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Un’ostinata libertà

Libertà e animalità
in La libertà ostinata. Machiavelli e i confini del potere
A cura di Attilio Scuderi
Mimesis 2018
Pagine 37-55

È da poco uscito il volume -a cura di Attilio Scuderi- che raccoglie le relazioni svolte in occasione di un convegno dedicato al concetto e alla pratica della libertà nel pensiero di Machiavelli. Il convegno si tenne nel maggio 2017 presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania. Metto a disposizione di chiunque voglia leggerlo il testo -naturalmente qui ampliato- della mia relazione, che è divisa in cinque paragrafi:
-La questione del potere
-La questione animale
-Al di là di umanismo e teocentrismo
-L’animalità di Machiavelli
-Libertà e animalità
Nel pdf si trova anche l’indice completo del libro.

Velut umbra

Homo fugit velut umbra
(Passacaglia della Vita)

di Anonimo (1657)
Voce Marco Beasley – Ensemble L’Arpeggiata (2002)

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In siciliano si impreca contro la «morte buttana». È vero, la morte sembra una puttana che si dà a tutti, uomini e donne, indistintamente. E tuttavia questo detto rivela non la natura del morire ma la miseria della condizione umana, il suo terrore, l’arroganza di pretendere un destino diverso da quello degli altri viventi. La Passacaglia della Vita (di anonimo, pur se spesso attribuita erroneamente a Stefano Landi) esprime invece la necessità del morire, il Sein zum Tode che ci rende ciò che siamo. È il limite temporale, infatti, che dà senso all’esserci.
Homo fugit velut umbra è un canto magnifico e danzante, eseguito da Marco Beasley con l’ensemble L’Arpeggiata diretto da Christina Pluhar, una delle più creative musiciste contemporanee. Forse anche Leonard Cohen (Who by Fire) si è ispirato a questo barocco trionfo della morte.

Oh come t’inganni se pensi che gli anni
Non han da finire, bisogna morire, bisogna morire, bisogna morire.
È un sogno la vita che par sì gradita
Che breve gioire, bisogna morire
Non val medicina, non giova la china
Non si può guarire, bisogna morire, bisogna morire, bisogna morire.

Non voglion sperate in arie bravate
Che taglia da dire bisogna morire
Lustrina che giova parola non trova
Che plachi l’ardire, bisogna morire, bisogna morire, bisogna morire.

Non si trova modo di scioglier ‘sto nodo
Non vale fuggire, bisogna morire
Non muta statuto, non vale l’astuto
‘Sto colpo schernire bisogna morire, bisogna morire, bisogna morire.

Oh morte crudele, a tutti è infedele
Ognuno svergogna, morire bisogna
È pura pazzia o gran frenesia
A dirsi menzogna, morire bisogna, morire bisogna, morire bisogna.

Si more cantando, si more sonando
La cetra zampogna, morire bisogna
Si more danzando, bevendo, mangiando
Con quella carogna morire bisogna, morire bisogna, morire bisogna.

I giovani putti e gli uomini tutti
Son da incenerire, bisogna morire
I sani, gl’infermi, i bravi, gl’inermi
Tutti han da finire, bisogna morire.
E quando nemmeno ti penti nel seno
Ti vien da finire, bisogna morire.
Se tu non ti pensi hai persi li sensi
Sei morto e puoi dire: bisogna morire, bisogna morire, bisogna morire.
Bisogna morire, bisogna morire, bisogna morire, bisogna morire.

 

La salvezza

Teatro Elfo Puccini – Milano
Libri da ardere
di Amélie Nothomb
Traduzione di Alessandro Grilli
Con Elio De Capitani (il Professore), Angelo Di Genio (Daniel), Carolina Cametti (Marina)
Regia di Cristina Crippa
Sino al 21 novembre 2018

