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La promessa

Friedrich Dürrenmatt
La promessa
(Das Versprechen, 1958)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Silvano Daniele
Einaudi-Gallimard, Torino 1993
Pagine 307-425

Un commissario di polizia del cantone di Zurigo, Matthäi, sta per partire per la Giordania, dove è stato incaricato di addestrare i poliziotti locali. Gli si presenta un ultimo caso: una bambina, Gritli Moser, è stata uccisa in un bosco non lontano da casa, con un rasoio che ne ha fatto scempio. Lui stesso dà la notizia ai genitori e davanti alla reazione disperata e animalesca della madre le promette di trovare l’assassino. Sottoposto a un interrogatorio di venti ore, un ambulante confessa e poi si uccide. Il caso sembra dunque chiuso ma Matthäi è convinto che il vero assassino sia ancora in libertà e potrà uccidere altri bambini. Ossessionato da questa ipotesi, rinuncia a partire, viene licenziato dalla polizia, inizia a indagare privatamente. Da uomo freddo, efficiente e razionale che era, Matthäi scende in un gorgo di tormento e di assillo che non gli darà più pace.
Questa vicenda viene raccontata allo scrittore dal dirigente superiore di Matthäi, con un finale che qui non va ovviamente svelato ma che conferma per intero la ferocia e la pochezza, l’assurdo e la miseria degli umani, che Dürrenmatt narra e descrive con la consueta implacabile lucidità e con dolorosa ironia.
«Delitti ne accadevano sempre» (p. 360), anche per mano di persone psicologicamente distorte, la cui «capacità di resistenza che possono opporre ai propri impulsi», dichiara uno psichiatra, «è anormalmente scarsa, basta maledettamente poco, un ricambio materiale un po’ alterato, qualche cellula degenerata, e l’uomo è una bestia» (376). Lo scrittore non si astiene dal consueto paragone con gli altri animali, con ‘le bestie’, che se può valere per i nostri cugini primati o per le formiche (insetti veramente feroci) e per alcune specie di uccelli, non è corretto per la stragrande maggioranza dei viventi, i quali praticamente mai uccidono per follia o per sadismo ma quasi soltanto per difendere o acquisire territorio, femmine e risorse. Le bestie, come è evidente, siamo noi.
E se i cittadini sperano in media che la polizia sappia mettere ordine nel mondo, il dottor H. – colui che narra allo scrittore la vicenda e dunque poliziotto egli stesso – ritiene di non poter «immaginare nessuna speranza più pidocchiosa di questa» (314). Spesso, anzi, le ‘forze del disordine’ sono esse stesse espressione del male, come si constata ovunque ogni giorno. Né le polizie né le religioni o le morali hanno mai potuto redimere la «maledetta commedia da cani» (403) che è l’esistenza collettiva degli umani. E anzi religioni e morali contribuiscono fattivamente al dolore del mondo, con le loro intolleranze e presunzioni, con le loro autentiche follie.
L’umano non può essere redento, in quanto «aus so krummen Holze, als Woraus der Mensch gewacht ist, kann nichts ganz Gerades gezimmert Werden», «da un legno storto, come quello di cui l’umano è fatto, nulla si può trarre di perfettamente dritto’» (Kant, Ideen zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (1784), in «Gesammelte Schriften», Berlin 1910, vol. VIII, p. 23). Un modo per temperare la stortezza/stoltezza di questa specie è capirne la natura e accettarne la struttura finita. Non soltanto come destino mortale ma in quanto dispositivo che produce morte. Come afferma ancora una volta il dottor H., «Siamo uomini, dobbiamo tenerne conto, armarci contro questa realtà, e soprattutto avere ben chiaro in mente che riusciremo a evitare il naufragio nell’assurdo, che per forza di cose risulta sempre più netto e schiacciante, e a costruirci su questa terra un’esistenza abbastanza confortevole, solo incorporandolo tacitamente nel nostro pensiero» (412).
A risolvere il caso dell’assassinio della bambina Gritli Moser è una vecchia che si trova in punto di morte ma ciononostante è assai vivace. È lei a raccontare al dottor H. che cosa sia veramente accaduto. Tra le tante premesse che pone al suo resoconto c’è la singolare tesi «che anche il male, l’assurdo  succede come qualcosa di altrettanto straordinario che il bene» (420-421).
Da gnostico qual è, Dürrenmatt sa infatti che il male e il bene sono strutture acquisite, derivate, provvisorie e cangianti. E che la sostanza degli uomini, il loro male, sta invece nella loro nascita.

