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Ontologia e realtà

Nicolai Hartmann
Ontologia e realtà
(Zum Probleme der Realitätsgegebenheit, Pan Verlag, Berlin 1931)
Traduzione di Giuseppe D’Anna e Renato Pettoello
Scholé-Morcelliana, Brescia 2021
Pagine 246 

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Durante la riunione plenaria della Kant-Gesellschaft del 28 e 29 maggio 1931 Nicolai Hartmann tenne una relazione che suscitò un dibattito ampio e vivace, al quale presero parte decine di filosofi, sociologi, giuristi, con adesioni e critiche alle quali Hartmann puntualmente rispose. Questo volume raccoglie i documenti di quell’evento, che fu particolarmente significativo ed eclatante poiché il filosofo espose in modo sintetico ma chiaro il primato dell’ontologia rispetto a qualunque gnoseologia. Un primato fondato sul fatto che gli enti esistono e accadano prima di ogni conoscenza e indipendentemente da essa. Non è infatti «possibile conoscere a piacimento, come invece si può pensare o rappresentare a piacimento. Si può conoscere soltanto ciò che ‘è’; vale a dire: ciò che sussiste anche indipendentemente dal conoscere, cioè ciò che è ‘in sé’» (69-70). Il senso, la densità, la razionalità del reale si manifestano nell’«indipendenza dall’enunciato e l’essere non è completamente assorbito dall’essere oggetto» (218).
Come si vede, si tratta di una vera e propria svolta copernicana rispetto al kantismo. E qui la metafora è del tutto corretta, poiché non assume il significato capovolto con il quale Kant la utilizzò nella Kritik der reinen Vernunft, qui davvero – come appunto nel copernicanesimo – l’umano perde la sua centralità rispetto al Sole della realtà. Non è il reale a girare intorno alla mente umana ma è la conoscenza umana a essere parte di un sistema fisico e simbolico assai più vasto del corpomente di una delle tante specie che abitano un irrilevante pianetino. Questo, e non quello kantiano, è un vero gesto di umiltà teoretica e antropologica, che esclude qualunque fantasiosa e mai avvenuta ‘produzione’ del mondo da parte di uno dei suoi enti.

Per usare il linguaggio della Scolastica, si tratta di percorrere l’intentio recta della dipendenza della conoscenza dal mondo e non l’intentio obliqua della dipendenza del mondo dai modi di conoscere di una delle tante specie animali. La realtà, in sintesi, è enormemente più vasta della dimensione soggettiva e umana che cerca di conoscerla. E anche per questo la conoscenza è e sarà sempre finita. Il che non vuol dire, anzi implica, che si debba cercare di estenderla quanto più possibile, sempre però con il rigore di un metodo e di una prospettiva che siano consapevoli del fatto che i pensieri non producono la realtà, del fatto che ogni volontà di potenza spiritualista e idealista è segno di un dolore e di un limite che non si riesce a cancellare.
E infatti Hartmann insiste molto sulla struttura della conoscenza come un’esperienza che continuamente colpisce la persona umana con delusioni, dolori, lutti, sui quali non abbiamo alcun dominio: 

Il colpire viene sentito particolarmente nella ‘sofferenza’. Se ricevo un colpo violento o una percossa fisica sono rudemente istruito, al di là di qualsiasi argomento, sulla realtà di ciò che percuote o colpisce. […] Nel soffrire, questa rappresentazione, o più esattamente la certezza della realtà di ciò che ha percosso, è data altrettanto immediatamente del dolore. E quindi non la si può mettere in nessun modo in discussione. La riflessione sul rapporto causale è invece tutt’affatto secondaria. Che manchi o sia presente, non può cambiare più nulla nella certezza della realtà avuta in precedenza (84). 

