di Patroclo dodici ragazzini troiani fatti da lui prigionieri a tale scopo: «Con me rallegrati, Patroclo, sia pure in casa di Ade: / perché manterrò tutto quello che poco fa t’ho promesso, / di trascinare Ettore qui e darlo crudo in pasto ai cani, / di sgozzare davanti al tuo rogo dodici figli scelti / dei Troiani, perché sono adirato che t’abbiano ucciso» (XXIII, 19-23)-, quando non c’è nessun rispetto per il cadavere di Ettore, che non soltanto viene trascinato ogni giorno da Achille nella polvere ma che gli altri guerrieri colpiscono ridendo -«eppure nessuno s’accostò senza colpirlo. / E così ciascuno diceva rivolto al vicino: ‘Ehilà, adesso a toccarlo è molto più morbido Ettore, di quando applicava alle navi il fuoco vorace!’» (XXII, 371-374; 1133), Ettore che da parte sua vorrebbe di Patroclo ucciso «issarne / la testa mozzata dal tenero collo sulla punta d’un palo» (XVIII, 176-177).

Non si può comprendere nulla di questo mondo distante e disumano se non si ricorda a ogni istante che tutti i personaggi dell’Iliade sono in mano al volere degli dèi. Tutti. La presenza e il potere dei Numi sono pervasivi e assoluti. A loro vengono ascritti meriti, colpe, esiti. Della sua ingiustizia verso Achille Agamennone afferma di non essere colpevole, poiché i responsabili sono «Zeus e la Moira e l’Erinni che vaga nel buio» (XIX, 87). Presaghi della fine del loro padrone, i cavalli di Achille dicono al loro signore che «certo, ti salveremo anche stavolta, Achille potente / ma t’è vicino il giorno fatale; e non siamo noi / i colpevoli, ma un grande dio e la Moira invincibile» (XIX, 408-410).
Moira ed Erinni, θάνατος καί μοῖρα κραταιή (XXIV, 132), ‘la morte e il duro destino’, sono i veri signori del poema. Più di Zeus, più di tutti gli altri immortali. Più di «Afrodite che ama il sorriso» (III, 424 e XXI, 40). Più di «Dioniso, gioia dei mortali» (XIV, 325). Più di tutti «gli dei che vivono lieti» (θεοί ῥεῖα ζῶοντες, VI, 138), «gli dei beati che vivono eterni» (θεοί ἀιεν ἐοντες, XXIV, 99). Signore della materia, della psyche e del mondo sono la Moira e «l’Erinni che vaga nel buio / […]  col suo cuore spietato» (IX, 571-572).

Chi combatte, domina e trionfa nella pianura sconfinata di Ilio? I guerrieri troiani e gli achei certo. Ma «erano in campo con loro la Furia, il Tumulto, la Morte funesta» (XVIII, 535).

