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Mente & cervello 87 – Marzo 2012

Bellissime le «istantanee dal cervello» presentate alle pagine 50-55 di questo numero di Mente & cervello. Sembrano davvero delle opere d’arte astratta e forse questo significa che l’arte concettuale è la più autentica forma di realismo, quella mediante la quale la mente umana rappresenta se stessa, la propria capacità di generare mondi, colori, forme.
Così potente e plasmabile è il cervello da essere continuamente sottoposto a tentativi di controllo e di manipolazione. L’agone politico, lo spettacolo e la pubblicità hanno esattamente questo scopo. Un nuovo strumento di dominio è la connessione costante che la Rete permette. Anche per suo tramite «veniamo sottoposti a una pubblicità onnipresente: questa distruttrice delle capacità attenzionali non è altro che un uso metodico, a fini commerciali, di astuti furti di attenzione» (C. André, p. 35). La dispersione mentale è uno dei rischi impliciti nel multitasking che caratterizza ormai i comportamenti di molti di noi: «La moltitudine di sollecitazioni rende invece carente la nostra mente: carente di calma, di lentezza, di continuità. Tre nutrimenti vitali per le capacità attenzionali» (Id., 36).

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Mente & cervello 81 – Settembre 2011

Che cos’è un rito? Come nasce? Quale funzione svolge? A queste domande cercano di rispondere da tempo discipline quali l’antropologia, l’etnologia, la sociologia della cultura, l’etologia. Un contributo importante può venire anche delle scienze della mente. Il ricco dossier di questo numero di M&C lo dimostra.
«Nella definizione dei rituali -specialmente di quelli che non riguardano la realtà quotidiana- spiccano di solito quattro caratteristiche fondamentali: ruolo del corpo, formalità, modalità e trasformazione» (A. Michaels, p. 54). A essere coinvolto in un rito è sempre l’intero corpomente in modi formalmente stabiliti e rigorosi, con modalità che differenziano lo stesso gesto se compiuto nel quotidiano o se invece inserito in una forma rituale, avendo come obiettivo una trasformazione di condizione interiore o di status comunitario.
I riti di iniziazione e di passaggio, ad esempio, sono tra i più importanti e prevedono tre fasi: di separazione dal luogo o dallo status precedente, liminale di transizione e di abolizione dell’ordine precedente, di integrazione nel nuovo luogo o nella nuova condizione. In generale, un rito fa parte di una ben precisa cultura e solo in quel contesto acquista il suo senso, si struttura in un linguaggio che spesso produce azioni -come quando un funzionario civile o religioso dichiara due persone marito e moglie-, ha una qualità estetica specifica e caratterizzante, segna una interruzione e un rallentamento del consueto flusso temporale attraverso il tempo della festa, del passaggio o del lutto. 

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Terra

Il dolore, per quanto sta accadendo a un popolo di antica eleganza e rigore come il Giappone, è profondo. Tra le immagini più impressionanti quelle del mare inarrestabile che invade di sé la terra con l’implacabilità di una potenza indiscutibile, potenza che soltanto un antropocentrismo ingenuo e patetico può far ancora definire -da non pochi giornalisti, ad esempio- come “irrazionale”. La Terra è il paradigma stesso della razionalità, col suo ordine cosmico dei movimenti di rotazione e di rivoluzione, di moto delle placche geologiche, di trasformazione costante e di entropia. Terremoti, tempeste, piogge, calore, sono assolutamente “razionali”. Irrazionali sono gli esseri umani, le civiltà, le amministrazioni, che costruiscono dighe su terreni franosi, impianti nucleari in zone sismiche, case su case alle falde di vulcani come l’Etna o il Vesuvio. Di tanto in tanto, la nostra grande Madre ci ricorda che siamo una specie come le altre, materia tra la materia, finitudine fatta di pianto e di hybris. Di diverso rispetto alle altre specie viventi abbiamo soprattutto la capacità di affrettare la nostra fine provocando Gaia a scrollarci da sé come quei fastidiosi e arroganti parassiti che siamo. Heidegger, filosofo della Misura, ci ha ricordato che «su questa terra noi rimaniamo insediati nel relativo» (Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi 2002, p. 218).

Narcisismo

I cristiani furono una setta aggressiva che minò l’Impero ma ne ereditò gli aspetti peggiori, come il gigantismo, la volontà di conquista, la tracotanza. Di tale dismisura è forma suprema l’idea che un Dio si sia fatto uomo e sia addirittura morto per la “salvezza” di questa specie insignificante posta su un pianeta qualsiasi dell’universo immenso. Con tali idee tanto balzane quanto arroganti ci siamo illusi di possedere uno status privilegiato rispetto a ogni altro essente. L’uomo, al contrario, non è altro che «una piccola specie animale ipertesa che -fortunatamente- ha fatto il suo tempo»; in generale, la vita sulla terra oltre che una malattia è una escrescenza dell’essere, un temporaneo incidente nelle cose, una insignificante eccezione priva di conseguenze: «la terra stessa è, come ogni astro, uno iato fra due nulla» (Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, 16[25]).

