Skip to content


Clima

Clima e antropologia
Daniele Vita
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXXI – numero 84 – marzo 2025
pagine 30-39

Il portfolio che ho analizzato in questo numero di Gente di Fotografia ha come titolo RCP 8.5, con riferimento ai ‘Percorsi Rappresentativi di Concentrazione (Representative Concentration Pathways, RCP)’ che cercano di immaginare il futuro del clima, con particolare riferimento alle concentrazioni di gas serra. Il fotografo Daniele Vita ha chiesto la consulenza di alcuni docenti universitari, i quali non hanno avuto difficoltà a confermare gli scenari apocalittici tramite i quali nella comunicazione contemporanea si cerca (con ottimi risultati) di far passare determinate visioni dei problemi, funzionali di solito a robusti interessi economici.
In realtà, non è affatto vero che ci sia accordo tra gli esperti sulla questione climatica. Anche questa è una bugia mediatica. Esistono studi e ricerche che riconoscono senz’altro che sono in atto alcuni cambiamenti climatici ma anche che, prima di tutto, la presenza della CO2 è vitale per l’esistenza e l’attività biologica dei vegetali e soprattutto che le cause più profonde di tali mutamenti non sono antropiche ma: 1) riguardano cicli di riscaldamento e raffreddamento i quali sono del tutto costanti e ripetuti nella vita del nostro pianeta; 2) hanno a che fare anche con la variazione dell’attività magnetica del Sole (la quale ha sempre inciso a fondo sul clima terrestre).
In ogni caso, Vita ha scelto per le sue immagini
una sovraesposta tonalità giallo-grigia molto efficace per dare rilievo all’assenza delle acque negli invasi, nelle fontane, nei fiumi; una tonalità che accentua il peso, sì proprio il peso fisico, della canicola sugli uliveti e sulle altre coltivazioni; che dipinge il latifondo arcaico della Sicilia nella sua immemoriale assenza di vento, di vita; che lascia le strade di borghi e paesi alla loro solitudine nell’ora panica, quella nella quale un imprevedibile dio può improvvisamente apparirci ed è meglio quindi rimanere nella sicurezza delle nostre dimore, lasciando che sulle strade si espanda l’inquietudine meridiana.

Catania

Che piacere si prova a vivere dentro una pattumiera? Questo piacere deve in qualche modo esistere, dato che è quanto accade alle più di trecentomila persone che abitano un luogo che si chiama Catania e alle altre migliaia che vi arrivano per lavoro.
Spazzatura dappertutto, spazzatura ovunque, spazzatura a monti, spazzatura sparsa. Spazzatura.
La raccolta differenziata è in questo luogo ovviamente una finzione. Il Capitolato speciale di appalto (2021) disciplina in modo assai analitico 

«i rapporti contrattuali che dovranno intercorrere tra la Stazione Appaltante e l’Appaltatore dei servizi integrati di igiene urbana della città di Catania per 7 (sette) anni dalla data di sottoscrizione del verbale di consegna», tanto che «l’operatore economico che risulterà aggiudicatario della gara (nel seguito “Appaltatore”), dovrà osservare integralmente tutte le prescrizioni» (Allegato 1, p. 4). 

In tale documento si dice con ferma solennità, tra le tante prescrizioni, che «l’Appaltatore, pertanto, dovrà attenersi strettamente e principalmente a tutte le norme di legge […] in materia di igiene urbana, nonché in materia di prevenzione degli infortuni, di circolazione stradale, di tutela della salute pubblica» (Ibidem).
E invece l’Appaltatore è esso stesso a produrre sporcizia mentre i suoi mezzi praticano operazioni rumorose e inquinanti nel pieno Centro Storico, a ridosso delle mura del Monastero dei Benedettini (sede del mio Dipartimento).
Sono i mezzi dell’Appaltatore che percorrono in senso vietato le vie della città infrangendo in modo clamoroso le norme di sicurezza relative alla «circolazione stradale».
È l’Appaltatore che non pratica «lo scerbamento giornaliero», «il lavaggio stradale» e «giornalmente, lo sfalcio e il diserbo meccanico della vegetazione spontanea sui marciapiedi, lungo i muri di recinzione e i prospetti degli edifici»  (Ivi, pp. 6 e 8), come possono constatare tutti i catanesi, con l’erba che affiora ovunque così come la puzza.
E chi permette all’Appaltatore di ricevere il danaro proveniente dalle tasse dei cittadini senza svolgere il servizio per il quale è pagato? Lo permette il Comune di Catania, dato che, recita l’art. 10 del Capitolato a p. 13,

«la vigilanza ed il controllo della corretta esecuzione dei servizi affidati in appalto compete al RUP con l’ausilio del DEC ed al suo ufficio, con la più ampia facoltà e nei modi ritenuti più idonei, previsti dalla normativa vigente. L’attività di controllo dell’appalto da parte dell’apposito Ufficio CSAT avverrà con l’utilizzo dei Sorveglianti ed eventuale altro personale dedicato». 

