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Algoritmi e Transumanesimo

Aa. Vv.
L’algoritmo pensante
Dalla libertà dell’uomo all’autonomia delle intelligenze artificiali
a cura di Christian Barone
Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2020
«Quaderni di Synaxis»
Pagine 136 

La fusione tra neuroscienze e ingegneria informatica è l’orizzonte nel quale si inscrive oggi una parte sostanziale della questione antropologica. Un’espressione centrale di tale fusione è lo statuto stesso degli algoritmi – perché sono questi che contano, il software, assai più del supporto macchinico – i quali vanno sempre più comportandosi come agenti non soltanto autonomi ma anche e soprattutto in veloce evoluzione, come se fossero dei veri e propri organismi multicellulari. È il caso di software come ChatGPT e DeepSeek o di altri programmi che, ad esempio, ‘giocano’ in borsa (e ai quali viene dunque affidato il destino di ingenti patrimoni) o di programmi che conducono operazioni militari. Tali algoritmi prendono decisioni in pochi secondi (anche meno) e in modo del tutto autonomo da interventi umani, determinando a volte delle gravi perturbazioni nei mercati finanziari e certamente la morte in guerra di molti esseri umani.

L’’intelligenza’ di questi software, soprattutto se coniugati a degli hardware, è in realtà ancora infima, «il robot più performante attualmente esistente al mondo, non può essere benché minimamente paragonato alle capacità percettive e motorie di un’ape» (Paolo Arena, p. 49) ma è certamente in costante progresso. Ai tradizionali robot tele-operati, e quindi del tutto dipendenti dalla presenza umana, si affiancano infatti dei robot assai più autonomi nelle scelte e nelle operazioni – compresi quelli installati in un numero sempre maggiore di automobili – e soprattutto i robot cognitivi, che agiscono sia a livello logico-formale, ambito nel quale sono ovviamente fortissimi, sia in quelli operativi.
Anche la forma di intelligenza che chiamiamo pura razionalità è in realtà per sua natura l’intelligenza dell’ambiente e consiste nel:
-percepire il contesto con dei sensi/sensori
-decidere quale sia il comportamento più adeguato alla situazione rilevata
-eseguire movimenti e azioni volti a raggiungere gli scopi che dalle diverse e specifiche situazioni emergono.
E pertanto non è esatto dire che «la storia della civilizzazione umana è stata segnata dalla progressiva esternalizzazione delle funzioni cognitive» (Christian Barone, 11) poiché tali funzioni sono state da sempre ‘esternalizzate’. Più esattamente: la razionalità formale ha bisogno di organismi capaci di incidere sull’ambiente e l’ambiente condiziona, plasma, modifica la razionalità formale. L’intelligenza consiste pertanto nella capacità del corpomente di abitare lo spazio, il tempo, gli istanti, le condizioni, i rischi, le possibilità.
Il fondamentale e grave limite delle prospettive che si fanno chiamare transumaniste sta nell’ignorare tutto questo o nel non tenerne conto, sta nel riproporre uno spiritualismo antico e radicale pur se in forme immerse nelle tendenze tecnologiche e antropologiche proprie del XXI secolo.

Il transumanesimo nega la corporeità sino a disprezzarla, ritenendo che l’intelligenza possa davvero consistere in una «pura informazione» che ‘liberi’ l’umano «dal fardello della carne» (Antonio Allegra, 112). Il transumanesimo nega questo corpomente che siamo, sino a ritenere che esso sia «un incidente di noi stessi, qualcosa che ci definisce non più degli abiti che scegliamo di indossare» (Id., 113). Il dualismo di tali prospettive è evidente e radicale, è la più recente espressione di «un immaginario assolutamente potente, antico e modernissimo insieme: quello che riduce l’individuo all’informazione […] Il risultato è una spiritualizzazione totale dell’identità umana. Il dualismo proposto riprende quello attivo in alcuni momenti chiave della tradizione culturale occidentale. Il punto è estremamente rilevante: il transumanesimo a questo proposito non fa altro che assumere un lascito ben preciso -ma lo riattualizza» (Id., 112).
Da tali altezze spirituali il transumanesimo torna però poi alla miseria e alla paura della vita, la vita e basta, la nuda vita: «La vita, dal punto di vista transumanista, è a ben vedere l’unica cosa che merita, o a cui si deve, davvero il segno più», una vita talmente innamorata di se stessa da non voler finire mai e dunque dal voler semplicemente divinizzarsi: «La divinizzazione non è sempre esplicita ma è con tutta evidenza il vero tema della proposta transumanista. […] Si tratta di trasformare l’uomo in Dio grazie al controllo sull’evoluzione della specie. […] Si tratta, almeno sotto questo profilo, di una narrazione teologica» (Id., 104-105). Anche per questo il transumanesimo è parte della costellazione culturale tecnognostica.