L’antichità pagana aveva invece ben presente l’insormontabilità del limite. E da tale consapevolezza nascono l’arte, la letteratura, la riflessione in Grecia e a Roma. Esemplare di questa differenza è la condanna che il cristianesimo pronuncia contro il suicidio mentre Plinio arriva persino a compiangere la divinità per il fatto che essa non può uccidersi. L’antropocentrismo cristiano -in qualunque forma venga declinato, che sia il lusso planetario urbi et orbi dei papisti romani o il perenne venerdì santo dei tristi riformati tedeschi- ha trasformato la casualità della specie in una necessità cosmica, ha preso così a cuore le vicende umane da costringere persino un Dio a morire per esse. Festeggiare la resurrezione del rabbi Jeshu-ha-Notzri è un atto di supremo e patetico narcisismo da parte dei mortali.

Il discorso vero

di Celso
(Αληθής Λόγος)
A cura di Giuliana Lanata
Adelphi, Milano 1987
Pagine 253

celso

Il testo di Celso (II sec. ev) -il cui titolo greco potrebbe essere tradotto anche come Il vero Logos– è giunto a noi perché Origene ne riporta numerosi brani allo scopo di confutare le accuse che lo scrittore rivolge al cristianesimo. Questa edizione curata da Giuliana Lanata è esemplare per correttezza filologica e cura della traduzione.
La molteplicità delle critiche di Celso può essere ricondotta ad alcune direttrici di fondo: difesa del paganesimo nei confronti della esclusiva pretesa salvifica che la nuova fede rivendica per sé; conferma della struttura deterministica e formale del mondo contro l’antropocentrismo e il materialismo cristiani; consapevolezza della incorporeità e serena imperturbabilità del divino platonico, i diversi nomi del quale e le differenti forme di culto scaturiscono tutti dalla stessa matrice. Il cristianesimo viene ricondotto alla misura di un culto che da un lato trae le sue cose migliori dalla grande tradizione sapienziale del mondo antico, dall’altro la adatta alla infima origine sociale e al fanatismo della maggior parte dei suoi adepti.
La fede nella resurrezione dei corpi appare al platonico Celso come una «pura e semplice speranza da vermi» (V, 14; pag. 108). Offrendo «sconsideratamente il loro corpo alle torture e alla crocifissione», i cristiani mostrano di «non amare la vita» (VIII, 54; p. 156), in ciò fedeli al loro maestro, privo di ogni lievità e autoironia: «e poi, quali azioni nobili e degne di un Dio ha compiuto Gesù? Ha disprezzato gli uomini, li ha derisi, ha scherzato su quel che gli accadeva?» (II, 33; p. 75). In tal modo, ciò che per i cristiani era ed è il privilegio di un Dio che si fa uomo, soffre e si immola, costituisce per Celso, e per il mondo di cui egli è espressione, la massima assurdità.
Altrettanto assurdo appare a Celso l’antropocentrismo che intesse l’intera tradizione prima giudaica e poi cristiana, nei confronti della quale il libro IV della sua opera pronuncia parole molto chiare. Ai cristiani i quali affermano che Dio avrebbe fatto l’intero universo per l’uomo, il filosofo risponde che «l’universo non è stato generato per l’uomo più che per gli animali privi di ragione» (IV, 74; p. 102). A conferma osserva che mentre gli umani devono inventarsi e costruirsi gli strumenti di caccia, altri animali ne sono dotati in misura superiore e innata. Aggiunge poi che «se gli uomini appaiono superiori agli esseri privi di ragione perché hanno costruito le cità e si sono dati una struttura politica e delle magistrature e dei governi, anche questo non significa nulla, perché altrettanto fanno le formiche e le api. […] Orbene, se uno guardasse verso la terra, quale gli apparirebbe la differenza fra quello che facciamo noi e quello che fanno le formiche o le api?» (IV, 81 e 85; pp. 103–104).
La conclusione è tanto logica quanto inevitabile: «Dunque l’universo non è stato fatto per l’uomo, e d’altronde nemmeno per il leone o per l’aquila o per il delfino, ma perché questo mondo, in quanto opera di Dio, risultasse compiuto e perfetto in tutte le sue parti» (IV, 99; p. 106).
A questo livello, nessuna conciliazione è possibile tra il cristianesimo e il mondo antico. Come Luciano, Spinoza e Nietzsche, Celso ha individuato la reale debolezza teoretica di questa fede, divenuta però la sua paradossale e ambigua forza pragmatica, consolatrice ed emotivamente coinvolgente: la bizzarria di una forma del divino davvero troppo umana. E tuttavia, radicato com’è nella scissione ebraica, nella coscienza infelice che separa terra e cielo, finito e infinito, il cristianesimo è una delle ragioni più profonde dell’angoscia di vivere che attanaglia gli europei non più “antichi”. Il testo di Celso lo dimostra.