Se davvero lo spirito producesse il mondo perché lo produce in modo per sé così negativo? Si tratta forse di uno spirito masochistico?
Il reale resiste in modo tranquillo e totale all’attività dei viventi e ai loro pensamenti. Agire e pensare che trasformano, è vero, alcuni particolari del mondo ma non ne determinano certo né mutano le leggi. A partire dalle leggi fisiche, chimiche, astronomiche, biologiche. Se queste ultime fossero una produzione del Geist, il Geist riuscirebbe certo a eliminare il declino della vita, la sua finitudine di fondo e il decesso a un istante dato. Di più: declino, finitudine e decesso non accadrebbero.
Si tratta, come si vede, di una saggia lezione di antropodecentrismo, di un rimembrare l’evidenza della durezza e della inesorabilità dell’accadere: 

Questa inarrestabilità degli eventi è sentita dall’uomo come il suo destino – un sentire, che si deve comprendere in base alla sua struttura, senza ricorrere a miti o ad idee antropomorfiche sull’ordine dell’universo. […] Ciò di cui noi facciamo esperienza costantemente in questo corso non è nient’altro che la generale ‘durezza del reale’, alla quale non possiamo contrapporre nulla. E questa sensazione di essere abbandonati ad essa è l’incessante, nuda attestazione in noi della realtà dell’accadere, che ci accompagna passo passo nella vita (86-87).

Il mondo non è ‘mio’. Il mondo non è una mia rappresentazione, come vorrebbe Schopenhauer. A essere una ‘rappresentazione’ è la mia reazione a esso e alle sue leggi. Il mondo non è un mio atto, ma di esso è parte il mio tentativo di plasmarlo secondo i miei desiderata (con risultati sempre del tutto parziali e limitati). In generale il mondo «non è affatto ‘mio’, bensì sussiste indipendentemente da me. E questa indipendenza è la sua realtà» (nota 7, p. 229). In generale, e ancora una volta, per un ente, per un evento del mondo, per un processo della natura, «è evidentemente del tutto indifferente se e in che misura esso diventerà oggetto di conoscenza. Esso sussiste così com’è, in sé» (71).

Ha dunque ben compreso uno degli elementi chiave dell’ontologia di Hartmann René Kremer, il quale commentò giustamente che «sarebbe desiderabile che un filosofo, per quanto sia un uomo raffinato ed un pensatore sistematico, confermi e spieghi ulteriormente, mediante la sua riflessione, la concezione spontanea degli uomini effettivamente viventi» (190). Il senso comune ha infatti molti limiti ma sono gli stessi limiti dogmatici che caratterizzano anche le filosofie spiritualiste e idealiste. Un primo passo verso un loro superamento è prendere atto che ogni atteggiamento umano sul mondo è appunto un atteggiamento umano rispetto al quale il mondo gode di piena e costante autonomia.
Con la consueta chiarezza e precisione, Hartmann afferma che il filosofo non deve decidere, stabilire, imporre volontà e desideri alla realtà, «egli deve accettare e capire» (220). Detto in modo più articolato, lucido e anche drammatico, 

l’impresa di portare la realtà umana, spirituale e storica, lungo una linea comune con la realtà delle cose, si è scontrata con la resistenza di molti, benché nessuno di noi conosca altro, nel corso  della sua propria vita. Ciò che ci manca è pur sempre la vicinanza alla vita, il proprio radicamento nella pienezza del reale stesso. Troppo a lungo il pensiero si è immaginato di potersi librare nell’aria. […] Il nuovo ethos della filosofia ci chiede il contrario: il filosofo deve imparare a vivere, per poter veramente filosofare (233-234).

Si tratta dunque di continuare a praticare – cercando di andare al di là delle pretese e dei pregiudizi delle metafisiche del soggetto cartesiana e kantiana – la filosofia come apprendimento della realtà in modi che sono nostri ma di una realtà che esiste in modi da noi indipendenti: «la dottrina dell’‘ente in quanto tale’ è la naturale philosophia prima» (113).
Ogni volta che il pensiero accetta con serenità l’autonomia del divenire esso esercita sul reale il massimo delle proprie possibilità, esso è sulla strada del proprio compito, con grandi potenzialità e invalicabili limiti rispetto alla complessità dell’essere.