Il Capitolato comprende una minuziosa tabella con le «penalità per disservizi e inadempienze» che l’Appaltatore dovrà sborsare per ogni minima infrazione (pp. 16-17), tabella che mi ha irresistibilmente ricordato le grida solennemente lette dall’Azzeccagarbugli a Renzo Tramaglino.
Si parla persino (non manca proprio niente) di «contegno scorretto nei confronti degli utenti e/o del pubblico» (p. 18), contegno che consiste in urla sconsiderate degli addetti dalle cinque del mattino in poi; si parla di «tecnologie GIS per la vigilanza sui percorsi degli automezzi» (p. 21); contegno che in questo caso consiste nel percorrere contromano i sensi unici, con grave rischio per gli altri automobilisti. Questo «contegno» viene da tali tecnologie registrato? Penso proprio di sì ma i vigilanti non vigilano.
Ci sarebbero insomma tutti gli elementi per applicare l’articolo 27 del Capitolato che stabilisce la risoluzione da parte del Comune di Catania «qualora l’Appaltatore si sia reso o si renda colpevole di frode, grave negligenza e grave inadempienza nell’esecuzione degli obblighi contrattuali» (p. 24). Ma al Comune di Catania tutto questo va bene, chissà perché…

Metto a disposizione anche l’ampio testo del Piano d’intervento predisposto dal Comune di Catania (Allegato 2): un documento bellissimo, analitico (si fanno calcoli strada per strada per tutte le vie di Catania!), ricco di immagini e tabelle, redatto con un linguaggio anche raffinato:  

«Progettare ed organizzare in modo razionale e moderno un servizio di spazzamento stradale, [però qui la virgola non ci voleva, n.d.r.] significa utilizzare le diverse unità di lavoro unicamente nelle operazioni a loro più confacenti e, soprattutto, integrandole in vario modo, al fine di attivare quelle sinergie che producono servizi di qualità nel rispetto dei principi di efficienza, efficacia ed economicità» (p. 79). 

La corrispondenza tra tali formule e la realtà effettuale potrà essere verificata da ogni cittadino e abitante di questa città.
Nel Piano d’intervento si legge ad esempio che: 

«i cestini presenti sul territorio saranno svuotati dagli addetti alle attività di spazzamento. In concomitanza con la rimozione dei sacchi dai cestini saranno ripristinate le condizioni di decoro urbano nell’area circostante e sarà sostituito il sacco pieno con sacco vuoto. Le attività saranno svolte in concomitanza alle attività di spazzamento stradale dalle stesse maestranze» (p. 138). 

Ma certo, ma certo, lo vediamo tutti, ogni giorno…

Il comportamento omissivo e complice dell’Amministrazione comunale non spiega però da solo la puzza e lo schifo nelle quali Catania è immersa. Visito con regolarità i comuni della provincia, le cui Amministrazioni non sono in media diverse e meno cialtronesche rispetto a quella del capoluogo. E tuttavia, ad esempio, a Randazzo, Mineo, Militello, Caltagirone e anche nel mio paese (Bronte) le strade sono pulite in modo almeno accettabile.
E pertanto la questione non è soltanto amministrativo-politica; la questione è sociale. Detto in modo brutale: la media dei catanesi è sporca, la media dei catanesi vive nella lordura come se fosse un fatto naturale. Lo testimoniamo migliaia di immagini, tra le quali quelle che aprono e chiudono questo testo.
Un amico coetaneo, nato a Catania e che bene la conosce, definisce questa città «un carcere sporco»; uno studente mi scrive che «Catania è veramente un cassonetto della spazzatura che come tale si tratta senza rispetto. Una città pattumiera che si salverà soltanto smaltendosi, proprio come un rifiuto indifferenziato».
Aggiungo io che a volte si ha la tentazione di utilizzare le formule goliardiche di chi grida «Forza Etna!» Ma in quel caso molti catanesi avrebbero il tempo di trasferire altrove la loro lordura interiore.
So benissimo che la questione non è morale o moralistica, come potrebbe apparire dal tono che sto utilizzando. La questione è sociale ed è storica, tanto è vero che durante il confino (il cosiddetto lockdown) al quale il governo Conte costrinse gli italiani, anche i catanesi obbedirono non uscendo più di casa.
Frutto della loro storia di sottomissione e servitù, non pochi catanesi si credono «spacchiusi» ma sono soltanto dei poveri «pirla» per dirla alla nordica o sono dei servi sciocchi per dirla in modo neutrale. Soltanto un servo abituato a vivere in mezzo alla miseria può infatti ritenere normale muoversi immerso nella spazzatura.
In alcuni angoli della città ho letto dei gentili e malinconici cartelli che invitano a non lasciare i rifiuti sui marciapiedi, utilizzando lo slogan «Lasciamo Catania pulita». Io toglierei l’aggettivo: «Lasciamo Catania».
È quello che suggerisco ai miei nipoti e anche ad alcuni miei allievi. Io completerò la mia attività di docente nell’Università dove ho in parte vissuto quella di studente universitario. E cercherò di farlo con tutta la dedizione possibile. Ma sono ben contento di non essere cittadino di Catania e di non dover più percorrere, finito il mio lavoro, le sue luride strade.