In un certo luogo e in un certo istante

Juror #2
(Giurato numero 2)
di Clint Eastwood
USA, 2024
Con: Nicholas Hoult (Justin Kemp), Toni Colette (Faith Killebrew), Chris Messina (Eric Resnick), Gabriel Basso (James Michael Sythe), J.K. Simmons (Harold)
Sceneggiatura di Jonathan Abrams
Trailer del film

Una maestria registica ormai certa del proprio talento guida una vicenda che si svolge in soli tre spazi: un’aula di tribunale, l’abitazione di uno dei giurati, il luogo dove una giovane donna è stata trovata morta in una notte di pioggia battente.
Le tesi dell’accusa e della difesa si alternano velocemente a descrivere i fatti e a darne subito interpretazioni diverse. Il giurato numero 2, Justin Kemp, sa bene che cosa sia accaduto la notte in cui la ragazza è morta. Lo sa perché c’era. Se ne rende conto soltanto a processo iniziato e questo produce in lui una profonda inquietudine, che si trasforma inesorabilmente in angoscia, paura, autodifesa, e lo fa camminare sul rischioso crinale dove verità e menzogna si mescolano senza però riuscire a nascondere al suo cuore l’evento. Al suo cuore e poi a poco a poco alla mente di altri.

Juror #2 è molto più di un film giudiziario scandito con tempi e alternanze che mai distraggono lo spettatore dalla tragedia greca che gli si sta dispiegando davanti. È un film nel quale il disincanto di tante opere di Eastwood tocca un’oggettività nello stesso tempo gelida e misericordiosa verso il destino, il ‘malo destino’, degli esseri umani.
Giurato numero 2 è un trattato di filosofia morale nel quale il diritto mostra le proprie potenzialità ma anche tutti i suoi limiti di fronte a una parola troppo grande, troppo distante dalle possibilità umane, pur essendo una parola necessaria: Giustizia.
La prima scena mostra la giovane moglie di Justin avanzare bendata (le si prepara una felice sorpresa) come bendata è la dea della giustizia, Θέμις. La cui statua davanti al tribunale vede più volte i piatti della bilancia muoversi a caso, così come il vento li spinge.
Dell’ingiustizia fanno parte l’ambizione professionale del pubblico ministero (negli USA la carica di procuratore è elettiva e quindi inevitabilmente soggetta anche a demagogia); le procedure sbrigative della polizia, soprattutto quando l’imputato – James Michael Sythe, compagno della vittima – è un pregiudicato; la fretta dei giurati di tornare alle proprie attività, famiglie, commerci, tranquillità. Fretta che non prende, non può prendere, il giurato numero 2, nonostante sua moglie stia completando una gravidanza a rischio.
Non può perché questo giurato incarna interamente la colpa, il debito, il male in cui consistono l’esserci in un certo luogo e in un certo istante. Ma l’esserci in un certo luogo e in un certo istante è la necessaria espressione e forma dell’esistere, dato che – essendo nati – da qualche parte bisogna pur stare. Meglio sarebbe stato non occupare lo spaziotempo in forma umana, in nessuna forma.

Juror #2 è una tragedia ellenica che non soltanto rispetta in gran parte le tre unità drammaturgiche di Aristotele ma soprattutto indica nell’esistenza stessa la colpa, al di là di ogni intenzione e di ogni volontà.
E questo perché «das Dasein ist als solches schuldig», l’esserci è come tale colpevole (Sein und Zeit, trad. di Alfredo Marini, Mondadori 2006, § 58, p. 802). L’esser colpevoli non risulta da un qualche debito specifico ma ogni specifica colpa – comprese quelle di James Michael Sythe, di Justin Kemp, la mia colpa, come di ogni altro umano – è possibile solo sul fondamento di un «ursprünglichen Schuldigseins», di un esser colpevoli originario (Ivi, § 58, p. 799). Venire al mondo è questa colpa.