Biotecnologie

Biotecnologie e antropodecentrismo
in Tecnica e coesistenza. Prospettive antropologiche, fenomenologiche ed etiche
A cura di Lorenzo De Stefano
Quaderni di Mechane, volume n. 2
Mimesis, 2024
Pagine 149-156

Indice
-Etoantropologia
-Sperimentazione animale
-Biotecnologie

In questo saggio, frutto della relazione che presentai a un Convegno tenuto a Napoli nel settembre del 2021, ho cercato di delineare alcuni elementi essenziali dell’antropodecentrismo a partire dall’etoantropologia, vale a dire dalla piena continuità tra l’animale umano e gli altri animali. Su tale base perdono ogni legittimità e ogni significato scientifico e ontologico sia le vecchie pratiche di ‘sperimentazione animale’ come la vivisezione sia molte delle nuove biotecnologie, le quali non comprendono che ogni animale ha il proprio modo di stare al mondo, le proprie specificità etologiche, la propria struttura percettiva e situazione spaziotemporale. In una parola la propria Umwelt, lo spaziotempo che ogni vivente consapevole non si limita ad abitare ma lo spaziotempo che è. Tutti elementi che le biotecnologie cancellano imponendo alla vita animale e al singolo vivente strutture spaziali e ritmi temporali del tutto artificiali, estranei alla specificità etologica dell’individuo e della specie.
L’animalità è trasformazione, certo, è ibridazione, scambio, flusso ma tutto questo ha senso e conduce a risultati adattivi nei tempi lunghi dell’evoluzione. Non esiste invece trasformazione, ibridazione, flusso quando le trasformazioni genetiche vengono «mediate dalle tecnologie che sono state imposte agli animali in laboratorio praticamente da un giorno all’altro (secondo i parametri evoluzionistici)» (Zipporah Weisberg).
Chi, anche in ambito postumano se non addirittura animalista, guarda con favore le biotecnologie in quanto nemiche dell’essenzialismo – una vera ossessione per molto ambientalismo progressista – non sa quel che dice, non si rende conto che difendere l’essenza degli enti – sempre dinamica, certo, come tutto ciò che esiste – significa salvaguardare gli enti dalla manipolazione arbitraria e dalla distruzione interessata. Sempre Weisberg afferma giustamente che «i postumanisti tendono a romanticizzare il ruolo che la tecnologia ha nel ‘queerizzare’ e nel ‘trasgredire’ i confini tra umani, animali e tecnologie».
Le biotecnologie fondate sul mercato della vita sostengono che lo stare al mondo è una collazione di particolari; l’olismo fenomenologico ed etologico ritiene invece che ogni singola sensazione, dolorosa o piacevole che sia, ha senso e funzione soltanto all’interno di una complessiva struttura relazionale e adattiva, nella quale sono profondamente coniugati gli aspetti chimici, percettivi, neurologici.
In sintesi, le biotecnologie che riducono l’animalità a un’invenzione brevettabile costituiscono una pratica di sterminio e rappresentano il momento più basso delle relazioni tra l’animale umano e gli altri animali.
Le forze economiche del capitale e del suo feticcio per eccellenza – il mercato – non rinunciano mai da sole e spontaneamente al loro dominio. Se la situazione ecologica del mondo contemporaneo è questa, se «l’uomo non sa esistere se non attraverso il dominio», allora ha ragione Patricia Mac Cormack a stupirsi per «come gli ambientalisti possano ancora riprodursi, come i vegani possano ancora riprodursi e come gli ambientalisti possano non essere vegani» e a proporre una plausibile posizione estinzionista. Perché il punto sembra ormai questo: o noi o il pianeta vivente. Ma il pianeta può vivere senza l’umano, l’umano non può vivere senza il pianeta, nonostante la ὕβρις biotecnologica si illuda del contrario.
Forse è arrivato il momento per tutte le scienze di andare oltre il paradigma antropocentrico che accomuna creazionismi e tecnofilie, che coniuga religioni e scientismi, per volgersi verso un più ampio paradigma etoantropologico consapevole del limite delle risorse della Terra e della profonda relazione che tutti i suoi abitatori intrattengono tra di loro, come singoli, come società e come specie.

