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Sfruttamento / Discriminazione

«Quando al negro capita di guardare il Bianco con ferocia, il Bianco gli dice: ‘Fratello, non c’è differenza fra noi’. Eppure il negro sa che vi è una differenza»
(Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, ETS, 2015)

Più che opportuno, un approccio critico all’idea e all’ideologia dei diritti umani è proprio necessario in un’epoca che sembra vedere in essi una nuova religione. È questa la prospettiva del numero 2/2018 del «Giornale critico di storia delle idee. Rivista internazionale di filosofia / Critical Journal of Ideas. International Review of Philosophy», che ha come titolo Dell’uomo e dei diritti / On Human and Rights (Mimesis, 2019; vi è è stato pubblicato anche un mio contributo dal titolo Oltre l’umanismo, oltre l’umanitarismo).
L’obiettivo metodologico, scrivono i due curatori del volume, «era quello di fornire una mappatura sul dibattito intorno ai diritti umani con il fine di portarne in superficie le contraddizioni, le paradossalità e le antinomie, per far deflagrare ed esplodere l’immagine della loro presunta neutralità e naturalità. […] Compito della storia critica delle idee è infatti quello di porre in discussione e ripensare i ‘diritti dell’uomo’ al di là tanto della loro presunta naturalezza, nella forma dell’evidenza della loro definizione, quanto della presunta neutralità della loro applicazione» (Gianpaolo Cherchi e Antonio Moretti, Nota editoriale, pp. 7-8).
L’origine borghese di questi diritti li caratterizza ab ovo non soltanto come puramente formali e quindi  adattabili a qualsiasi autorità, istituzione e scopo -emblematica una formula quale «guerra umanitaria»– ma soprattutto come falsamente universali. Dietro e dentro la loro formulazione abita infatti (come è ovvio) una certa e determinata idea di umano, quella dell’Occidente cristiano, che è una delle molte possibili ma che si presenta e si impone come l’unica pensabile.
La relatività, il particolarismo, la cangiabilità, la funzionalità a determinati obiettivi della teoria dei diritti umani sono mostrate in modo evidente e plastico dal plesso semantico terrorismo/terrorista. Nel suo saggio -uno dei più interessanti del volume– dal titolo Artefatti, ostensione e realtà istituzionale. Le ‘Unità anti-terrore’ nella guerra siriana, Davide Grasso analizza le ragioni per le quali individui, gruppi e istituzioni vengono definiti e si definiscono anche reciprocamente ‘terroristi’ e pertanto la grave debolezza epistemologica di questa caratterizzazione, che acquista senso soltanto in una prospettiva di propaganda politica: 

L’alone semantico del termine ‘terrorismo’ è estremamente oscuro tanto nel linguaggio giuridico che nel linguaggio ordinario. […] Il termine terrorismo è quindi da considerarsi, nei fatti, uno strumento concettuale utilizzato da attori differenti per squalificare questa o quella manifestazione di potere, che si origini contro le istituzioni o da parte di istituzioni considerate illegittime. Questo spiega in gran parte la difficoltà giuridica, e ancor più metafisica, di definire il terrorismo. […] Una qualifica attribuita dagli stati, da almeno un secolo, alle organizzazioni armate che promuovono o difendono istituzioni alternative a quelle esistenti (136-137).

I diritti umani sono, anche e specialmente, un dispositivo del tutto impolitico e per questo molto pericoloso. Hannah Arendt, filosofa di acuta intelligenza sulle cose umane, nelle Origins of Totalitarianism ha sostenuto che «i Diritti dell’Uomo sono i diritti di coloro che sono solo esseri umani, che non hanno altra proprietà rimasta loro se non quella di essere umani. In altre parole, sono i diritti di chi non ha diritti, la mera parodia del diritto» (Jacques Rancière, Who is the Subject of the Rights of Man?, p. 27).
Una parodia del diritto che fa da fondamento alla sostituzione dell’elemento politico con quello morale e psicologico. Sostituzione che giustifica ogni struttura oppressiva. Un esempio tratto da un ambito apparentemente lontano ma spero chiaro è il concetto francescano di povertà. Esso favorisce la rassegnazione alla diseguaglianza economica perché giustifica la condizione di povertà, addirittura esaltandola come veicolo di santità, e permette a chi non è povero di mostrarsi solidale e umanitario dando parte della propria ricchezza a chi sta peggio. A condizione che questo scambio volontaristico e personale non intacchi le strutture economiche e sociali che generano povertà e ricchezza: «i poveri li avrete sempre con voi; e quando volete, potete far loro del bene», come disse il Rabbi galileo (Mc., 14,7, trad. Nuova Diodati).
Significativo sino a risultare fondamentale è anche lo slittamento semantico che ha in pratica cancellato dalla saggistica e dal discorso pubblico la parola sfruttamento sostituita dal termine discriminazione. «Sfruttamento» si riferisce infatti a una struttura socioeconomica, «discriminazione» a un atteggiamento psicologico-giuridico. La prima parola implica la necessità di un cambiamento oggettivo, per la seconda è sufficiente una modifica formale dei rapporti di potere.
La «recensione critica» che Andrea Caroselli e Miguel Mellino hanno dedicato al libro di Didier Fassin Ragione umanitaria. Una storia morale del tempo presente (Gallimard 2010; trad. it. DeriveApprodi 2018) si intitola La trappola umanitaria: l’umano come cifra dell’accumulazione neoliberale. Ne riporto alcuni brani che non hanno bisogno di commento.