Tutto questo si crede al centro dell’essere, tanto che un umanista come Hans Jonas scrive che «la natura non poteva commettere sbaglio peggiore che creare l’uomo, creando l’uomo la natura ha distrutto se stessa»  (Il principio responsabilità, Einaudi 1990, p. 177, qui a p. 34). Parole imprudenti e tracotanti; non la ‘natura’, infatti, sarebbe in pericolo ma quella infima espressione della materia che è la vita sul nostro pianeta. Per la ‘natura’, vale a dire per la materia universale, per la sua massa, la sua energia, la sua impensabile potenza, tutto quello che accade su questo pianeta è un battito di ciglia inavvertito, è il nulla.

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Idealismo e transumanesimo

Materia e transumanesimo in Giovanni Gentile
in Dialoghi Mediterranei
n. 70, novembre-dicembre 2024
pagine 540-545

Indice
-Attualismo e idealismo
-Gentile, l’estetica
-Gentile, il realismo, la materia
-Idealismo e transumanesimo

La struttura storica dell’umano e di ogni suo prodotto costituisce una conferma dei limiti della nostra specie, del non poter mai tale animale aspirare a un Assoluto posto fuori dallo spaziotempo. La filosofia di Gentile è probabilmente l’ultima espressione tradizionale di tale pretesa, che però nel presente sembra riapparire nelle forme certo ben mascherate ma sempre visibili del cosiddetto transumano.
Il transumanesimo è un’evidente forma di ὕβρις, fondata sulla volontà di espansione della soggettività umana. Anche per questo alcuni dei concetti centrali di ogni idealismo, compreso quello di Gentile, quali l’‘assoluto’, sono in realtà poco più che intuizioni e metafore con le quali una parte della materia dotata di coscienza coglie il tempo come un tutto ora, come il tutto che era prima, come il tutto che sarà poi.
Perché il sempre non è una forma statica ma è proprio questo eventuarsi senza posa della materia, ora e in ogni istante del suo accadere.
Uno dei paradossali meriti dell’attualismo gentiliano è la chiarezza con la quale la pretesa antropocentrica si esprime e dunque precipita e fallisce. Anche da Gentile scaturisce pertanto la necessità di abbandonare ogni antropocentrismo e ogni dualismo/contrapposizione tra l’umano e il cosmo nel quale l’umano è posto nei modi più diversi come signore.
Signore di che cosa? Non decidiamo di nascere, né come e dove nasciamo né siamo padroni delle nostre vite e del morire, perché in questo caso saremmo tutti dei felici signori del tempo. E invece del tempo siamo soltanto una necessaria espressione e ciò che chiamiamo morire è la formula del limite umano incapace di cogliere la permanenza della materia al di là delle sue contingenti espressioni.
La radice e l’espressione immanentistica dell’attualismo gentiliano costituiscono alla fine una distanza da ogni transumanesimo, nonostante il contributo che l’idealismo possa offrire e abbia offerto alle tesi transumane.

IA e Transumanesimo

Ragione artificiale e società cibernetica 
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
anno IX, n. 15, giugno 2024 – «Intelligenza artificiale e aspettative umane»
pagine 319-322

Per quanto potente, raffinata e frutto di investimenti miliardari, l’Artificial Intelligence è soltanto un mezzo, un assai potente mezzo, volto non agli scopi per i quali viene di solito presentata, proposta, difesa. L’obiettivo di fondo è infatti uno dei più antichi che varie culture umane abbiano immaginato e a volte perseguito, di solito però con strumenti religiosi e non tecnologici. Tale scopo è il transumanesimo, il progressivo abbandono dei limiti somatici e temporali dell’animale umano (la sua finitudine) per attingere invece forme e comportamenti di controllo accurato e completo del mondo e, in prospettiva, per non morire più. Il transumanesimo è dunque molto diverso dal postumanismo, il quale al contrario ha come obiettivo di abbandonare la duplice pretesa vitruviana e prometeica della nostra specie. Vitruviana in quanto tende a consacrare la propria centralità umanistica nel cosmo. Prometetica poiché intende farlo con l’ausilio della dimensione tecnica che all’umano è connaturata. Il transumanesimo è invece la forma completa dell’iperumanismo, del tentativo di condurre a pienezza e potere l’unicità umana dentro il mondo.
Nel testo ho cercato di saggiare questa interpretazione delle Intelligenze Artificiali alla luce di uno sviluppo tecnologico molto preciso, silente e assai rischioso come la rete 5G, diffusa e mimetizzata nei più disparati ambienti,  e delle tesi espresse da Stefano Isola nel suo A fin di bene: il nuovo potere della ragione artificiale.