[Questo articolo è uscito su girodivite.it: Catania. Teoria e prassi della spazzatura]

Antropologia omerica

Antropologia omerica
in Dialoghi Mediterranei
n. 72, marzo-aprile 2025
pagine 41-45

Indice
-Il canto
-La guerra
-Un poema vivo
-La Μοίρα, gli dèi

Dall’Iliade si impara l’essenziale. Si impara che ciò che chiamiamo bene e male, colpa e merito, vizio e virtù, è uno strato superficiale e derivato di una natura umana che non soltanto è costituita e pervasa di passioni unitarie e comuni a tutti – a differenziarci è la loro diversa mistura in ciascuno di noi – ma che è soprattutto guidata da forze sulle quali gli umani non esercitano alcun controllo, la forza di Ἀνάγκη, della Necessità.
Il principio, quasi propedeutico a ogni altro, che dietro gli eventi e le scelte degli umani operi sempre un intervento divino, si articola nei nomi plurali e fascinosi delle divinità olimpiche, tanto che è davvero facile vedere e mostrare come l’intera trama dell’Iliade sia «concepita e determinata non dagli uomini, ma dagli dèi» e però tali divinità personali e plurali rimangono anch’esse, compreso Zeus, sottoposte al supremo ordine della Μοίρα. 

La promessa

Friedrich Dürrenmatt
La promessa
(Das Versprechen, 1958)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Silvano Daniele
Einaudi-Gallimard, Torino 1993
Pagine 307-425

