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Antropologia omerica

Antropologia omerica
in Dialoghi Mediterranei
n. 72, marzo-aprile 2025
pagine 41-45

Indice
-Il canto
-La guerra
-Un poema vivo
-La Μοίρα, gli dèi

Dall’Iliade si impara l’essenziale. Si impara che ciò che chiamiamo bene e male, colpa e merito, vizio e virtù, è uno strato superficiale e derivato di una natura umana che non soltanto è costituita e pervasa di passioni unitarie e comuni a tutti – a differenziarci è la loro diversa mistura in ciascuno di noi – ma che è soprattutto guidata da forze sulle quali gli umani non esercitano alcun controllo, la forza di Ἀνάγκη, della Necessità.
Il principio, quasi propedeutico a ogni altro, che dietro gli eventi e le scelte degli umani operi sempre un intervento divino, si articola nei nomi plurali e fascinosi delle divinità olimpiche, tanto che è davvero facile vedere e mostrare come l’intera trama dell’Iliade sia «concepita e determinata non dagli uomini, ma dagli dèi» e però tali divinità personali e plurali rimangono anch’esse, compreso Zeus, sottoposte al supremo ordine della Μοίρα. 

La promessa

Friedrich Dürrenmatt
La promessa
(Das Versprechen, 1958)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Silvano Daniele
Einaudi-Gallimard, Torino 1993
Pagine 307-425

Un commissario di polizia del cantone di Zurigo, Matthäi, sta per partire per la Giordania, dove è stato incaricato di addestrare i poliziotti locali. Gli si presenta un ultimo caso: una bambina, Gritli Moser, è stata uccisa in un bosco non lontano da casa, con un rasoio che ne ha fatto scempio. Lui stesso dà la notizia ai genitori e davanti alla reazione disperata e animalesca della madre le promette di trovare l’assassino. Sottoposto a un interrogatorio di venti ore, un ambulante confessa e poi si uccide. Il caso sembra dunque chiuso ma Matthäi è convinto che il vero assassino sia ancora in libertà e potrà uccidere altri bambini. Ossessionato da questa ipotesi, rinuncia a partire, viene licenziato dalla polizia, inizia a indagare privatamente. Da uomo freddo, efficiente e razionale che era, Matthäi scende in un gorgo di tormento e di assillo che non gli darà più pace.
Questa vicenda viene raccontata allo scrittore dal dirigente superiore di Matthäi, con un finale che qui non va ovviamente svelato ma che conferma per intero la ferocia e la pochezza, l’assurdo e la miseria degli umani, che Dürrenmatt narra e descrive con la consueta implacabile lucidità e con dolorosa ironia.
«Delitti ne accadevano sempre» (p. 360), anche per mano di persone psicologicamente distorte, la cui «capacità di resistenza che possono opporre ai propri impulsi», dichiara uno psichiatra, «è anormalmente scarsa, basta maledettamente poco, un ricambio materiale un po’ alterato, qualche cellula degenerata, e l’uomo è una bestia» (376). Lo scrittore non si astiene dal consueto paragone con gli altri animali, con ‘le bestie’, che se può valere per i nostri cugini primati o per le formiche (insetti veramente feroci) e per alcune specie di uccelli, non è corretto per la stragrande maggioranza dei viventi, i quali praticamente mai uccidono per follia o per sadismo ma quasi soltanto per difendere o acquisire territorio, femmine e risorse. Le bestie, come è evidente, siamo noi.
E se i cittadini sperano in media che la polizia sappia mettere ordine nel mondo, il dottor H. – colui che narra allo scrittore la vicenda e dunque poliziotto egli stesso – ritiene di non poter «immaginare nessuna speranza più pidocchiosa di questa» (314). Spesso, anzi, le ‘forze del disordine’ sono esse stesse espressione del male, come si constata ovunque ogni giorno. Né le polizie né le religioni o le morali hanno mai potuto redimere la «maledetta commedia da cani» (403) che è l’esistenza collettiva degli umani. E anzi religioni e morali contribuiscono fattivamente al dolore del mondo, con le loro intolleranze e presunzioni, con le loro autentiche follie.
L’umano non può essere redento, in quanto «aus so krummen Holze, als Woraus der Mensch gewacht ist, kann nichts ganz Gerades gezimmert Werden», «da un legno storto, come quello di cui l’umano è fatto, nulla si può trarre di perfettamente dritto’» (Kant, Ideen zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (1784), in «Gesammelte Schriften», Berlin 1910, vol. VIII, p. 23). Un modo per temperare la stortezza/stoltezza di questa specie è capirne la natura e accettarne la struttura finita. Non soltanto come destino mortale ma in quanto dispositivo che produce morte. Come afferma ancora una volta il dottor H., «Siamo uomini, dobbiamo tenerne conto, armarci contro questa realtà, e soprattutto avere ben chiaro in mente che riusciremo a evitare il naufragio nell’assurdo, che per forza di cose risulta sempre più netto e schiacciante, e a costruirci su questa terra un’esistenza abbastanza confortevole, solo incorporandolo tacitamente nel nostro pensiero» (412).
A risolvere il caso dell’assassinio della bambina Gritli Moser è una vecchia che si trova in punto di morte ma ciononostante è assai vivace. È lei a raccontare al dottor H. che cosa sia veramente accaduto. Tra le tante premesse che pone al suo resoconto c’è la singolare tesi «che anche il male, l’assurdo  succede come qualcosa di altrettanto straordinario che il bene» (420-421).
Da gnostico qual è, Dürrenmatt sa infatti che il male e il bene sono strutture acquisite, derivate, provvisorie e cangianti. E che la sostanza degli uomini, il loro male, sta invece nella loro nascita.