Hegel, l ‘Enciclopedia

Georg W.F. Hegel
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
(Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, 1817-1830)
Traduzione, prefazione e note di Benedetto Croce
Prefazioni di Hegel tradotte da Angelica Nuzzo
Introduzione di Claudio Cesa
Mondadori, 2008
Pagine CVII-651

[Data l’ampiezza un poco inconsueta del testo che segue, ne metto a disposizione una versione in pdf]

Al di là dell’astrazione illuministica e intellettualistica che vorrebbe imporre alla realtà i pensamenti e i desideri degli umani.
Al di là del moralismo «che tiene i sogni delle sue astrazioni  per alcunché di verace, ed è tanto gonfio del suo dover essere, che anche nel campo politico va predicando assai volentieri; quasi che il mondo aspettasse quei dettami per apprendere come deve essere ma non è» (§ 6, pp. 10-11).
Al di là del sentimentalismo che «si adopra a indagare le particolarità, passioni e debolezze degli altri uomini, le cosiddette pieghe del cuore umano» (§ 377, p. 371) e che mostra tutta la sua micidiale forza di incomprensione, equivoco e miseria nel discorso pubblico – i Social Network ad esempio – che fa costantemente appello alle esperienze di vita, ai casi concreti, al sapere che cosa si prova (al ‘vieni in un ospedale se vuoi capire il covid’), psicologismo sentimentalistico che merita parole assai chiare come queste: 

Quando un uomo, discutendo di una cosa, non si appella alla natura e al concetto della cosa, o almeno a ragioni, all’universalità dell’intelletto, ma al suo sentimento, non c’è altro da fare che lasciarlo stare; perché egli per tal modo si rifiuta di accettare la comunanza della ragione, e si richiude nella sua oggettività isolata, nella sua particolarità (§ 447, p. 439). 

Al di là della presunzione che si lega alla parola filosofia, che molti pensano di poter praticare soltanto perché sono dotati di un encefalo e vivono le loro esperienze; che vuol dire presunzione di fare filosofia senza averla mai studiata: 

A questa scienza tocca spesso lo spregio che anche coloro che non si sono affaticati in essa, s’immaginano e dicono di  comprendere naturalmente di che cosa tratti, e d’esser capaci, col solo fondamento di un’ordinaria coltura e in particolare dei sentimenti religiosi, di filosofare e giudicar di filosofia. Si ammette che le altre scienze occorra averle studiate per conoscerle, e che solo in forza di siffatta conoscenza si sia facoltati ad avere un giudizio in proposito. Si ammette che, per fare una scarpa, bisogna avere appreso ed esercitato il mestiere del calzolaio, quantunque ciascuno abbia la misura della scarpa nel proprio piede, e abbia le mani e con esse la naturale abilità per la predetta faccenda. Solo per filosofare non sarebbero richiesti né studio, né apprendimento, né fatica (§ 5, p. 8).

A queste piccole e grandi miserie, ai tanti equivoci, ai pregiudizi e all’incomprensione, alla superficialità e alla banalità, Hegel oppone la filosofia intesa come «la considerazione pensante degli oggetti» (§ 2, p. 4); la filosofia come storia del proprio inverarsi e divenire, la filosofia come storia della filosofia ma anche e soprattutto la filosofia come sistema poiché «un contenuto ha la sua giustificazione solo nel momento del tutto, e fuori di questo è un presupposto infondato o una certezza meramente soggettiva; molti scritti filosofici si restringono in tal modo ad esprimere soltanto pareri e opinioni» (§ 14, pp. 22-23).