Cosmologie antropodecentriche

Deus. La sfera nera
(Deus. The dark Sphere)
di Steve Stone
Gran Bretagna, 2022
Con: Claudia Black (Karla Grey), David O’Hara (Ulph), Philip Davis (Vance)
Trailer del film

Gli ingredienti classici della fantascienza spaziale – enormi astronavi, il viaggio verso l’ignoto, un equipaggio variegato e al proprio interno in conflitto, una potenza enigmatica ad attenderlo – sono tutti presenti ma vengono declinati in una chiave particolare, che è l’inganno. Un inganno di natura teologica, psicologica, politica.
Vari elementi della sceneggiatura sono superflui o francamente improbabili ma la tensione rimane costante dal risveglio dell’equipaggio ibernato al finale che svela il mistero. C’è una scena, forse solo una, che è disvelativa di una verità che in ambito politico, saggistico, informativo rimane per lo più accuratamente occultata. Questa verità è che siamo troppi, che questo piccolo pianeta non potrà sostenere ancora a lungo il peso di una massa di più di 8 miliardi di esseri umani, destinati a crescere ulteriormente. Si tratta di un numero veramente spropositato. Un personaggio del film lo dice con chiarezza, traendone conseguenze che dovrebbero apparire agli occhi dello spettatore negative, e che in effetti lo sono in alcuni aspetti. Ma la verità dell’assunto rimane: il numero degli esseri umani deve diminuire. Devono diminuire soprattutto gli abitanti di continenti dalla fecondità spaventosa e ancora fuori controllo come l’Africa e parte dell’Asia. L’Occidente europeo e anglosassone è invece da tempo stabilizzato verso il basso ma viene invaso senza posa da milioni di persone, generando problemi enormi. L’auspicio è che anche altri territori del nostro pianeta inizino la china della diminuzione demografica.
È questa una prospettiva malthusiana? Non ho difficoltà ad ammetterlo, per la semplice ragione che se la popolazione aumenta con progressione geometrica e le risorse crescono con progressione aritmetica, l’esito che ne risulta è la guerra, la fame, la distruzione dell’ambiente.
Confidavo che la truffa del Covid19 avesse almeno un aspetto positivo, che diffondesse sterilità nei giovani umani che hanno allegramente e irresponsabilmente inoculato nei loro corpi sostanze sconosciute, ma sembra che per vedere gli effetti di tale inganno di massa, peraltro limitato in gran parte ancora una volta all’occidente, bisognerà aspettare a lungo.
E quindi alcuni dialoghi di questo film sembrano costituire un avviso forse involontario ma certamente concreto sul fatto che «c’era un piccolo pianeta meraviglioso che la dismisura di una delle specie che lo abitava ha ridotto a un luogo invivibile» o, come scrive Dürrenmatt ne La guerra invernale del Tibet, «la natura, per quanto ottusa, non rifarà probabilmente la sciocchezza di creare dei primati, il caso culminato nella creazione della nostra razza non si ripeterà, probabilmente. Con questi esseri futuri non è possibile parlare di noi, ma solo di qualcosa che riguardi loro e noi insieme: le stelle» (in «Racconti», trad. di Umberto Gandini, Feltrinelli 1996, p. 270).
Le stelle, lo spazio vuoto, la cosiddetta materia oscura della quale sembra composto gran parte dell’universo, le galassie, la luce. Soltanto questo era, è e sarà.

Per una filosofia antropodecentrica

Nell’ottobre del 2022 tenni un seminario nell’Università Cattolica di Milano, dal titolo Umanità, animalità, artificio .
Ringrazio ancora Roberta Corvi per l’invito e per la sua presentazione e ringrazio Massimo Marassi per essersi soffermato su quello che da autore ritengo il mio libro più importante, Tempo e materia. Una metafisica, evidenziando la centralità della somatica del tempo anche come strumento e forma di una necessaria modestia antropologica.
Metto qui a disposizione la registrazione audio (1 ora e 20 minuti) di quanto io e i miei interlocutori discutemmo in quella piacevolissima occasione.