Le molteplici ‘emergenze’ degli ultimi anni mostrano come il discorso umanitario, che trasforma l’appello a una medesima condizione umana nella sostanza stessa della politica, necessiti non solo di mostrare la presenza di soggetti sofferenti, mobilitando un immaginario caritatevole, ma, ancor più significativamente, di spostare l’attenzione dalla struttura a un soggetto, costruito in termini morali, nel quale sarebbe possibile riconoscerci perché garantiti da una presunta unità del genere umano. Un’economia dello sguardo, dunque, nella quale all’analisi delle cause si sostituisce una cura degli effetti (242-243).
[…]
Il dispiegamento della logica umanitaria, difatti, non fa che spogliare gli eventi di qualsiasi specificità di ordine storico-politico-economico e, nella ripetizione senza differenze di eventi drammatici, riafferma continuamente sia lo stato di emergenza da cui è legittimata, sia i rapporti di disuguaglianza entro cui si iscrive (243).
[…]
Ed è qui che risiede l’essenza  e la forza (ideologica) della ‘ragione umanitaria’ come nuovo dispositivo egemonico di governo: nella sostituzione del vecchio lessico della politica organizzato attorno a espressioni come lotta, sfruttamento, dominio, diritti, giustizia, con una nuova grammatica discorsiva in cui a prendere il sopravvento sono nozioni di tipo morale come compassione, sofferenza, solidarietà (243).
[…]
Tuttavia, se è chiaro che ci troviamo permeati da un ordine del discorso politico dominato dall’empatia e dai sentimenti morali, è ormai altrettanto chiaro, a nostro avviso, come, per quanto riguarda le migrazioni, ‘il governo umanitario’ sia indissociabile dalla mercificazione progressiva del sistema dell’accoglienza, ovvero dai processi neoliberali di valorizzazione economica e di messa al lavoro di quegli stessi soggetti descritti attraverso la figura del ‘bisognos* d’aiuto’. Descrivere i dispositivi di governo umanitario senza metterne in evidenza né gli aspetti di rendita e di profitto, né la loro centralità nella produzione ’istituzionale’ di una forza lavoro precarizzata e semi-servile, equivale a de-politicizzare quella stessa critica alla de-politicizzazione che è la tesi forte dell’autore (244-245).
[…]
Per quanto la lotta per cercare di salvare vite umane sia assolutamente importante, ci sembra necessario che essa si rifletta all’interno di un’analisi che tenga conto della complessità del presente. Un’accettazione acritica del paradigma umanitario rischia infatti non solo di non rivelarsi all’altezza della sfida, ma di produrre effetti politici perversi (247)
.

Analisi come queste segnano la differenza tra una prospettiva economico/politica -e quindi strutturale ed emancipatrice dallo sfruttamento– e una prospettiva soltanto morale e sentimentale, limitata alla discriminazione formale e quindi reazionaria.

Contro l’umanismo

Il numero 2/2018 (uscito nel 2019) del «Giornale Critico di Storia delle Idee» si occupa Dell’uomo e dei diritti / On Human and Rights (a cura di Gianpaolo Cherchi e Antonio Moretti, Mimesis Edizioni, pp. 312). Vi è stato pubblicato anche un mio saggio dal titolo Oltre l’umanismo, oltre l’umanitarismo, nel quale ho cercato di mostrare alcune delle ragioni per le quali l’umanitarismo è un ostacolo all’emancipazione. 

Pdf del testo (pagine 59-69)

Abstract
At the beginning of the 21st century the transhuman unfolded both as anthropocentric hyperhumanism and as anthropodecentric posthumanism. In any case, the human is and remains a zoon immersed in the Wille zum Leben and hybridized with the φύσις, with the τέχνη, with the θείος. Also for this reason every reduction of individual and collective life to the domination of the humanistic dimension risks to create a device not of emancipation but of offense to the human and to nature. Therefore we must go beyond the humanistic perspective and beyond its humanitarian declination.