Con questo approccio sistematico e oggettivo, Hegel coglie alcuni elementi fondamentali e fondanti dell’umano e del tempo. Dell’umano come vita animale coglie il «sentimento d’insicurezza, di angoscia, d’infelicità» (§ 368, p. 362), l’essere l’individuo un epifenomeno della specie che ne fa uno strumento della propria sopravvivenza, riproduzione, moltiplicazione, la sua destinazione mortale: «Il genere si mantiene solo mediante la rovina degli individui; i quali nel processo dell’accoppiamento adempiono alla loro destinazione e, in quanto non ne hanno un’altra più elevata, vanno così incontro alla morte» (§ 370, p. 363), morire che è la vera attività dell’individuo, il significato della parte, il destino del singolo, le cui passioni effimere non vanno giudicate, condannate, respinte ma ancora una volta comprese, poiché «la passione non è né buona né cattiva: questa forma esprime soltanto che un soggetto ha posto in un unico contenuto tutto l’interesse vivente del suo spirito, dell’impegno, del carattere, del godimento. Niente di grande è stato compiuto, né può esser compiuto, senza passione. È soltanto una moralità morta, e troppo spesso ipocrita, quella che inveisce contro la forma della passione in quanto tale» (§ 474, p. 468).
La comprensione della natura parziale dei singoli, degli enti, degli eventi, permette a Hegel di dar conto del tempo come sinonimo della stessa realtà e come sinonimo del nulla nel quale la realtà costantemente si riversa. Non è nel tempo che tutto nasce, muore, accade ma «il tempo stesso è questo divenire, nascere e morire; è l’astrarre che insieme è; è Kronos, produttore di tutto e divoratore dei suoi prodotti. – Il reale è diverso dal tempo, ma gli è altresì essenzialmente identico» (§ 258, p. 234) in quanto la struttura finita e diveniente delle cose rende ogni elemento finito – e ogni cosa è finita – del tutto «passeggiero e temporale», come si vede dal fatto che il finito si comporta di fronte alla negatività come «alla potenza che lo domina [zu seiner Macht]» (Ibidem). Il tempo è l’incontro tra la realtà e il nulla, dove l’una non sarebbe possibile senza l’altra. Un convergere che chiamiamo divenire:

Le dimensioni del tempo, il presente, il futuro e il passato, sono il divenire come tale dell’esteriorità, e la risoluzione di quel divenire nelle differenze dell’essere, da un lato, che è trapasso in nulla, e del nulla, dall’altro, ch’è trapasso in essere. Lo sparire immediato di queste differenze nella individualità è il presente, come ora [questo istante, als Jetzt], il quale ora, essendo, come l’individualità, insieme esclusivo e affatto continuo negli altri momenti, non è altro che questo trapasso del suo essere in niente e del niente nel suo essere (§ 259, 235).

Il presente è l’istante che non è pronto a dileguare nel nulla ma che consiste proprio in tale dileguare. L’insieme dei dileguanti nello spaziotempo è l’assoluto e da ciò segue «la seconda definizione dell’assoluto: che esso è il niente» (§ 87, p. 102), il quale è quindi l’altro nome dell’essere. La verità dell’essere e del niente nella loro unità è appunto il divenire, che «è la vera espressione del risultato di essere e niente come l’unità di essi: e non è soltanto l’unità dell’essere e del niente, ma è l’irrequietezza in sé» (§ 88, p. 107).

Questi contenuti ed esiti teoretici costituiscono il nucleo sempre fecondo della metafisica hegeliana, che però li coniuga a qualcosa che nella sua essenza è l’opposto di una comprensione oggettiva della finitudine della parte nella perfezione dell’intero. Tale opposto consiste nell’essere quella hegeliana anche una filosofia radicalmente religiosa, cristiana e dunque antropocentrica.
In una delle Prefazioni, quella alla seconda edizione del 1827, Hegel scrive con chiarezza che «la religione può sì sussistere senza la filosofia, ma la filosofia non può sussistere senza la religione, ché anzi la include in sé» (p. XCIII), una tesi che attraversa tutta l’Enzyclopädie sino alla fine, sino alla identificazione di eticità, religione e Stato (§ 552). Questa religione è una ben precisa religione, è il cristianesimo nella sua forma luterana. Una fede che si presenta come razionale, che crede nella teleologia della storia, nella storia come Provvidenza, «in fondo» alla quale sta «uno scopo finale in sé e per sé, (§ 549, p. 520) e che in questo fine accomuna «il principio della coscienza religiosa e della coscienza etica» in «una e medesima cosa nella coscienza protestante» (§ 552, p.  536).
Data la natura radicalmente antropocentrica del cristianesimo, una filosofia apologetica di tale religione non può che cadere in una forma di antropocentrismo assoluto, come quello che innerva questa pagina:

Allorché gli individui e i popoli hanno accolto una volta nella loro mente il concetto astratto della libertà per sé stante, nient’altro ha una forza così indomabile; appunto perché la libertà è l’essenza propria dello spirito, e cioè la realtà stessa. Intere parti del mondo, l’Africa e l’Oriente, non hanno mai avuto questa idea, e non l’hanno ancora: i Greci e i Romani, Platone e Aristotele, ed anche gli stoici non l’hanno avuta: essi sapevano, per contrario, soltanto che l’uomo è realmente libero mercé la nascita (come cittadino ateniese, spartano ecc.) o mercé la forza del carattere e la coltura, mercé la filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero). Quest’idea è venuta nel mondo per opera del cristianesimo; pel quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e far che questo spirito dimori in lui, cioè l’uomo è in sé destinato alla somma libertà  (§ 482 , pp. 473-474).