Un paradigma ontocentrico

Prefazione a:
È il nascere che non ci voleva
Storia e teoria dell’Antinatalismo

di Sarah Dierna
Mimesis 2025
Collana «Eterotopie», pp. 358
Pagine 11-16

Quarta di copertina:
«Il tema che questo libro affronta è certamente antico: il senso e il significato dello stare al mondo. E tuttavia i concetti analizzati, le modalità di indagine, la prospettiva dalla quale la questione viene posta, discussa, affrontata e risolta sono nuovi. Essi costituiscono anche il risultato della rottura dei confini disciplinari, di specialismi spesso utili ma altre volte sterili, di uno sguardo sull’umanità e sulla storia disincantato e insieme partecipe. La prospettiva antropodecentrica proposta da Sarah Dierna si fonda sulla distanza, sulla necessità di affrontare l’Antinatalismo sine ira et studio e con una pluralità di riferimenti alla storia della cultura, alla storia delle religioni, alle letterature e alla filosofia. Prospettive che vengono articolate in un percorso, dai Greci sino al XXI secolo, che impressiona per la ricchezza dei riferimenti, per la sobrietà dell’argomentare, per la chiarezza e la plausibilità di concetti e pratiche che si aprono a ulteriori sviluppi».

Aggiungo che la tesi filosofica che va sotto il nome di Antinatalismo riceve in questo libro (per la prima volta in Italia) una sistematizzazione che è insieme storica e concettuale. In tal modo Sarah Dierna offre al dibattito culturale, etico e antropologico un contributo di sicuro valore scientifico e di grande fecondità teoretica.

Contro la nascita

Contro la nascita
il Pequod
anno V, numero 10, dicembre 2024
pagine 38-51

Indice
1 βίος
2 Strategie
3 Una tragedia ridicola
4 Entropia e DNA
5 Oltre la vita, la materia
6 Il mondo è perfetto

«Chi genera un umano genera un condannato a morte. Il quale non soltanto morirà ma lungo tutto il corso del suo esistere dovrà sostenere difficoltà, inquietudini, malattie, pianti. Una simile azione non può che essere definita come frutto di egoismo supremo. Certo, essa viene compiuta in obbedienza a un potente ordine del βίος, dell’impulso che guida ogni entità vivente a riprodurre se stessa e tramite se stessa far sopravvivere la specie alla quale appartiene. Per sottrarsi a una simile forza è necessaria molta consapevolezza, molta tenacia, molta razionalità. Ma appunto tale è l’esistenza che la pratica filosofica regala, un’esistenza fatta anche e specialmente di consapevolezza, tenacia, razionalità. Questo è ciò che Homo sapiens può fare: sottrarsi al demone della nascita, all’imperativo della specie, all’ordine della morte.
[…]
Il mondo in quanto tale, al di là dei viventi, è un’energia e un destino che accadono senza dolore, come senza dolore esistono e accadono ‘la roccia o il mare, una cosa sorda e refrattaria, qualcosa che non può soffrire perché non conosce sofferenza: né quella che lui dà agli altri né quella che gli altri dànno a lui’ (Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca). Il mondo è perfetto ovunque non ci sia nascita organica ma si dia la potenza senza dolore della materia e del tempo».

[Considero questo uno dei testi fondamentali del mio percorso. Poche pagine nelle quali ho cercato di riassumere quanto ho compreso della materia e dell’esserci. Spero che i miei amici vorranno leggerlo e conservarmi la loro amicizia, soprattutto gli amici che hanno avuto dei figli 🙂 .
In ogni caso, la tesi più importante che il saggio intende argomentare è che il mondo è perfetto. Espressione che va presa alla lettera. È dunque un testo dalla tonalità del tutto positiva]

Crimini

Friedrich Dürrenmatt
Il complice
Commedia
(Der Mitmacher, 1971-1973, prima rappresentazione a Zurigo 5.3.1973)
In «Teatro», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Emilio Castellani
Einaudi-Gallimard, Torino 2002
Pagine 951-1010