Indice
1 Ibridazione e oltreumano
2 Corpi sociali e Intelligenze Artificiali
3 Parola, potere, web
4 Oltre l’umanismo, oltre l’umanitarismo

Alcuni brani

L’innato bisogno di comunicare che caratterizza la nostra specie diventa così una preziosa e insieme abbondante materia prima. Siamo diventati non più lavoratori consapevoli della nostra identità e del conflitto sociale ma parte essenziale e primaria del prodotto generale che si vende e che si acquista. La merce principale sono i nostri stessi comportamenti sul web, a partire dai più piccoli spostamenti del mouse sino alla comunicazione dei dati privati necessari per ottenere servizi e -di più- per entrare a far parte della Rete collettiva. Sul web la nostra identità coincide con le nostre azioni ed è per questo che «se non si vede il prezzo, se è gratis, la merce sei tu. Tu, interamente, sei materia prima: tutto ciò che compone la tua identità, la tua soggettività. Non solo il tuo tempo d’attenzione, non solo un po’ dello spazio nel tuo cervello: tu, corpo e anima, anima-carne, desideri e pulsioni, sogni e relazioni, carattere in evoluzione» (Ippolita, Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale, Meltemi, 2017). Siamo il prodotto e siamo anche la moneta che serve a farlo circolare. Siamo il gioco e l’energia del fiume di parole, informazioni, richieste, scambi, immagini, suoni, in cui consiste la Rete. 

Il culto per l’individuo senza legami, per i suoi diritti universali – uguali dappertutto – e per il mercato del quale è parte attiva, passiva e intrinseca è il fondamento dell’anarco-capitalismo che fa da base alle attività delle maggiori Corporations del Web. Il libertarianesimo costituisce la forma estrema del liberalismo, quella nella quale l’individuo si illude di essere signore di se stesso ed è invece continuamente sotto il controllo di un panottico digitale la cui necessità facebook e il suo fondatore teorizzano esplicitamente, ritenendo la privacy un bisogno superato ed equivoco, da sostituire con forme di trasparenza del corpo sociale così radicali da non poter essere definite in altro modo che come trasparenza totalitaria.

Stadio contemporaneo della guerra di tutti contro tutti, l’economia digitale è una delle forme dominanti del capitalismo globalizzato che ha distrutto anche il progetto europeo, facendolo diventare una struttura soltanto mercantile e ‘umanitaria’, umanitaria in quanto mercantile. Un umanitarismo liberista dei diritti umani che ha dimenticato l’umanitarismo comunista di Karl Marx, per il quale uno degli strumenti decisivi dello sfruttamento dei lavoratori è l’«esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial], indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione» (Das Kapital, libro I, sezione VII, cap. 23).

Negli anni Dieci del XXI secolo l’esercito industriale di riserva si origina dalle migrazioni tragiche e irrefrenabili di masse che per lo più fuggono dalle guerre che lo stesso Capitale -attraverso i governi degli USA e dell’Unione Europea- scatena in Africa e nel Vicino Oriente. Una delle ragioni di queste guerre – oltre che, naturalmente, i profitti dell’industria bellica e delle banche a essa collegate – è probabilmente la creazione di una riserva di manodopera disperata, la cui presenza ha l’inevitabile (e marxiano) effetto di abbassare drasticamente i salari, di squalificare la forza lavoro, di distruggere la solidarietà operaia. È anche così che si spiega il sostegno di ciò che rimane della classe operaia europea a partiti e formazioni contrarie alla politica delle porte aperte a tutti. Non si spiega certo con criteri moralistici o soltanto politici. La struttura dei fatti sociali è, ancora una volta, economica. Tutto questo si chiama anche globalizzazione. Il dispositivo concettuale marxiano dell’esercito industriale di riserva ha ancora molto da insegnare agli umanisti liberali di sinistra che si fanno complici del Capitale senza neppure rendersene conto. Il sostegno alla globalizzazione o il rifiuto delle sue dinamiche è oggi ciò che davvero distingue le teorie e le pratiche politiche, non certo le obsolete categorie di destra e sinistra.

«Sappiamo di essere vivi e sappiamo che moriremo. Sappiamo anche che soffriremo durante la vita, prima della sofferenza -lenta o veloce- che ci condurrà alla morte» (T. Ligotti, La cospirazione contro la razza umana, Il Saggiatore, 2016). Anche per questo l’umano non può pretendere nessun particolare e diverso valore dentro la φύσις. Non lo può pretendere non solo e non tanto per il destino di morte che ci accomuna a ogni altra cosa viva; non lo può soprattutto per la miopia con la quale gli umani credono di determinare con la propria volontà il loro destino. E invece le più disincantate – alla lettera ‘disumane’ – forme del sapere mostrano che siamo enti mossi da forze potenti e invincibili, al modo dei guerrieri che combattevano sotto le mura di Ilio.

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