Gadda, il guerriero

Gadda, la guerra, la nazione
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
18 febbraio 2025
pagine 1-7

In Carlo Emilio Gadda, nella sua idea del mondo, non c’è posto per gli infingimenti, per le illusioni, per i sentimentalismi ‘umanitari’. Lo testimonia un esplicito brano, che Gadda scrisse anche se poi preferì non pubblicarlo: «Io non ho mai avuto sentimenti umanitarî, né in guerra né in pace, pur essendo molto sensitivo al dolore e alla miseria degli altri e anche alla gioia degli altri». Espressamente enunciata è invece una formulazione che della guerra mostra le innate radici nell’umano e nelle sue società: «Le armi Caino ferocemente le impugna: e talora anche contro alla nostra filantropia».
Ovunque e sempre nei suoi scritti – direi tratto caratterizzante l’intera sua opera – Gadda non ha inteso ‘migliorare il mondo’ ma ha voluto descriverlo nella sua realtà spesso surreale e divertente così come spesso è insensata e feroce: «essendo io un rètore, amo le scritture compiute e non amo gli edificanti stralci». Nessuna scrittura edificante, no, ma la descrizione di ciò che necessariamente consegue da una verità metafisica quale è il tempo che tutto intesse, involve e vince, al modo in cui anche Petrarca sa dirlo: «Così ’l Tempo triunfa i nomi e ’l mondo». Con densità ed efficacia simile a queste, Gadda scrive che «gli umani, nella brevità storica della lor vita, sono il sostegno efimero del divenire».
Eφήμεροι e patetici, con la pretesa – in alcune filosofie ed epistemologie – che  il divenire immenso (miliardi di anni) della materia, delle galassie distanti miliardi di anni luce, degli oceani terrestri, delle lave dell’Etna, tutta questa magnifica potenza dipenderebbe per esistere (non per essere semplicemente conosciuta dall’umano ma proprio per esistere) da quella dimensione parzialissima e insignificante che è la coscienza  di una entità abitante da pochi anni un periferico pianeta di una delle innumerevoli galassie che compongono il cosmo. Pretesa formulata da una entità, l’umano, frutto del tempo (come tutto), la cui vita è intramata di limiti, sofferenza, patologie, ed è destinata in un batter di ciglia a sparire.

 

Un paradigma ontocentrico

Prefazione a:
È il nascere che non ci voleva
Storia e teoria dell’Antinatalismo

di Sarah Dierna
Mimesis 2025
Collana «Eterotopie», pp. 358
Pagine 11-16

Quarta di copertina:
«Il tema che questo libro affronta è certamente antico: il senso e il significato dello stare al mondo. E tuttavia i concetti analizzati, le modalità di indagine, la prospettiva dalla quale la questione viene posta, discussa, affrontata e risolta sono nuovi. Essi costituiscono anche il risultato della rottura dei confini disciplinari, di specialismi spesso utili ma altre volte sterili, di uno sguardo sull’umanità e sulla storia disincantato e insieme partecipe. La prospettiva antropodecentrica proposta da Sarah Dierna si fonda sulla distanza, sulla necessità di affrontare l’Antinatalismo sine ira et studio e con una pluralità di riferimenti alla storia della cultura, alla storia delle religioni, alle letterature e alla filosofia. Prospettive che vengono articolate in un percorso, dai Greci sino al XXI secolo, che impressiona per la ricchezza dei riferimenti, per la sobrietà dell’argomentare, per la chiarezza e la plausibilità di concetti e pratiche che si aprono a ulteriori sviluppi».