Tra il 1957 e il 1985 Friedrich Dürrenmatt scrisse un romanzo intitolato Justiz, allo scopo esplicitamente dichiarato di «sondare ancora una volta scrupolosamente le possibilità che forse restano alla giustizia» (Giustizia, Garzanti 1989, p. 11). La risposta, negativa, è del tutto chiara anche in questa ‘commedia’ dei primi anni Settanta. I suoi temi sono la giustizia, appunto, e la catastrofe.
La trama si incentra su Doc, un chimico, uno scienziato brillante e riconosciuto – il quale «credev[a] alla favola della libertà della scienza» (p. 954) – che dopo essere passato dall’università all’industria privata viene licenziato e si ritrova a fare il tassista. In questa veste incontra un boss della malavita al quale si offre come capace di risolvere il problema dello smaltimento dei cadaveri, che lui è in grado di disgregare e gettare nelle fogne come liquidi. Abita dunque da anni nei sotterranei di un palazzo dove ha sede il suo laboratorio di necrodialisi, nel quale vive, dorme e legge fumetti. Il ‘mondo di sopra’ gli è assente. Eliminare in questo modo altri umani è solo questione di affari – non sa chi sono, non gliene importa – ed è noto che «tutti gli affari sono sporchi» (975), che «il mondo degli affari si regge sulla brutalità» (988).
Insieme al Boss arrivano via via Cop, un capo della polizia corrotto che chiede il 50% degli introiti della ditta, e Bill, un giovane diventato, dopo aver fatto uccidere lo zio, l’uomo più ricco del mondo. Bill è figlio di Doc, ha maturato una forma estrema di anarchismo e offre una cifra enorme per far uccidere al Boss il presidente della Repubblica. La motivazione sta nel tentativo di portare alla consapevolezza i cittadini mediante una serie di catastrofi politiche, anche perché «solo la perdita di affari colossali può avere qualche effetto su un mondo come questo» (1003). Affermazione di inquietante attualità, dato che i maggiori conflitti in corso, in Ucraina e in Palestina, sono frutto appunto di affari, delle aziende produttrici di armi ma non soltanto di esse. Ma sullo sfondo e dentro il testo emerge con chiarezza che la vera e inevitabile catastrofe è l’esistenza dell’umanità.

Un’esistenza quasi del tutto priva di un valore del quale sono pieni i trattati di etica, di giurisprudenza, di teologia: la giustizia, appunto. Rivolgendosi a Doc il poliziotto chiede: «Giustizia, figliolo? È pura fantasia, disse. […] La giustizia è impossibile». E aggiunge: «Oggi viene tolto di mezzo chi scopre un crimine, non il criminale» (1005); un’affermazione che costituisce l’epigrafe, ad esempio, del caso Assange, il giornalista incarcerato, perseguitato e condannato dal democratico e libero Occidente per aver semplicemente reso note le comunicazioni interne agli apparati di potere degli Stati Uniti e delle sue colonie, comunicazioni di natura criminale, appunto. Il fatto è che la criminalità è «già da un bel po’ la forma tipica della civiltà di oggi» (1006).
Tale intrinseca assenza di giustizia è tuttavia a sua volta un elemento secondario, derivato. È uno dei tanti fattori prodotti dall’inverosimile casualità che ha condotto l’evoluzione, o comunque il meccanismo chimico, all’esistenza di un animale capace di elaborare linguaggio e concetti e dunque di utilizzarli per la distruzione. La complicità sta nell’esistenza stessa di questo «vertebrato della malora» (1244), che si è moltiplicato sino a raggiungere nel 2022 l’incredibile cifra di otto miliardi di esemplari e la cui proliferazione a livello mondiale non accenna a diminuire.

