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Smoralizzazione

Venerdì 9.2.2018 parteciperò alla presentazione del libro di Eugenio Mazzarella
L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo (Quodlibet, 2017)

Con questo volume il cammino teoretico di Mazzarella perviene a uno dei suoi esiti più compiuti e coerenti. Il filosofo mostra che per lo «strano animale» che siamo, per «quest’animale che si estrania», risulta vitale trovare una Heimat, un terreno, una dimora, un luogo nel quale abitare con fiducia il mondo.
Tale bisogno nasce anche dal fatto che il nostro corpomente è in grado di intuire il sempre rimanendo tuttavia intriso di ora. Il legame tra la tecnica, l’umano e il tempo fa da fondamento a un testo che va oltre ogni etica, pervenendo a una vera e propria filosofia del vivente come l’originario e insieme l’inoltrepassabile.

I morti

Napoli velata
di Ferzan Ozpetek
Italia, 2017
Con: Giovanna Mezzogiorno (Adriana), Alessandro Borghi (Andrea), Anna Bonaiuto (Adele), Peppe Barra (Pasquale), Lina Sastri (Ludovica), Isabella Ferrari (Valeria), Biagio Forestieri (Antonio), Luisa Ranieri (Catena)
Trailer del film

Adriana bambina ha visto morire i genitori in modo tragico e violento. E non è impazzita. Da adulta è medico legale. Indaga e disseziona cadaveri. Durante una festa incontra Andrea, che la guarda spogliandola e le comunica (esattamente: le comunica) che passeranno la notte insieme. È una notte di piacere, di orgasmi, di vita. Andrea le dà appuntamento per il pomeriggio del giorno successivo al Museo Archeologico di Napoli. Ma non arriva. Sarà Adriana a vederlo qualche ora dopo. E da lì parte una vicenda intricata, inquietante, trascendente, criminale, onirica. Che si dipana dentro una città luminosa e oscura, bellissima e mortale.
Tutte le culture, i grandi archetipi, pongono molta attenzione a separare il mondo dei vivi da quello dei morti. Ai quali vanno tributati gli onori, le preghiere, il malinconico affetto del crepuscolo. Ma poi bisogna lasciarli andare. Che siano madri, padri, amanti, coniugi, compagni, figli o fratelli, bisogna permettere loro di incamminarsi negli itinerari del nulla. Sui quali, peraltro, si limitano a precederci di poco.
Non bisogna permettere ai morti di guardarci, non bisogna lasciare che il loro occhio oggettivo e gelido si posi sul nostro divenire, che il loro buio tocchi i nostri colori, che il loro eterno franga il nostro tempo.
È questa l’intuizione -non importa quanto consapevole- del film, quella che lo pone al di là del thriller e della storia d’amore, oltre il compiacimento barocco e la bellezza figurativa, per attingere la metafisica del niente.
Forse soltanto la filosofia e la poesia possono dire i morti senza morire.

«L’ingiustizia consistente proprio nel fatto di ex-sistere, di nascere, di staccarsi dal grande e indefinito Tutto. La propria individuale sussistenza sarebbe il peccato originale che scontiamo morendo»
Augusto Cavadi, Andarsene, Diogene Multimedia 2016, p. 36.

«Ma oggi
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
quelle toppe solari…Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.

I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe d’inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
Non
dubitare, – m’investe della sua forza il mare –
parleranno»

Vittorio Sereni, «La spiaggia» in Gli strumenti umani (1965), Einaudi 1980, p. 86.