Aggiungo che la tesi filosofica che va sotto il nome di Antinatalismo riceve in questo libro (per la prima volta in Italia) una sistematizzazione che è insieme storica e concettuale. In tal modo Sarah Dierna offre al dibattito culturale, etico e antropologico un contributo di sicuro valore scientifico e di grande fecondità teoretica.

Puglia

La Puglia vista dai fotografi dell’Agenzia Magnum
Lecce  – Fondazione Biscozzi-Rimbaud
A cura di Walter Guadagnini
Sino al 5 gennaio 2025

In una piazzetta, accanto a una delle centinaia di chiese che formano il tessuto urbano di Lecce (la chiesa delle Alcantarine), ricavata dal restauro assai sapiente di un antico palazzo, la Fondazione Biscozzi-Rimbaud è uno dei più rigorosi e piacevoli musei d’arte contemporanea che abbia visitato. Attraversando i suoi spazi, salendo per le scale, ammirando la luminosa collocazione di ogni opera, si comprende che l’arte del secondo Novecento non è soltanto truffa, fuffa, narcisismo e «sistema» (lo è in gran parte) ma può costituire – come sempre l’arte fa – anche una espressione profonda della dolente geometria che dalla Prima guerra mondiale in avanti fa del mondo un luogo che è insieme matematico e feroce. Emerge e appare soprattutto una grande pulizia formale nelle opere raccolte dai coniugi Luigi Biscozzi e Dominique Rimbaud. E questo al di là dei nomi (Burri, Melotti, De Pisis e soprattutto Licini), delle correnti, delle tendenze che il museo accoglie e testimonia. Tutte sembrano avere in comune il respiro di una geometria della vita.

Osvaldo Licini, Notturno

Il Museo ospita sino a domani (5.1.2025) una raccolta di immagini che dodici fotografi dell’Agenzia Magnum hanno dedicato alla Puglia dal secondo dopoguerra al presente. 35 fotografie che parlano dell’antropologia, dell’architettura, della miseria, della bellezza che intesse le città, la terra, il mare. E che mostrano quale tesoro di storia, identità, tradizioni, miti sia questa regione. Emblematica è un’immagine di Burt Glinn del 1963. Si intitola semplicemente Bari: tre donne e un uomo, vestiti di scuro. Due di loro emergono come dalle tenebre domestiche, l’uomo è scolpito sullo sfondo chiaro di un muro. La terza donna, seduta, sembra una Parca che fila, aspetta, tronca. Nessuno dei loro sguardi si incontra. I corpi si concentrano tutti nelle mani, in gesti che costituiscono un lungo parlare. Un braccio è diretto verso l’alto, due mani indicano il divenire, altre mani più in basso accolgono il comando. Le ultime sono pronte a recidere. Sono dei corpimito. Stupefacente.

Burt Glinn, Bari (1963)

Il mito e la storia

Il mito come storia
Cinque drammi di Friedrich Dürrenmatt

in Il Covile
anno XVI, numero 705, 21 ottobre 2024
Pagine 1-8

Collaboro con numerose riviste (e ne dirigo una) ma la soddisfazione che mi regala la pubblicazione di un saggio su Il Covile è particolare, e questo per due precise ragioni:
-l’eleganza e la bellezza della rivista, il suo coraggio di apparire antica anche nella grafica;
-l’affrancamento dai miserabili dogmi del presente, ciò che Nietzsche chiama unzeitgemäß, inattuale.
Dietro due elementi come questi abitano infatti molte condizioni e un intero mondo.
Nel saggio ho cercato di leggere cinque drammi storici di Dürrenmatt anche alla luce di uno dei racconti più straordinari di questo drammaturgo e narratore: La morte della Pizia.

Indice del saggio
-Premessa sul Nobel
-Mito e storia
-Un angelo è sceso a Babilonia
-Sta scritto
-Il cieco
-La meteora
-Frank V
-Conclusione. Il male a Delphi

Qohélet, la Sicilia

Iddu
di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
Italia, 2024
Con: Elio Germano (Matteo), Toni Servillo (Catello Palumbo), Daniela Marra (Rita Mancuso), Fausto Russo Alesi (Emilio Schiavon), Barbara Bobulova (Lucia Russo), Antonia Truppo (Stefania), Betti Pedrazzi (Elvira)
Trailer del film