Un commissario di polizia del cantone di Zurigo, Matthäi, sta per partire per la Giordania, dove è stato incaricato di addestrare i poliziotti locali. Gli si presenta un ultimo caso: una bambina, Gritli Moser, è stata uccisa in un bosco non lontano da casa, con un rasoio che ne ha fatto scempio. Lui stesso dà la notizia ai genitori e davanti alla reazione disperata e animalesca della madre le promette di trovare l’assassino. Sottoposto a un interrogatorio di venti ore, un ambulante confessa e poi si uccide. Il caso sembra dunque chiuso ma Matthäi è convinto che il vero assassino sia ancora in libertà e potrà uccidere altri bambini. Ossessionato da questa ipotesi, rinuncia a partire, viene licenziato dalla polizia, inizia a indagare privatamente. Da uomo freddo, efficiente e razionale che era, Matthäi scende in un gorgo di tormento e di assillo che non gli darà più pace.
Questa vicenda viene raccontata allo scrittore dal dirigente superiore di Matthäi, con un finale che qui non va ovviamente svelato ma che conferma per intero la ferocia e la pochezza, l’assurdo e la miseria degli umani, che Dürrenmatt narra e descrive con la consueta implacabile lucidità e con dolorosa ironia.
«Delitti ne accadevano sempre» (p. 360), anche per mano di persone psicologicamente distorte, la cui «capacità di resistenza che possono opporre ai propri impulsi», dichiara uno psichiatra, «è anormalmente scarsa, basta maledettamente poco, un ricambio materiale un po’ alterato, qualche cellula degenerata, e l’uomo è una bestia» (376). Lo scrittore non si astiene dal consueto paragone con gli altri animali, con ‘le bestie’, che se può valere per i nostri cugini primati o per le formiche (insetti veramente feroci) e per alcune specie di uccelli, non è corretto per la stragrande maggioranza dei viventi, i quali praticamente mai uccidono per follia o per sadismo ma quasi soltanto per difendere o acquisire territorio, femmine e risorse. Le bestie, come è evidente, siamo noi.
E se i cittadini sperano in media che la polizia sappia mettere ordine nel mondo, il dottor H. – colui che narra allo scrittore la vicenda e dunque poliziotto egli stesso – ritiene di non poter «immaginare nessuna speranza più pidocchiosa di questa» (314). Spesso, anzi, le ‘forze del disordine’ sono esse stesse espressione del male, come si constata ovunque ogni giorno. Né le polizie né le religioni o le morali hanno mai potuto redimere la «maledetta commedia da cani» (403) che è l’esistenza collettiva degli umani. E anzi religioni e morali contribuiscono fattivamente al dolore del mondo, con le loro intolleranze e presunzioni, con le loro autentiche follie.
L’umano non può essere redento, in quanto «aus so krummen Holze, als Woraus der Mensch gewacht ist, kann nichts ganz Gerades gezimmert Werden», «da un legno storto, come quello di cui l’umano è fatto, nulla si può trarre di perfettamente dritto’» (Kant, Ideen zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (1784), in «Gesammelte Schriften», Berlin 1910, vol. VIII, p. 23). Un modo per temperare la stortezza/stoltezza di questa specie è capirne la natura e accettarne la struttura finita. Non soltanto come destino mortale ma in quanto dispositivo che produce morte. Come afferma ancora una volta il dottor H., «Siamo uomini, dobbiamo tenerne conto, armarci contro questa realtà, e soprattutto avere ben chiaro in mente che riusciremo a evitare il naufragio nell’assurdo, che per forza di cose risulta sempre più netto e schiacciante, e a costruirci su questa terra un’esistenza abbastanza confortevole, solo incorporandolo tacitamente nel nostro pensiero» (412).
A risolvere il caso dell’assassinio della bambina Gritli Moser è una vecchia che si trova in punto di morte ma ciononostante è assai vivace. È lei a raccontare al dottor H. che cosa sia veramente accaduto. Tra le tante premesse che pone al suo resoconto c’è la singolare tesi «che anche il male, l’assurdo  succede come qualcosa di altrettanto straordinario che il bene» (420-421).
Da gnostico qual è, Dürrenmatt sa infatti che il male e il bene sono strutture acquisite, derivate, provvisorie e cangianti. E che la sostanza degli uomini, il loro male, sta invece nella loro nascita.

Gadda, il guerriero

Gadda, la guerra, la nazione
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
18 febbraio 2025
pagine 1-7

In Carlo Emilio Gadda, nella sua idea del mondo, non c’è posto per gli infingimenti, per le illusioni, per i sentimentalismi ‘umanitari’. Lo testimonia un esplicito brano, che Gadda scrisse anche se poi preferì non pubblicarlo: «Io non ho mai avuto sentimenti umanitarî, né in guerra né in pace, pur essendo molto sensitivo al dolore e alla miseria degli altri e anche alla gioia degli altri». Espressamente enunciata è invece una formulazione che della guerra mostra le innate radici nell’umano e nelle sue società: «Le armi Caino ferocemente le impugna: e talora anche contro alla nostra filantropia».
Ovunque e sempre nei suoi scritti – direi tratto caratterizzante l’intera sua opera – Gadda non ha inteso ‘migliorare il mondo’ ma ha voluto descriverlo nella sua realtà spesso surreale e divertente così come spesso è insensata e feroce: «essendo io un rètore, amo le scritture compiute e non amo gli edificanti stralci». Nessuna scrittura edificante, no, ma la descrizione di ciò che necessariamente consegue da una verità metafisica quale è il tempo che tutto intesse, involve e vince, al modo in cui anche Petrarca sa dirlo: «Così ’l Tempo triunfa i nomi e ’l mondo». Con densità ed efficacia simile a queste, Gadda scrive che «gli umani, nella brevità storica della lor vita, sono il sostegno efimero del divenire».
Eφήμεροι e patetici, con la pretesa – in alcune filosofie ed epistemologie – che  il divenire immenso (miliardi di anni) della materia, delle galassie distanti miliardi di anni luce, degli oceani terrestri, delle lave dell’Etna, tutta questa magnifica potenza dipenderebbe per esistere (non per essere semplicemente conosciuta dall’umano ma proprio per esistere) da quella dimensione parzialissima e insignificante che è la coscienza  di una entità abitante da pochi anni un periferico pianeta di una delle innumerevoli galassie che compongono il cosmo. Pretesa formulata da una entità, l’umano, frutto del tempo (come tutto), la cui vita è intramata di limiti, sofferenza, patologie, ed è destinata in un batter di ciglia a sparire.