 

Non siamo compartimenti stagni ma soglie di coniugazione.
Non siamo strutture permanenti ma entità che emergono dal flusso temporale.
Non siamo dispositivi autarchici ma scambi di alterità con tutto ciò che delimita i nostri corpi e che però li forma, li plasma, li nutre, li guida nell’ambiente, li significa nei simboli, li rende vivi, splendidi, mortali.
Non siamo freddezze che osservano il mondo, siamo invece bisogni che lo desiderano. Siamo cura verso noi stessi e verso gli altri, siamo reciproche coniugazioni di necessità e di doni. Siamo, in una parola, Mitsein.

Umanità

 

Tre notizie da Televideo Rai (19-20 marzo 2024), notizie tra le tante, notizie come sempre, notizie da millenni, notizie che mostrano e confermano con la chiarezza della sintesi che cosa l’umano sia, che cosa sia davvero.
L’umano è in gran parte – non del tutto, certo, ma appunto in gran parte – un grumo di profonda, istintiva, pura malvagità. L’umano è un animale non soltanto feroce ma di una ferocia anche sadica, vale a dire che gode, sinceramente gode, dei dolori che infligge e che vede. L’umano è un terrificante sterminatore di ogni altra specie animale; e infatti gli altri animali hanno ben imparato a guardarsi dall’essere umano: appena passiamo vicino a un gatto o a un cane randagio o a un uccello, questi subito si allontanano. L’umano è un’intelligenza posta in gran parte al servizio della guerra, della distruzione e della morte. L’umano, in sintesi, è non soltanto una nullità ontologica nel cosmo ma è anche un errore politico nella storia. L’umano è probabilmente una linea deviata e sbagliata dell’evoluzione animale, è un vicolo cieco.
L’umano è soprattutto la presunzione, l’arroganza e la ὕβρις di ritenersi, nonostante questa sua tenebrosa natura, «l’essere libero nel mondo della necessità, l’eterno taumaturgo, sia che agisca bene, sia che agisca male, la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico, il grande dominatore della natura e dispregiatore di essa, l’essere che chiama la sua storia storia del mondo!» (Nietzsche, Umano, troppo umano II. Il viandante e la sua ombra, in «Opere», IV/3, af. 12, p. 141).
Le tre religioni del Libro – ebraismo, cristianesimo e islam – costituiscono l’espressione parossistica di tale pretesa. Esse ritengono che l’umano sia l’immagine di Dio e persino che Dio stesso sia diventato un uomo e sia stato torturato e ucciso per lui, un’idea francamente sconcertante. In sintesi, esse ritengono che l’essere umano sia un’espressione del sacro, pretesa che è una bestemmia e un sacrilegio. Ritenere entità sacre quelle che sono capaci di compiere azioni di gratuita, totale e inemendabile ferocia come quelle da cui sono partito e milioni di altre azioni analoghe delle quali la vicenda umana è costellata, ritenere davvero che i miliardi di essere umani transitati nella storia siano tutti figli di Dio e per questo sacri, è un’affermazione la cui tracotanza, narcisismo e stupidità appaiono palesi a ogni sguardo razionale, umilmente razionale, ontologicamente antropodecentrico.
In realtà alcuni, pochi, essere umani sono una luce per sé e per gli altri. La più parte costituisce una struttura ontologica miserabile e perduta. Questa è una delle verità della Gnosi, una tesi antropologica che mostra ogni giorno e ovunque la sua plausibilità.
È anche partendo da qui che uno gnostico contemporaneo ha potuto scrivere che la morale cristiana, e religiosa in genere, così come la morale kantiana sono in realtà un’immensa fatica «per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi», una fatica volta a nascondere la radicale malvagità degli umani, la loro «sporca anima eroica e fannullona», una fatica volta a non capire «fino a qual punto gli uomini sono carogne», gli uomini, queste «bestie verticali» (Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio 1995, pp. 459, 21, 33 e 159). Sono fatti, eventi e circostanze come quelli ricordati sopra, il cui numero è incalcolabile, a darne costante conferma.
L’umano è un orrore che l’intera storia della specie attesta e mostra. Due recenti testimonianze (tra le innumerevoli che sarebbe possibile addurre), sono un video di denuncia realizzato dalla LAV – Lega Antivivisezione  che documenta l’inaudita crudeltà di due esseri umani contro un gregge di pecore e una come sempre pacata e implacabile riflessione di David Benatar dal titolo Un argomento misantropico per l’antinatalismo (testo pubblicato sul numero 29 di Vita pensata).
Ripeto: che una religione o un’etica possano definire i membri di una specie siffatta come tutti sacri o perché figli di un Dio o in quanto semplicemente esseri umani, è qualcosa che a uno sguardo disincantato e razionale appare non soltanto privo di ogni fondamento ma anche perverso. 