L’ampio commento di Dürrenmatt a questo suo testo indica con chiarezza la necessità di fermarsi, o meglio indica con chiarezza il fatto che se questa specie di conigli bipedi non cercherà da sola di fermare la propria riproduzione, provvederà per essa il sistema biologico del quale è soltanto una parte:

Questa esplosione di abitanti del pianeta può avere come conseguenza solo la fame che esisteva, è vero, anche in precedenza, ma che ora cresce immensamente, vista la quantità enorme di abitanti della terra e non solo la fame, anche le epidemie sono in agguato, epidemie che senza dubbio imperversavano anche in precedenza, ma che ora si propagano nonostante la medicina moderna, con virus che in un certo senso si inventano da sé, anche le catastrofi naturali diventano sempre più spaventose, poiché aumentano anche le loro possibili vittime, senza che la fame, le epidemie e le catastrofi naturali arrivino peraltro a porre un freno a questa crescita gigantesca dell’umanità (1244).

E tuttavia sui tempi della natura non soltanto terrestre, sui tempi della natura e basta, dei processi energetici  del Sole e della materia universale, su tali scale temporali tutto questo rimane irrilevante poiché «dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire» (Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, trad. di Giorgio  Colli, in «Opere», vol. III/2, Adelphi 1964 e sgg., p. 355).
E questo è la giustizia.

Biotecnologie

Biotecnologie e antropodecentrismo
in Tecnica e coesistenza. Prospettive antropologiche, fenomenologiche ed etiche
A cura di Lorenzo De Stefano
Quaderni di Mechane, volume n. 2
Mimesis, 2024
Pagine 149-156

Indice
-Etoantropologia
-Sperimentazione animale
-Biotecnologie

In questo saggio, frutto della relazione che presentai a un Convegno tenuto a Napoli nel settembre del 2021, ho cercato di delineare alcuni elementi essenziali dell’antropodecentrismo a partire dall’etoantropologia, vale a dire dalla piena continuità tra l’animale umano e gli altri animali. Su tale base perdono ogni legittimità e ogni significato scientifico e ontologico sia le vecchie pratiche di ‘sperimentazione animale’ come la vivisezione sia molte delle nuove biotecnologie, le quali non comprendono che ogni animale ha il proprio modo di stare al mondo, le proprie specificità etologiche, la propria struttura percettiva e situazione spaziotemporale. In una parola la propria Umwelt, lo spaziotempo che ogni vivente consapevole non si limita ad abitare ma lo spaziotempo che è. Tutti elementi che le biotecnologie cancellano imponendo alla vita animale e al singolo vivente strutture spaziali e ritmi temporali del tutto artificiali, estranei alla specificità etologica dell’individuo e della specie.
L’animalità è trasformazione, certo, è ibridazione, scambio, flusso ma tutto questo ha senso e conduce a risultati adattivi nei tempi lunghi dell’evoluzione. Non esiste invece trasformazione, ibridazione, flusso quando le trasformazioni genetiche vengono «mediate dalle tecnologie che sono state imposte agli animali in laboratorio praticamente da un giorno all’altro (secondo i parametri evoluzionistici)» (Zipporah Weisberg).
Chi, anche in ambito postumano se non addirittura animalista, guarda con favore le biotecnologie in quanto nemiche dell’essenzialismo – una vera ossessione per molto ambientalismo progressista – non sa quel che dice, non si rende conto che difendere l’essenza degli enti – sempre dinamica, certo, come tutto ciò che esiste – significa salvaguardare gli enti dalla manipolazione arbitraria e dalla distruzione interessata. Sempre Weisberg afferma giustamente che «i postumanisti tendono a romanticizzare il ruolo che la tecnologia ha nel ‘queerizzare’ e nel ‘trasgredire’ i confini tra umani, animali e tecnologie».
Le biotecnologie fondate sul mercato della vita sostengono che lo stare al mondo è una collazione di particolari; l’olismo fenomenologico ed etologico ritiene invece che ogni singola sensazione, dolorosa o piacevole che sia, ha senso e funzione soltanto all’interno di una complessiva struttura relazionale e adattiva, nella quale sono profondamente coniugati gli aspetti chimici, percettivi, neurologici.
In sintesi, le biotecnologie che riducono l’animalità a un’invenzione brevettabile costituiscono una pratica di sterminio e rappresentano il momento più basso delle relazioni tra l’animale umano e gli altri animali.
Le forze economiche del capitale e del suo feticcio per eccellenza – il mercato – non rinunciano mai da sole e spontaneamente al loro dominio. Se la situazione ecologica del mondo contemporaneo è questa, se «l’uomo non sa esistere se non attraverso il dominio», allora ha ragione Patricia Mac Cormack a stupirsi per «come gli ambientalisti possano ancora riprodursi, come i vegani possano ancora riprodursi e come gli ambientalisti possano non essere vegani» e a proporre una plausibile posizione estinzionista. Perché il punto sembra ormai questo: o noi o il pianeta vivente. Ma il pianeta può vivere senza l’umano, l’umano non può vivere senza il pianeta, nonostante la ὕβρις biotecnologica si illuda del contrario.
Forse è arrivato il momento per tutte le scienze di andare oltre il paradigma antropocentrico che accomuna creazionismi e tecnofilie, che coniuga religioni e scientismi, per volgersi verso un più ampio paradigma etoantropologico consapevole del limite delle risorse della Terra e della profonda relazione che tutti i suoi abitatori intrattengono tra di loro, come singoli, come società e come specie.