«Un bambino ci è nato»

Blade Runner 2049
di Denis Villeneuve
USA, 2017
Con: Ryan Gosling (Agente K), Ana de Armas (Jol), Sylvia Hoeks (Luv), Harrison Ford (Rick Deckard), Robin Wright (Madame), Mackenzie Davis (la donna della memoria), Dave Bautista (Sapper), Edward James Olmos (Gaff)
Trailer del film

Si apre con la pupilla. Quella attraverso la quale in Blade Runner si scopriva se un’entità fosse umana oppure replicante. Si entra dentro l’occhio di un mondo tornato alle sue origini magmatiche, al suo caos. Stabilire l’ordine in questo mondo vuol dire erigere muri. Muri alti e spessi tra la specie generata dallo sperma e la specie prodotta dai circuiti elettrici. Ma nel tempo ogni muro è destinato a sbriciolarsi, a trasformarsi in mattoni posati nello spazio, silenziosi e antichi sino a che qualcosa di vivo non impianti quei mattoni dentro i ricordi sia dei corpi biologici sia dei corpi macchinici, tutti viventi dentro landscapes di rottami che si stendono per chilometri, che diventano città del male, del bisogno, della fine. Perché chi produce la memoria dei corpi è padrone del tempo ed è quindi signore delle menti, è un dio, anche se sembra una creatura come le altre, forse più sensibile, più pacata, più chiusa dentro la sfera della propria essenza.
Il software e le ferraglie, la lieve inconsistenza dei bit e il pesante rumore dell’acciaio, hanno entrambi bisogno di un βίος pulsante del limite e fatto di tempo -di date incise dentro gli alberi- per rivelare la propria natura profonda, per unirsi nell’amore, per sorridere, per piangere.
Dalle lacrime nella pioggia del replicante Roy al distendersi del suo successore nella neve, la purezza dell’acqua e degli elementi riscatta le macchine dal loro anonimato -‘K’ è un nome dagli echi kafkiani- e le consegna all’enigma più inquietante, fondativo e profondo, l’enigma della nascita. Esso sta al centro e al cuore di Blade Runner 2049, la cui densità filosofica mantiene il film su un livello splendente e rarefatto, che ha un solo momento di caduta -nel patetico e banale presentarsi di una sorta di Movimento di liberazione dei replicanti- e che conferma il talento di Villeneuve nel dare figura ai pensieri, alle inquietudini, al futuro e ai sogni.
Il vecchio Deckard ricompare sempre contrariato, frenetico e calmo. Alle domande di K ricorda ciò che fu, guarda lo spazio vuoto abitato da un cane, da rovine e dalle api, e dice «a volte se ami qualcuno gli devi diventare estraneo». Una piccola verità, un piccolo dolore, dentro la grande verità, dentro il grande dolore d’esser venuti al mondo. «Un bambino ci è nato, ci è stato dato un figlio» (Isaia, 9,5).

Mangiare

Cowspiracy: The Sustainability Secret
di Kip Andersen e Keegan Kuhn
USA, 2014
Trailer del film

Quali sono le ragioni del disastro ecologico verso il quale la nostra specie sembra tranquillamente avviarsi, e con essa gli altri animali e i vegetali? Sono numerose. Petrolio, plastica, deforestazione (l’Amazzonia sta subendo danni gravissimi), spreco di acqua. Su tutto ciò le grandi associazioni ambientaliste offrono ampia documentazione e analisi.
Manca tuttavia qualcosa. Manca l’essenziale. E di questo neppure le organizzazioni ecologiste amano parlare. Le foreste vengono distrutte, le emissioni di metano aumentano vertiginosamente, la temperatura media del pianeta cresce e sembra ormai fuori controllo, enormi risorse idriche sono utilizzate a uno scopo ben preciso. Perché? Che cosa hanno in comune tali fenomeni? Quale il denominatore comune? L’alimentazione.
Le foreste vengono trasformate in immensi pascoli e in coltivazioni di mais e soia. Per produrre un hamburger è necessario utilizzare migliaia di litri d’acqua. I miliardi di bovini che ruminano e defecano emettono quantità impressionanti di metano. Questa è la ragione fondamentale del disastro ambientale, evidente ma nascosta da interessi economici, inerzia dei comportamenti, rassegnazione sociale e antropologica. La causa principale di tale disastro è l’alimentazione carnea, in particolare quella bovina e dei derivati del latte. Sta anche qui la giustezza, la necessità, il significato della scelta alimentare vegetariana e vegana. Bisogna diminuire drasticamente l’allevamento intensivo dei bovini e il loro numero. E lo si può fare soltanto eliminando la loro carne dalla nostra alimentazione. Bisogna farlo per noi umani, per le mucche, per l’intero pianeta.
Si tratta dell’unica scelta razionale. Il film di Andersen e Kuhn lo mostra in modo rigoroso e coinvolgente.