La sintesi e il culmine di un antropocentrismo che disprezza profondamente la materia, il cosmo, gli astri, la luce, è un’annotazione di filosofia della natura che si legge a conclusione del paragrafo 248: «E, anche quando l’accidentalità spirituale, l’arbitrio, giunge fino al male, perfino il male è qualcosa d’infinitamente più alto che non i moti regolari degli astri e l’innocenza delle piante; perché colui, che così erra, è pur sempre spirito» (p.  223).
Il paragrafo 392 ribadisce la patetica sensazione/convinzione di superiorità dell’umano sul cosmo, individuando nello spirito una separazione e differenza dalla materia cosmica, separazione che negli altri animali non si dà e che anche per questo li renderebbe inferiori: «La storia del genere umano non è in dipendenza dalle rivoluzioni nel sistema solare; né le vicende degli individui dalle posizioni dei pianeti. […] Con la libertà dello spirito che comprende sé stessa in modo più profondo, spariscono anche codeste poche e meschine disposizioni, che si fondano sul convivere dell’uomo con la natura. L’animale, invece, come la pianta, vi rimane sottoposto» (p. 384).
Una filosofia così radicalmente umanistica rappresenta un momento assai chiaro dello smarrimento dell’umano rispetto all’intero, della dimenticanza dell’ontologia, della incomprensione dell’essere, pensato come il più generico e vuoto dei concetti, «l’elemento immediato semplice e indeterminato» (§ 85, p. 101). Anche a proposito della prova ontologica dell’esistenza di Dio, Hegel ribadisce che «pel pensiero, nel riguardo del contenuto, non si può dar nulla di più povero che l’essere» (§ 51, p. 66).
E invece sta proprio nella centralità dell’essere rispetto agli enti, dell’intero rispetto alle sue parti, della materia cosmica rispetto alla materia cerebrale che elabora idee sul mondo, sta nella struttura del mondo la ragione che rende possibile la redenzione filosofica, il fatto che la filosofia sia «appunto quella dottrina, che libera l’uomo da un’infinita moltitudine di scopi e mire finite, e lo fa verso di esse indifferente, in modo che per lui è il medesimo che quelle cose sieno o non sieno» (§ 88, p. 104).
L’Enzyclopädie si chiude con una citazione aristotelica, dal libro λ della Metafisica (1072b). Se davvero il divino è ζωὴ ἀρίστη καὶ ἀΐδιος, vita perfetta ed eterna, è perché esso è diverso dall’umano e dai suoi limiti, che sono certamente anche limiti psicologici e somatici ma prima di tutto e fondamentalmente sono limiti ontologici.

Cristianesimo e Filosofia

L’insieme degli scritti con i quali filosofi come Celso, Porfirio, Giuliano, Ierocle criticarono e confutarono  la demens superstitio -‘l’irrazionale superstizione’– dei cristiani ci è noto quasi soltanto dalle citazioni, dalle polemiche, dalle refutazioni e manipolazioni dei cristiani stessi, poiché i testi originali furono distrutti e bruciati in modo sistematico dai loro avversari.
È questo il dato al centro della ricostruzione accurata, anche se a volte ripetitiva, che Marco Zambon in «Nessun dio è mai sceso quaggiù». La polemica anticristiana dei filosofi antichi (Carocci, 2019) conduce del tentativo attuato dai filosofi antichi, nell’età che va all’incirca da Marco Aurelio a Giustiniano (II-VI secolo),  di mostrare l’incompatibilità tra il loro mondo e la fede dei cristiani.

Filosofia e fede cristiana sono inconciliabili per tre ragioni fondamentali.
La prima concerne lo statuto della verità, che per la filosofia è una ricerca sempre aperta, svolta a partire dalla convergenza tra ciò che si osserva del mondo – il dato empirico e quello fenomenologico – e la riflessione razionale che viene condotta su di esso. Per i cristiani, invece, la verità è un dato della rivelazione al quale si accede con la fede e che rimane sempre identico, incontestabile, fuori da ogni discussione e argomentazione.
La seconda ragione riguarda lo statuto del divino, che per la filosofia è plurale e molteplice, mentre per il cristianesimo e le altre religioni del Libro è un’identità monoteistica che respinge da sé ogni differenza.
La terza ragione si riferisce allo statuto dell’umano, il quale per la filosofia ha nel mondo una specificità che non diventa mai privilegio ontologico e superiorità assiologica. Privilegio e superiorità che conducono a immaginare un dio che diventa egli stesso uomo e che persino muore tra sofferenze atroci per salvare gli umani da lui stesso condannati. Il «carattere spiccatamente antropomorfo e l’irrazionalità del loro Dio […] indicavano la natura non filosofica della religione dei cristiani» (p. 257), alla quale Celso oppone un atteggiamento ancora una volta plurale e che oggi definiremmo animalista. Il filosofo infatti, 