Mente & Cervello 51 – Marzo 2009

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La memoria corporea -la più radicale e costante- si struttura e consolida nel sonno, il quale «è un processo poderosamente attivo (…) determinante per la buona qualità della nostra vita, in particolare per le attività cognitive più raffinate, come la memoria» (P.Garzia, p. 104). Dormire bene -e cioè profondamente e tra le sei e otto ore per notte- è nello stesso tempo causa ed effetto di un’esistenza equilibrata.

Misura che manca del tutto alle molteplici espressioni della follia che questo numero di M&C documenta, a volte in modo anche crudo.

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Mente & cervello 48 – Dicembre 2008

Sorpresa! (ma lo si sa da tempo…): molte specie animali sono bisessuali e praticano quindi l’omosessualità, probabilmente «per distendere le tensioni sociali, per proteggere i propri piccoli oppure per preservare la fertilità quando non vi sono partner disponibili del sesso opposto…o semplicemente perché è divertente» (E.V. Driscoli, p. 39). Che cos’è quindi natura? Che cosa contronatura? E che cosa -ancora- è cultura? Dovremmo, in realtà, abbandonare sia l’antropocentrismo (che è una vera e propria malattia del sapere, oltre che gesto di assoluta vanità) sia ogni forma di dualismo, compreso quello tra scienze del cervello e filosofia della mente.
Stanno infatti per cadere «come questa rivista non cessa di sottolineare -scrive Enrico Bellone-, le barriere che separano la scienze del cervello dalle riflessioni sulla mente, e che per molto tempo hanno creduto di distinguere le funzioni cerebrali dalla produzione di cultura» (3). Uno degli esiti dello scientismo è invece la scissione fra queste due dimensioni dell’unità psicosomatica a favore del solo organismo e cioè dell’unica dimensione che i metodi quantitativi siano in grado di osservare. La corporeità umana è corpo oggettivo e corpo vissuto, entrambi immersi in un ambiente fisico col quale scambiano energia e informazione, in relazione profonda con gli altri corpi, insieme ai quali costituiscono un mondo di simboli e di significati che è il solo mondo nel quale gli umani possano vivere e cioè non solo sussistere ma anche esistere.

Esistenza che è fatta spesso di inquietudine, a volte di angoscia; dimensioni, queste, anch’esse naturali ma che non poca psicologia intende patologizzare. E si arriva a casi davvero criminali come quelli raccontati da K. Lambert e S.O. Lilienfeld. Episodi nei quali è lo psicoterapeuta a creare -letteralmente- disturbi psicologici gravissimi come schizofrenie, personalità alternative -alters-, falsi ricordi orribili (come violenze sessuali subite da parte dei genitori) che intessono ogni istante e dai quali più non ci si libera: «prima di cominciare la terapia, Sheri soffriva di una leggera insonnia e di blandi stati d’ansia. Dopo l’inizio della terapia [condotta dal Dott. Kenneth Olson] cominciò ad avere emicranie, vertigini, mal di schiena, nausea e disturbi intestinali (…) A dieci anni di distanza, Sheri continua ad assumere farmaci psicotropi, sperimenta immagini e pensieri intrusivi, è ancora senza lavoro e socialmente isolata» (59).

Un consiglio dunque? Tenersi ben lontani dagli psicoterapeuti, da questo ibrido tra confessori, medici e stregoni, il cui autocompiacimento e narcisismo possono indurre a ritagliare addosso al paziente «la psicopatologia che in quel momento lo gratifica, usando il proprio “sapere” come fonte di potere. Questi terapeuti possono pretendere ammirazione incondizionata dai loro assistiti; sono però anche molto vulnerabili a ogni passo del paziente verso l’autonomia, che percepiscono come un abbandono o un tradimento» (F. Cro, 93). Non solo: alcuni psicoterapeuti -come appunto Olson nei confronti di Sheri Storm- possono rovinare per sempre le vite degli incauti che affidano la propria psiche, e quindi la vita, a soggetti «con tendenze, psicopatiche, sadiche o incestuose» (Id., 94).

La salute della memoria, invece, coincide con la salute della persona. Ricordare e dimenticare costituiscono un contrappunto essenziale nella vita della mente, la curiosità è fondamentale per la sopravvivenza dei neuroni e questo «può aiutare a spiegare come mai gli studiosi, che presumibilmente vivono in un mondo intellettualmente più ricco, siano meno suscettibili all’Alzheimer» (A. Levine, 99-100). Letteratura, matematica, filosofia, insomma, fanno bene alla salute.

Numerosi gli altri temi affrontati in questo numero della Rivista: dal disagio natalizio alle stragi nelle scuole statunitensi (ma non solo), dai canoni estetici alle coppie (etnicamente) miste…

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