Gender Theory

Negli studi accademici e nei mezzi di comunicazione di massa si va imponendo la Gender Theory, vale a dire l’idea di «sostituire a categorie come il sesso o le differenze sessuali, che rimandano alla biologia, il concetto di genere che, viceversa, dimostra che le differenze tra gli uomini e le donne non sono fondate sulla natura, ma sono storicamente costruire e socialmente riprodotte». Queste parole si trovano in una dichiarazione della deputata socialista francese Julie Sommaruga (cit. da A. de Benoist, in Diorama letterario 329, p. 1).
Si tratta di una posizione che va ben oltre qualunque forma di platonismo e di storicismo. È infatti una teoria che attribuisce uno degli elementi fondamentali dell’identità umana e animale -la differenza tra i sessi- al semplice effetto di opzioni culturali, di costume, di credenze ideologiche, filosofiche, religiose. Una teoria che dissolve esplicitamente la differenza a favore dell’identità. Caroline de Haas sostiene infatti che «noi non neghiamo le differenze tra gli esseri, ma diventiamo indifferenti alle differenze: così faremo un grande passo in avanti verso l’eguaglianza» (Id., p. 2). Monique Wittig va oltre e afferma che «per noi, non ci possono più essere né donne né uomini. […] In quanto categorie di pensiero e di linguaggio, essi devono scomparire politicamente, economicamente, ideologicamente» (Id., p. 3).
L’antimaterialismo culturalista nasce da una radicale ostilità verso la struttura biologica dei corpi umani e animali, «in particolare verso il corpo sessuato. Il corpo smette di essere il dato iniziale attraverso il quale noi apparteniamo alla specie. L’appartenenza alla specie è staccata in maniera metafisica da qualunque ‘incarnazione’: preesiste al sesso» (Ibidem). Le obiezioni mosse da Alain de Benoist a tali posizioni mi sembrano del tutto condivisibili. Ne riporto qui alcune.
«L’ideologia del genere poggia su due fondamentali errori. Il primo consiste nel credere che il sesso biologico non abbia alcun rapporto con l’identità sessuale né con la personalità, e che il genere si costruisca senza alcun’altra relazione con il sesso al di fuori delle ‘convenzioni’ alimentate dalla cultura, dall’educazione  o dall’ambiente sociale. Il secondo consiste nel confondere sistematicamente il genere, nel senso esatto del termine, le preferenze o gli orientamenti sessuali ed infine il ‘sesso psicologico’ o ‘bisessualità psichica’, cioè il grado di mascolinità o di femminilità presente in ciascuno di noi» (Ibidem).
È del tutto evidente che «ci sono solo due sessi, ma esiste una pluralità di pratiche, di orientamenti o di preferenze sessuali. […] Quel che il sesso biologico non determina non è il ‘genere’, ma la preferenza sessuale. La molteplicità delle preferenze sessuali non fa scomparire i sessi biologici, e neppure ne aumenta il numero. L’orientamento sessuale, quale che sia, non rimette in discussione il corpo sessuato» (Id., pp. 3-4). Il sesso biologico determina quindi sin dall’inizio l’essere femmine/donne o maschi/uomini, senza che questo vincoli poi le preferenze sessuali. Da maschio/uomo posso accoppiarmi con un altro maschio/uomo senza però diventare una femmina/donna. Ho esercitato la mia giusta libertà erotica ma non ho potuto negare la mia struttura biologica.
Pensare il sesso, comprenderlo, gestirlo, non è dunque possibile al di fuori di una prospettiva che sia insieme biologica e culturale. «La credenza secondo cui non si nasce donna o uomo è una manifesta controverità. Il sesso (xx o xy) si decide in realtà sin dalla fecondazione dell’ovocito da parte dello spermatozoo, cioè prima ancora della comparsa morfologica degli organi genitali. […] La differenza dei sessi appare quindi marcata ben prima della nascita. E il ruolo degli ormoni sessuali prosegue durante tutta la vita. L’umanità unisex, di conseguenza, è un non senso per definizione. Si appartiene alla specie umana solamente in quanto uomo e donna, e questa differenza è acquisita sin dai primi istanti della vita» (Id., p. 4).
Negare quest’ultima evidenza è una forma di ultraplatonismo che Platone sarebbe il primo a rifiutare. Si tratta di un’espressione estrema del dualismo metafisico, un dualismo scatenato e sbagliato. Coerentemente, i suoi sostenitori dovrebbero chiedere di modificare alla radice, ad esempio, la legislazione sportiva, che continua a separare le squadre maschili dalle squadre femminili; dovrebbero proporre che in una squadra di calcio, basket, pallavolo, i membri siano indifferentemente maschi o femmine, proprio perché non si sarebbe per natura né l’uno né l’altro. O correre insieme -maschi e femmine- i cento metri piani.
La mia critica (che qui ho solo accennato) dei presupposti, delle tesi e delle conseguenze implicite della Gender Theory si fonda su una prospettiva materialista. Infatti «Leib bin ich ganz und gar, und Nichts ausserdem [corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro]» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, parte I, «Dei dispregiatori del corpo»)

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