C’è freddo, molto freddo, in una città quasi distrutta dai «barbari». Un professore di letteratura sopravvive insieme al suo assistente, Daniel, in una zona risparmiata dai bombardamenti. A loro si aggiunge Marina, amante di Daniel. È lei, è l’insostenibilità del gelo che attraversa il suo corpo, a proporre -finiti i tavoli, gli armadi, i mobili- di bruciare nella stufa i libri della ricca biblioteca del professore. I due uomini respingono sdegnati la proposta ma poi cominciano a selezionare i volumi che potrebbero essere sacrificati senza danno, visto il loro scarso valore letterario. A poco a poco la biblioteca si spoglia e le relazioni si inferociscono. Le relazioni si inferociscono perché la biblioteca si spoglia. Emergono i desideri primordiali della pancia, dell’abbraccio, del calore che i corpi si sanno dare anche quando non sono attraversati dall’amore. Gorgogliano i rancori, il reciproco disprezzo. Tramontano le convenzioni, le buone maniere, l’educazione antica che evita di sbranarci a ogni istante. I libri erano la salvezza dall’incessante lotta che ci affligge, da questa nostra natura di mammiferi di grossa taglia pronti alla passione della copula per riprodurre se stessi nelle cellule e pronti alla passione della guerra per sfoltire da queste cellule il pianeta.
I libri sono la salvezza e lo rimarranno sempre. Il dramma feroce e insieme ilare di Amélie Nothomb -messo in scena con la consueta e gigionesca maestria dell’Elfo, di Crippa e di De Capitani- rende plastica sulla scena e tra le parole questa evidente verità. Senza più libri, infatti, i suoi personaggi sono diventati anch’essi dei barbari, vittime della morte, spenti.
Che accada, dunque, e che rimangano scolpite nello spazio le parole di uno gnostico sapiente e argentino: «Sospecho que la especie humana – la única – está por extinguirse y que la Biblioteca perdurará: iluminada, solitaria, infinita, perfectamente inmóvil, armada de volúmenes preciosos, inútil, incorruptible, secreta».
«Sospetto che la specie umana -l’unica- stia per estinguersi, e che la Biblioteca perdurerà: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta»
Jorge Luis Borges, «La Biblioteca di Babele», in Tutte le opere vol. I, Mondadori 1991, pp. 687 e 688.

In-der-Welt-sein

Per disinnescare la prevaricazione verso il vivente
il manifesto
29 settembre 2018
pagina 11

Essere antispecisti significa comprendere che la forma più radicale di eguaglianza è quella ontologica. Su questo piano le differenze di luogo, di epoca, di genere, di età, di professione, di etnia, di specie biologica, diventano declinazioni diverse, legittime e arricchenti, dell’identità che accomuna gli enti. Il corpo che siamo è abitato da una innumerevole flora e fauna, della quale costituiamo la dimora. Credendoci uno siamo in realtà molteplici. Perché la nostra unità non è fondata sulla separatezza dal mondo ma sull’In-der-Welt-sein, sull’essere ὅλος dentro l’οἶκος.

Les Misérables

Un affare di famiglia
(Shoplifters)
di Kore’eda Hirokazu
Giappone, 2018
Con: Lily Franky (Osamu Shibata), Kirin Kiki (Hatsue Shibata), Sakura Andô (Nobuyo Shibata), Mayu Matsuoka (Aki Shibata), Jyo Kairi (Shota Shibata), Miyu Sasaki (Juri).
Trailer del film

Vivono insieme, in uno spazio angusto del quale condividono tutto. Chiamano ‘nonna’ l’anziana affittuaria  della casa. Svolgono lavori saltuari e malpagati. E soprattutto fanno la spesa e prendono la merce di cui hanno bisogno senza pagarla. Sono shoplifters, ‘taccheggiatori’ come recita il titolo in inglese, ancora una volta più esatto di quello italiano.
In una sera d’inverno l’uomo e il ragazzo rientrano dall’ennesimo furto e trovano una bambina sola al freddo in un balcone. La portano a casa. Pur con qualche resistenza, alla fine tutti accolgono con affetto la piccola Juri, che nessuno sembra cercare.
Dall’inverno all’estate: tutti insieme al mare, come una vera famiglia. Ma quando il giovane Shota viene scoperto dai commessi di un negozio, comincia la dissoluzione di questa famiglia nata dal bisogno e non dal sangue. Una famiglia che appare come tante altre ed è unita molto più di altre. Morale, giustizia, illegalità, egoismi e slanci si fondono e confondono, come accade ogni giorno nella vita degli umani.
I grandi elogi che il film ha ricevuto dopo la Palma d’Oro ottenuta a Cannes nel 2018 sono probabilmente eccessivi ma un suo sicuro merito è mostrare senza sentimentalismi come nessuna norma morale o codice giuridico possano racchiudere ed esaurire lo spazio della vita. E mostrare come un Paese ricco e avanzato qual è il Giappone capitalistico del XXI secolo non sia in alcune sue pieghe così diverso dalla Francia ottocentesca descritta nei Miserabili  di Victor Hugo.
Un segno distintivo e costante di tale continuità è dato dalla fame. Non una fame inappagata, no, una fame sempre esaudita. Quasi in ogni scena i personaggi mangiano, sgranocchiano qualcosa, si nutrono. Continuamente. L’atavico bisogno di sopravvivere nutrendosi -questa necessità fondamentale di ogni corpo che sia vivo- sta da sempre a fondamento di ogni codice giuridico e di ogni norma morale. Perché sta a fondamento dei corpi animali che gli umani sempre rimarranno.