polemizzava contro l’antropocentrismo dei cristiani, partendo dal principio che ‘le cose tutte non sono state generate per gli uomini più che per gli animali privi di ragione’ (Cels. IV 74). Egli si sforzava, perciò, di mostrare la superiorità naturale degli animali rispetto all’uomo (dal momento che non hanno bisogno di coltivare la terra per nutrirsi, né servono loro strumenti per attaccare gli uomini e divorarli; Cels. IV 76, 78-79) e il fatto che anch’essi avessero una complessa organizzazione sociale, conoscessero  le scienze, praticassero il culto degli dèi (Cels. IV 81. 83-85. 88. 98 (p. 315).

Ai tre elementi fondamentali concernenti la verità, il divino e l’umano, si aggiungeva l’inaccettabile rozzezza concettuale e stilistica del linguaggio biblico, della quale molti tra gli stessi apologeti cristiani erano consapevoli, costituendo anche «per loro un serio ostacolo e un motivo di imbarazzo» (p. 184), che cercavano di superare con una lettura radicalmente allegorica della Bibbia; lettura della quale il maggiore sostenitore fu Origene.

Questi elementi di dottrina si coniugavano con i comportamenti pratici dei cristiani, i quali in generale «negavano ogni dignità agli dèi visibili, gli astri, e però veneravano un cadavere» (p. 99) e lo strumento che era servito al suo supplizio, la croce. In particolare, poi, i monaci, descritti dai cronachisti dell’epoca ricordano l’abbigliamento, le pratiche e la violenza dagli attuali militanti dell’Isis, ai quali li accomuna la certezza di detenere l’unica verità e una fede salvifica. Eunopio, ad esempio, «dopo aver narrato la distruzione del serapeo di Alessandria, compiuta nel 391 sotto il patriarcato di Teofilo, ‘capo dei maledetti’ (V. soph. VI 11, 2), descrive in questi termini l’occupazione del sito da parte di monaci cristiani:

6 In seguito, introdussero in quei luoghi sacri i cosiddetti ‘monaci’; uomini, per quel che riguarda l’aspetto, ma, quanto alla loro vita, maiali, che apertamente tolleravano e compivano innumerevoli cose malvagie e indescrivibili. Eppure questa pareva loro pietà: disprezzare il divino. 7. Allora, infatti, aveva un potere tirannico chiunque indossasse un abito nero ed esercitasse in pubblico una condotta indegna
(Eunopio, V. soph. VI 11, 6-7; p. 100). 

L’atteggiamento violento dei cristiani verso i loro avversari e verso i beni altrui si manifestava anche e appunto nella «violenza con la quale i monaci s’impadronivano delle terre dei contadini, dichiarandole sacre e saccheggiandole» (101).

La violenza appare talmente intrinseca alle fedi monoteistiche da esprimersi nella violenza anche verso se stessi, come risulta chiaro dalla questione delle persecuzioni verso i cristiani, le quali – tranne in pochi e circoscritti intervalli temporali – furono in realtà una invenzione degli apologeti e della storiografia cristiana.
Le leggi romane e i loro giudici furono infatti per lo più riluttanti a punire i cristiani. L’imperatore Traiano ordinò che essi non venissero cercati e non si desse seguito a denunce anonime nei loro confronti. Anche quando arrivavano a processo, le condizioni per andare assolti erano assai miti. Come molti altri, il proconsole Saturnino «chiedeva ai cristiani non di rinunciare alle proprie convinzioni, bensì di giurare ‘per il genio del nostro signore, l’imperatore’ e di offrire  ‘suppliche per la sua salute’ [Act. Mart. Cil. 1-14]; una cosa che gli sembrava del tutto ragionevole, compatibile con una sana e semplice pietà religiosa e con i doveri di un cittadino romano» (72). La risposta dei cristiani era per lo più pervasa di una fede millenaristica che li rendeva certi della imminente fine del mondo e li induceva quindi a cercare essi stessi la condanna a morte. A confermarlo è un testimone del tutto affidabile, uno dei più tenaci difensori del cristianesimo, Tertulliano, il quale scrive che «mentre Arrio Antonino in Asia li perseguitava duramente, tutti i cristiani di quella città, radunatisi insieme, si presentarono al suo tribunale. Egli allora, dopo averne fatti portare alcuni a morte, disse agli altri: ‘Miserabili, se volete morire, avete i burroni oppure impiccatevi!’ (Tert. Ad Scap. V 1)» (p. 97).
In generale, «prima di Costantino, i cristiani non sono vissuti in uno stato di persecuzione generalizzata; anzi, hanno potuto contare per lo più su un’ampia tolleranza di fatto da parte delle autorità» (359). Una volta arrivati al potere, il loro atteggiamento verso quanti continuavano a rimanere fedeli all’antica religione fu invece molto violento: distruzione sistematica dei templi e degli altri luoghi di culto pagani, incendio delle biblioteche che conservavano libri e documenti di culture millenarie, omicidi individuali e stragi collettive (cfr. Catherine Nixey, Nel nome della croce. La distruzione cristiana del mondo classico, Bollati Boringhieri, 2018)