«Mio padre è morto tra le pecore e io vivo come un topo». Questo pensa e dice con amarezza Matteo, capomafia di una imprecisata zona della Sicilia. Devotissimo al padre Gaetano, ne assume alla morte eredità e ruolo, vivendo per decenni come latitante in una abitazione del suo stesso paese e da lì continuando a dare ordini di violenza e di morte, pur vivendo appunto come «u suggi». Tra le lettere e comunicazioni, assume un ruolo centrale il rapporto con Catello Palumbo, suo padrino di cresima ed ex sindaco del paese. Tornato da sei anni di detenzione, Palumbo viene costretto dai servizi segreti a partecipare a un’operazione il cui scopo sembra l’arresto di Matteo.
Sembra. Tutto è cangiante e simbolico nel cinema di Piazza e Grassadonia. Un cinema intessuto della deformazione dello spazio, del tempo, della memoria, delle vicende. I silenzi e la desolazione di Salvo (2012); la tenerezza e la crudeltà di Sicilian Ghost Story (2017) si trasformano nel grottesco di Iddu, un’opera che scende scende negli abissi insensati dell’esistenza siciliana, tra finti vivi, vivi a metà, morituri i quali «vivono giorni contati di vita inutile», come ancora una volta Matteo afferma. Questo criminale è un lettore attento della Bibbia e in particolare del Qohélet o l’Ecclesiaste che legge nella edizione Einaudi tradotta da Guido Ceronetti. 

E tutto il film è pervaso della dimensione biblica, di citazioni dall’antico testamento, di quello Havèl havalím, vanità delle vanità o – come Ceronetti traduce- «fumo di fumi / Polvere di polveri / tutto fumo / polvere» (Qohélet o l’Ecclesiaste, Einaudi 1988, 1,2). Davvero la vita dei mafiosi che sparano e di quelli che decidono a chi e perché sparare è «orrore / Perché per me è tutto male / Qualsiasi cosa si faccia sotto il sole (2.17).
In questo film, come nel Qohélet, la donna è «amara più che la morte» (7.26) e il mangiare-bere-godere è l’«unico bene dell’uomo» (2.24). Se qualcosa si vuol pur capire, è meglio non attribuire colpa al mondo o al dio e comprendere, invece, che «dal cuore dei figli d’uomo / Trabocca il male» (9.3), che se una sapienza è possibile essa sta nel comprendere l’insignificanza degli umani e il loro limite in un universo perfetto nella sua indifferenza. Certo, forse al crescere della conoscenza «più grave si fa il tormento» (1.18) e tuttavia soltanto uno sforzo di sapienza può diradare un poco le tenebre del mondo. Quella sapienza che è più forte delle armi e di ogni semplice violenza, sapienza che è anch’essa un’ombra ma che «illumina il viso» (8.1) ed è «la vita di chi vive per lei» (7.12).
Nella sua ignoranza e rozzezza Matteo percepisce e sente la verità di ciò che legge nel Qohélet, soprattutto percepisce e sente che «felice» è chi «ancora non è stato», ancora non è nato e meglio sarebbe che non nascesse (4.3).

Il finale della storia conferma che latitanze di decenni dei mafiosi sono possibili soltanto perché le istituzioni della Repubblica non costituiscono l’altro di Cosa Nostra ma sono una loro espressione. Per chi conosca anche solo da lontano e per fugaci occasioni qualche mafioso, appare del tutto evidente che si tratta di persone inconsistenti, rozze, quasi analfabete, di pecorai arricchiti, di individui senza strumenti che non siano un’arma in mano. Persone che la forza militare e giuridica di uno Stato contemporaneo non avrebbe nessuna difficoltà a spazzare via. Se invece costoro controllano ancora territori ed economie è perché godono della protezione di imprenditori, forze dell’ordine, magistrati, presidenti di amministrazioni, presidenti del consiglio, presidenti della repubblica. Soggetti, questi ultimi, che non sono l’altro della mafia ma sono la mafia, come la vicenda della cosiddetta «trattativa» ha confermato.
Disperante da pensare e da dire? Forse. Ma non per un siciliano, che tutto questo lo vede – se lo vuole vedere – da quando è nato. E io lo vedo. Meravigliosa l’interpretazione di Elio Germano come Matteo ed è sempre una gioia vedere recitare Toni Servillo, qui nei panni del sindaco complice e traditore del capomafia.
A Matteo il padre aveva affidato un «pupo», un antico bronzo greco, raccomandandogli di non venderlo mai, di tenerlo sempre con sé. Simbolo, forse, di ciò che l’Isola è stata nei millenni che hanno eretto i templi agrigentini, Segesta, Selinunte, luoghi dove la mafia di Sicilia è oggi ancora padrona. Emblema di una Sicilia libera certo non dal male (questo da nessuna parte è possibile) ma da un male così rozzo, così inutilmente feroce, così insipiente, come quello di Cosa Nostra.

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