Totem

William Golding
Il Signore delle Mosche
(Lord of the Flies, 1954)
Traduzione di Filippo Donini
Bibliotex, 2002
Pagine 224

«Niente pietà» (p. 31) nel gorgo dell’umano alla sua nascita. Precipitati nello spazio vergine di un’isola-foresta e lasciati al tempo che rinasce dal suo vuoto, un gruppo indefinito di ragazzini mostra le categorie più fonde, gli esistenziali più potenti, le leggi naturali dell’Homo sapiens. Che sono norme di potenza e di sopraffazione, pronte a generare un ambiente dentro il quale l’ammissione che «le leggi sono l’unica cosa che abbiamo» (99) e l’interrogativo su «che cosa è meglio: la legge e la salvezza o la caccia e la barbarie?» (199) vengono ben presto irrisi e si dissolvono in un’«un’autorità irresponsabile» (176), nell’urlo che selvaggia, nel «peso di un’autorità senza nome» (201), in una forza inesorabile, la morte.
La novità di «un tempo in cui la vita era così piena che si poteva fare a meno della speranza» (63) si volge, si trasforma e trasfigura nello spaziotempo fantasmatico, silenzioso e ululante di una maschera e «a quella maschera non si poteva disubbidire» (69).
Non genesi storica della società, non un contratto sociale, non l’ulteriore variazione sul buon selvaggio, non psicologia dell’infanzia e dell’adolescenza, non distopia ma descrizione dell’umano nella profondità del suo buio e della sua follia, ché tali siamo: folli di qualcosa che ci sfugge. È questa probabilmente «la malattia fondamentale dell’umanità» (97).
Un totem, un simbolo, una figura, una metonimia e una metafora condensano il male che è l’umano: «Erano innumerevoli, nere e d’un verde iridescente e di fronte a Simone il Signore delle Mosche ghignava, infilzato dal bastone. Alla fine Simone cedette e riaprì gli occhi: vide i denti bianchi, gli occhi velati, il sangue…e restò affascinato, riconoscendo qualcosa di antico, di inevitabile» (152), la nostra carne, la nostra volontà, il nostro gesto, l’origine e il destino.
«Die Selbstvernichtung des Menschentums besteht nicht darin, daß es sich beseitigt, sondern daß es sich jeweils die Geschlechter züchtet, in denen ihm seine Herrlichkeit bestätigt wird, ohne daß diese Blendung als Verblendung sich bloßstellen ließe».
[‘L’autoannientamento dell’umanità non consiste nel fatto di dissiparsi, bensì nel fatto di allevare di volta in volta le stirpi in cui le viene confermata la sua magnificenza, senza che questo miraggio si lasci scoprire come un accecamento’. Martin Heidegger, «Gesamtausgabe», Band 96, IV Abteilung: Hinweise und Aufzeichnungen, Überlegungen XII-XV [18-19], Schwarze Hefte 1939-1941, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main, 2014, p. 181; Quaderni neri 1939-1941].

 

Das Unheimliche

Dino Battaglia
Lovercraft e altre storie

Edizioni NPE, 2017
Pagine 104

Gli umani sono attratti dall’orrore, sono attratti da se stessi. Spaventati anche. Una paura che nasce non da ciò che sanno ma da ciò che sono. I più però lo ignorano e attribuiscono il male a delle ragioni esterne e specifiche invece di coglierlo nell’azione che compiono. E soprattutto nell’essere dal quale scaturisce l’azione.
Nascono così le storie, le leggende, i racconti, che tentano di dare conto di questo enigma così palese, come se esso provenisse da altri mondi -la fantascienza-; dagli eventi -le narrazioni storiche-; dalle religioni e dai miti. E invece è da noi che nasce, noi siamo il Golem, la polvere diventata potente e incapace di limite. Ogni tanto un barlume di consapevolezza ci travolge e, guardandoci allo specchio del sapere e della psiche, comprendiamo di essere insieme il dottor Jekyll e il signor Hyde. Nella rappresentazione che Dino Battaglia fa del racconto di Stevenson, il protagonista afferma di aver «condotto per anni studi sulla duplicità della natura umana desiderando con tutte le mie forze dividere il bene ed il male in due entità separate» (p. 68) ma si accorge poi di quanto inestricabili siano tali nature nell’umano e nel mondo.
Battaglia penetra il coacervo di tenebra densa e di flebile luce facendone emergere soprattutto la solitudine, una solitudine non soltanto psicologica ma anche e specialmente metafisica, che caratterizza tutti e sei i racconti di questo libro, per quanto assai diversi tra loro: dall’orrore di Lovercraft al tradizionale patto con il diavolo, dalla danza macabra a diaboliche ironie, da Hyde al Golem, appunto.
Tutto è cupo, grigio, ed è insieme forte e vero. Battaglia lo pervade con la sua arte, perché è il tratto a essere inquietante, non la storia.

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