Violenza che divenne atto giuridico repressivo con l’editto emanato nel 380 a Tessalonica da Graziano, Valentiniano e Teodosio: «Ordiniamo che coloro che seguono questa legge siano compresi sotto il nome di cristiani cattolici, mentre tutti gli altri, considerandoli dissennati e folli, ordiniamo che sopportino l’infamia della loro dottrina eretica e le loro conventicole non ricevano il nome di Chiese; essi devono essere puniti anzitutto dalla vendetta divina, poi anche dalla pena comminata dalla nostra iniziativa, ispirata dalla volontà celeste (Cod. Theod. CVI 1,2 = CIC Cod. I, 1,1)» (p. 418). A questo editto si aggiunse la costituzione dell’8 novembre 392 con la quale Teodosio «vietava il culto pagano in qualsiasi forma su tutto il territorio dell’Impero (Cod. Theod. XVI 10, 10-12)» (p. 420). Violenza rivolta non soltanto ai pagani ma a chiunque non seguisse il credo cristiano come era stato stabilito nel 325 al Concilio di Nicea.
Quando Celso scrive che «‘nessun dio, o giudei e cristiani, e nessun figlio di dio è mai sceso, né potrebbe scendere quaggiù’ (Orig. Contra Celsum [Cels.] V 2)» (p. 13), questo significa anche che nessuna fede assoluta nella parola e negli insegnamenti di un uomo – tanto più se quest’uomo si presenta come un dio – può esimere il cammino umano dalla fatica del comprendere e del costruirsi. Diventare umani implica non l’accoglimento acritico «di un intervento proveniente dall’esterno, ma l’attuazione, faticosa e progressiva, della propria vera natura da parte di un’anima a ciò preparata» (296).
È anche per questo che la filosofia riemerge sempre dalle macerie delle certezze fideistiche, perché il bisogno e l’inquietudine della ricerca appartengono alla natura stessa dell’animale umano.

Umanità

 