Africa

AFRICA. Raccontare un mondo
Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
A cura di Adelina von Fürstenberg
Video e performance a cura di Ginevra Bria
Sino all’11 settembre 2017

Figure umane disegnate, create e descritte in diverse forme.
Installazioni.
Utilizzo metaforico di materiali e oggetti quotidiani.
Video di luoghi, di corpi, di volti, di azioni, di amori e di pianti.
Barthélémy Toguo realizza una grande nave –Road to Exile-, intrisa di progetti, di colori, di futuro.
Richard Onyango disegna uno Tsunami al modo di ingenui ex voto ma con l’evidente scaltrezza dell’artista.
Georges Adéagbo compone Milan-Italy, un bric-à-brac affollato di oggetti e giornali, un blob statico, un’ironica fotografia del presente.
Il designer Gonçalo Mabunda realizza Weapon Throne, un feroce trono fatto con le armi che hanno devastato il suo Mozambico durante gli anni della guerra civile.
Abdelrahmane Sissako, il regista del bellissimo Timbuktu, propone Dignity, un filmato privo di sentimentalismo e ricco di talento visivo-antropologico.
Romuald Hazoumé costruisce una varietà di volti ricavati da materiali disparati: bidoni, annaffiatoi, tostapane, sci, aspirapolvere e molto altro. Splendido il suo Androgino, una scultura metallica e arcaica, apotropaica e ironica, tribale e platonica.
Di Idrissa Ouédraogo è possibile vedere La longue marche du caméléon, parte di un film dal titolo Beyond Borders and Differences nel quale l’artista pone a confronto alcune ancestrali credenze del suo popolo con lo scetticismo di chi si è abbeverato alla razionalità cartesiana. Il risultato è un ironico e intelligente video nel quale il cangiante giallo di un camaleonte rappresenta la continuità e il conflitto tra l’animale umano e altre animalità, la cui saggezza inscritta nella materia si mostra assai più razionale di ogni semplice astrazione logica. Le immagini di Ouédraogo ricordano le tesi dell’antropologo Eduardo Viveiros de Castro
«Vedendoci come dei non-umani, è loro stessi (e i loro rispettivi congeneri) che gli animali e gli spiriti vedono come degli umani: si percepiscono come (o diventano) esseri antropomorfi quando sono nelle loro case o nei loro villaggi, e imparano i loro comportamenti e le loro caratteristiche sotto un aspetto culturale: percepiscono il loro cibo come un alimento umano (i giaguari vedono il sangue come la birra del mais, gli avvoltoi vedono i vermi della carne putrefatta come pesce grigliato, eccetera); vedono i loro attributi corporei (pelame, piumaggio, unghie, becchi, ecc.) come ornamenti o strumenti culturali; il loro sistema sociale è organizzato come delle istituzioni umane (con capi, sciamani, metà esogame, riti…)»
(Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia strutturale, ombre corte, Verona 2017, p. 43)
Tutto questo è anche arte concettuale ma è assai di più. È l’immagine di un continente che deve conservare la sua identità, senza disperderla nello spazio altrui, nelle altrui potenze. È l’incarnazione di una vita antica.

Metafisiche cannibali

Decolonizzare il pensiero per restituire il sapere dell’Altro
il manifesto
19 agosto 2017
pag. 11
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Tutto qui appare diverso rispetto a come siamo abituati a pensare. Categorie, concetti e modi d’essere si mostrano in una prospettiva completamente differente, attraversamento di una soglia del mondo. All’opposto dell’evoluzionismo europeo, la differenziazione non parte dalla comune animalità ma si origina dalla comune umanità. E pertanto dove la nostra posizione tende a essere multiculturalista, quella dei popoli amazzonici è multinaturalista. Lo sciamano attraversa i confini ontologici, non semplicemente raggiungendo una conoscenza dell’alterità ma trasformandosi nell’alterità.

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