Lenin

Lenin epistemologo
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
23 febbraio 2024
pagine 1-8

I Greci, la Scolastica, Lenin e Heidegger per quanto diversi e tra di loro lontani sostengono una filosofia non idealistico-antropocentrica. Il corpomente umano è una parte della natura/materia, non è la natura/materia una parte del corpomente umano. Per questo bisogna «riconoscere l’esistenza delle cose, dell’ambiente, dell’universo, indipendentemente dalla nostra sensazione, dalla nostra coscienza, dal nostro Io e dall’uomo in generale» (Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo). A un secolo dalla morte di Lenin ho voluto mostrare in questo articolo quanto feconda sia la sua epistemologia per una comprensione oggettiva del reale e del luogo che vi occupa l’umano.

Evoluzionismo, un paradigma

Lunedì 12 febbraio 2024 alle 15.30 in occasione del Darwin Day terrò una relazione dal titolo Evoluzionismo, un paradigma. La sede è l’Orto Botanico dell’Università di Catania. L’evento è organizzato dal Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali e da quello di Scienze umanistiche.
Il titolo della mia relazione si riferisce al concetto epistemologico di paradigma come è stato proposto da Thomas Kuhn nel suo La struttura delle rivoluzioni scientifiche.
Nel 1970 il premio Nobel Jacques Monod affermava che all’origine di alcuni errori e insufficienze della teoria darwiniana «vi è naturalmente l’illusione antropocentrica. […] La teoria dell’evoluzione, lungi in un primo tempo dal dissipare l’illusione, sembrava anzi conferirle una nuova realtà facendo dell’uomo non più il centro, ma l’erede da sempre atteso, naturale, dell’intero universo. Dio poteva morire, sostituito da questo nuovo e grandioso miraggio. […] Si dovette giungere alla seconda metà del Novecento perché svanisse il nuovo miraggio antropocentrico innestato sulla teoria dell’evoluzione» (Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Mondadori 2022, pp. 44 e 45).
Nel XX secolo sono state elaborate ipotesi evoluzionistiche anche molto diverse rispetto a quelle classiche. La più nota e una delle più recenti è quella degli ‘equilibri punteggiati’ (punctuated equilibrium) di Gould e Eldredge, la quale presuppone una fissità di fondo delle specie interrotta da rapide mutazioni (‘rapide’ sempre in una prospettiva geologica).
Ma già Darwin, che non era affatto dogmatico, aveva rivisto la sua originaria teoria, ridimensionando la funzione della selezione naturale e del caso nella trasformazione dei viventi. Ancora Monod distingue il caso come viene inteso «nel gioco dei dadi o della roulette» dalle «’coincidenze assolute’, che risultano dall’intersezione di due sequenze causali totalmente indipendenti l’una dall’altra» (Il caso e la necessità, pp. 111-112).
Come  regolarmente accade (si pensi al dogmatismo degli aristotelici, ben diverso dalla curiosità critica e sempre aperta di Aristotele), i successori si trasformano spesso in discepoli, caratterizzati da una chiusura epistemologica che l’iniziatore della scuola avrebbe certamente respinto.
Una mia analisi del paradigma evoluzionistico si trova anche in un recente saggio dal titolo Evoluzionismo e cosmologia, pubblicato sul numero 14 (dicembre 2023) de Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee.

 

 

 

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