Tre notizie da Televideo Rai (19-20 marzo 2024), notizie tra le tante, notizie come sempre, notizie da millenni, notizie che mostrano e confermano con la chiarezza della sintesi che cosa l’umano sia, che cosa sia davvero.
L’umano è in gran parte – non del tutto, certo, ma appunto in gran parte – un grumo di profonda, istintiva, pura malvagità. L’umano è un animale non soltanto feroce ma di una ferocia anche sadica, vale a dire che gode, sinceramente gode, dei dolori che infligge e che vede. L’umano è un terrificante sterminatore di ogni altra specie animale; e infatti gli altri animali hanno ben imparato a guardarsi dall’essere umano: appena passiamo vicino a un gatto o a un cane randagio o a un uccello, questi subito si allontanano. L’umano è un’intelligenza posta in gran parte al servizio della guerra, della distruzione e della morte. L’umano, in sintesi, è non soltanto una nullità ontologica nel cosmo ma è anche un errore politico nella storia. L’umano è probabilmente una linea deviata e sbagliata dell’evoluzione animale, è un vicolo cieco.
L’umano è soprattutto la presunzione, l’arroganza e la ὕβρις di ritenersi, nonostante questa sua tenebrosa natura, «l’essere libero nel mondo della necessità, l’eterno taumaturgo, sia che agisca bene, sia che agisca male, la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico, il grande dominatore della natura e dispregiatore di essa, l’essere che chiama la sua storia storia del mondo!» (Nietzsche, Umano, troppo umano II. Il viandante e la sua ombra, in «Opere», IV/3, af. 12, p. 141).
Le tre religioni del Libro – ebraismo, cristianesimo e islam – costituiscono l’espressione parossistica di tale pretesa. Esse ritengono che l’umano sia l’immagine di Dio e persino che Dio stesso sia diventato un uomo e sia stato torturato e ucciso per lui, un’idea francamente sconcertante. In sintesi, esse ritengono che l’essere umano sia un’espressione del sacro, pretesa che è una bestemmia e un sacrilegio. Ritenere entità sacre quelle che sono capaci di compiere azioni di gratuita, totale e inemendabile ferocia come quelle da cui sono partito e milioni di altre azioni analoghe delle quali la vicenda umana è costellata, ritenere davvero che i miliardi di essere umani transitati nella storia siano tutti figli di Dio e per questo sacri, è un’affermazione la cui tracotanza, narcisismo e stupidità appaiono palesi a ogni sguardo razionale, umilmente razionale, ontologicamente antropodecentrico.
In realtà alcuni, pochi, essere umani sono una luce per sé e per gli altri. La più parte costituisce una struttura ontologica miserabile e perduta. Questa è una delle verità della Gnosi, una tesi antropologica che mostra ogni giorno e ovunque la sua plausibilità.
È anche partendo da qui che uno gnostico contemporaneo ha potuto scrivere che la morale cristiana, e religiosa in genere, così come la morale kantiana sono in realtà un’immensa fatica «per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi», una fatica volta a nascondere la radicale malvagità degli umani, la loro «sporca anima eroica e fannullona», una fatica volta a non capire «fino a qual punto gli uomini sono carogne», gli uomini, queste «bestie verticali» (Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio 1995, pp. 459, 21, 33 e 159). Sono fatti, eventi e circostanze come quelli ricordati sopra, il cui numero è incalcolabile, a darne costante conferma.
L’umano è un orrore che l’intera storia della specie attesta e mostra. Due recenti testimonianze (tra le innumerevoli che sarebbe possibile addurre), sono un video di denuncia realizzato dalla LAV – Lega Antivivisezione  che documenta l’inaudita crudeltà di due esseri umani contro un gregge di pecore e una come sempre pacata e implacabile riflessione di David Benatar dal titolo Un argomento misantropico per l’antinatalismo (testo pubblicato sul numero 29 di Vita pensata).
Ripeto: che una religione o un’etica possano definire i membri di una specie siffatta come tutti sacri o perché figli di un Dio o in quanto semplicemente esseri umani, è qualcosa che a uno sguardo disincantato e razionale appare non soltanto privo di ogni fondamento ma anche perverso. 

Evoluzionismo, un paradigma

Lunedì 12 febbraio 2024 alle 15.30 in occasione del Darwin Day terrò una relazione dal titolo Evoluzionismo, un paradigma. La sede è l’Orto Botanico dell’Università di Catania. L’evento è organizzato dal Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali e da quello di Scienze umanistiche.
Il titolo della mia relazione si riferisce al concetto epistemologico di paradigma come è stato proposto da Thomas Kuhn nel suo La struttura delle rivoluzioni scientifiche.
Nel 1970 il premio Nobel Jacques Monod affermava che all’origine di alcuni errori e insufficienze della teoria darwiniana «vi è naturalmente l’illusione antropocentrica. […] La teoria dell’evoluzione, lungi in un primo tempo dal dissipare l’illusione, sembrava anzi conferirle una nuova realtà facendo dell’uomo non più il centro, ma l’erede da sempre atteso, naturale, dell’intero universo. Dio poteva morire, sostituito da questo nuovo e grandioso miraggio. […] Si dovette giungere alla seconda metà del Novecento perché svanisse il nuovo miraggio antropocentrico innestato sulla teoria dell’evoluzione» (Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Mondadori 2022, pp. 44 e 45).
Nel XX secolo sono state elaborate ipotesi evoluzionistiche anche molto diverse rispetto a quelle classiche. La più nota e una delle più recenti è quella degli ‘equilibri punteggiati’ (punctuated equilibrium) di Gould e Eldredge, la quale presuppone una fissità di fondo delle specie interrotta da rapide mutazioni (‘rapide’ sempre in una prospettiva geologica).
Ma già Darwin, che non era affatto dogmatico, aveva rivisto la sua originaria teoria, ridimensionando la funzione della selezione naturale e del caso nella trasformazione dei viventi. Ancora Monod distingue il caso come viene inteso «nel gioco dei dadi o della roulette» dalle «’coincidenze assolute’, che risultano dall’intersezione di due sequenze causali totalmente indipendenti l’una dall’altra» (Il caso e la necessità, pp. 111-112).
Come  regolarmente accade (si pensi al dogmatismo degli aristotelici, ben diverso dalla curiosità critica e sempre aperta di Aristotele), i successori si trasformano spesso in discepoli, caratterizzati da una chiusura epistemologica che l’iniziatore della scuola avrebbe certamente respinto.
Una mia analisi del paradigma evoluzionistico si trova anche in un recente saggio dal titolo Evoluzionismo e cosmologia, pubblicato sul numero 14 (dicembre 2023) de Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee.

 

 

 

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