Più bravi

Tra i numerosi saggi che i miei allievi hanno pubblicato di recente, ne segnalo alcuni che mi sembrano particolarmente significativi.

-Daria Baglieri, Una memoria pre-biografica? Ricordo e oblio come esperienze somatiche «Filosofia Morale/Moral Philosophy», n.5, 2024/1, pp. 103-113. Baglieri articola e approfondisce con particolare chiarezza il plesso essenziale e teoretico così intricato sul quale sta lavorando da anni, quello che rende inseparabili nell’animale umano la memoria e l’oblio, elementi entrambi indispensabili alla vita del corpomente.

-Sarah Dierna, Peter Wessel Zapffe. Il profeta dell’“Ultimo Messia”, «Dialoghi Mediterranei» n.68, luglio-agosto 2024, pp. 538-550. Si tratta di uno dei pochissimi contributi in lingua italiana dedicati a Zapffe, scrittore e filosofo norvegese vissuto tra il 1899 e il 1990, tra i più originali sostenitori dell’antinatalismo. Un pensatore rigoroso e insieme visionario, del quale Dierna delinea la figura e le tesi in maniera assai limpida, mettendo al centro un racconto del 1933 ma andando anche al di là di questo specifico testo.

-Lucrezia Fava, Sull’Apocrifo di Giovanni, in «Letteratura e Bibbia. Atti delle Rencontres de l’Archet Morgex, 14-19 settembre 2020», Centro di Studi storico-letterari Natalino Sapegno 2022, pp. 113-121. Studiosa delle relazioni tra filosofia contemporanea e gnosticismo antico, Fava presenta, analizza e interpreta qui uno dei testi gnostici più chiari ed emblematici, in un saggio che si pone all’incrocio tra storia delle religioni ed ermeneutica filosofica.

-Enrico Moncado, Note sulla «Einleitung in die Phänomenologie der Religion» di Martin Heidegger, in «Mondi. Movimenti sociali e simbolici dell’uomo», vol. 5/2022, pp. 45-58. Moncado ha dedicato il suo dottorato all’analisi dell’escatologia nel pensare heideggeriano. Questo saggio sul legame e sulle differenze che intercorrono tra l’escatologia paolina e quella di Heidegger conferma per intero come dalla più potente esperienza teoretica del Novecento scaturiscono di continuo elementi di grande fecondità anche nell’ambito della fenomenologia della religione. 

-Enrico Palma, «La clôture de la joue». Un’indagine metafisica sul limite tra dolore, finitudine e temporalità. «Aretè. International Journal of Philosophy, Human & Social Sciences», vol. 8/2023 [ma uscito nel 2024], pp. 223-247. Un saggio nel quale l’intersezione tra parola teoretica e parola letteraria, che segna la monografia da Palma dedicata a Proust, contribuisce a comprendere meglio alcuni degli enigmi di fondo della vita umana.

Invito a leggere, senza fretta, questi testi e a verificare di persona la loro qualità scientifica. I loro autori stanno tutti lavorando a progetti di ricerca di grande rilievo, dei quali i saggi qui segnalati sono tappe e insieme sintesi. I miei allievi stanno diventando più bravi di me. Uno degli obiettivi del mio insegnamento comincia a essere conseguito.

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