 

Un paradigma ontocentrico

Prefazione a:
È il nascere che non ci voleva
Storia e teoria dell’Antinatalismo

di Sarah Dierna
Mimesis 2025
Collana «Eterotopie», pp. 358
Pagine 11-16

Quarta di copertina:
«Il tema che questo libro affronta è certamente antico: il senso e il significato dello stare al mondo. E tuttavia i concetti analizzati, le modalità di indagine, la prospettiva dalla quale la questione viene posta, discussa, affrontata e risolta sono nuovi. Essi costituiscono anche il risultato della rottura dei confini disciplinari, di specialismi spesso utili ma altre volte sterili, di uno sguardo sull’umanità e sulla storia disincantato e insieme partecipe. La prospettiva antropodecentrica proposta da Sarah Dierna si fonda sulla distanza, sulla necessità di affrontare l’Antinatalismo sine ira et studio e con una pluralità di riferimenti alla storia della cultura, alla storia delle religioni, alle letterature e alla filosofia. Prospettive che vengono articolate in un percorso, dai Greci sino al XXI secolo, che impressiona per la ricchezza dei riferimenti, per la sobrietà dell’argomentare, per la chiarezza e la plausibilità di concetti e pratiche che si aprono a ulteriori sviluppi».

Aggiungo che la tesi filosofica che va sotto il nome di Antinatalismo riceve in questo libro (per la prima volta in Italia) una sistematizzazione che è insieme storica e concettuale. In tal modo Sarah Dierna offre al dibattito culturale, etico e antropologico un contributo di sicuro valore scientifico e di grande fecondità teoretica.

Puglia

La Puglia vista dai fotografi dell’Agenzia Magnum
Lecce  – Fondazione Biscozzi-Rimbaud
A cura di Walter Guadagnini
Sino al 5 gennaio 2025

In una piazzetta, accanto a una delle centinaia di chiese che formano il tessuto urbano di Lecce (la chiesa delle Alcantarine), ricavata dal restauro assai sapiente di un antico palazzo, la Fondazione Biscozzi-Rimbaud è uno dei più rigorosi e piacevoli musei d’arte contemporanea che abbia visitato. Attraversando i suoi spazi, salendo per le scale, ammirando la luminosa collocazione di ogni opera, si comprende che l’arte del secondo Novecento non è soltanto truffa, fuffa, narcisismo e «sistema» (lo è in gran parte) ma può costituire – come sempre l’arte fa – anche una espressione profonda della dolente geometria che dalla Prima guerra mondiale in avanti fa del mondo un luogo che è insieme matematico e feroce. Emerge e appare soprattutto una grande pulizia formale nelle opere raccolte dai coniugi Luigi Biscozzi e Dominique Rimbaud. E questo al di là dei nomi (Burri, Melotti, De Pisis e soprattutto Licini), delle correnti, delle tendenze che il museo accoglie e testimonia. Tutte sembrano avere in comune il respiro di una geometria della vita.

Osvaldo Licini, Notturno

Il Museo ospita sino a domani (5.1.2025) una raccolta di immagini che dodici fotografi dell’Agenzia Magnum hanno dedicato alla Puglia dal secondo dopoguerra al presente. 35 fotografie che parlano dell’antropologia, dell’architettura, della miseria, della bellezza che intesse le città, la terra, il mare. E che mostrano quale tesoro di storia, identità, tradizioni, miti sia questa regione. Emblematica è un’immagine di Burt Glinn del 1963. Si intitola semplicemente Bari: tre donne e un uomo, vestiti di scuro. Due di loro emergono come dalle tenebre domestiche, l’uomo è scolpito sullo sfondo chiaro di un muro. La terza donna, seduta, sembra una Parca che fila, aspetta, tronca. Nessuno dei loro sguardi si incontra. I corpi si concentrano tutti nelle mani, in gesti che costituiscono un lungo parlare. Un braccio è diretto verso l’alto, due mani indicano il divenire, altre mani più in basso accolgono il comando. Le ultime sono pronte a recidere. Sono dei corpimito. Stupefacente.

Burt Glinn, Bari (1963)
Vai alla barra degli strumenti