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Afshin Kaveh su Animalia

Afshin Kaveh
Ripensare l’animalità all’epoca del disastro
Critica antropodecentrica in un libro di A.G. Biuso
Recensione su Effimera, 21 ottobre 2020

Ringrazio Afshin Kaveh per una recensione fortemente politica, poiché libro anche politico è (almeno nelle mie intenzioni) Animalia.
«Le pagine di Animalia, organizzate in ventidue capitoli, si susseguono avventurandosi nella concezione di tutti quei dispositivi culturali che attanagliano il vivente e il vissuto, gli stessi che pongono noi animali umani come cardine centrale illudendoci “di essere i signori del mondo” e (tra allevamenti e laboratori) dei suoi abitanti non-umani, andando così a formare un tavolo antropocentrico che traballa sulle tre gambe dell’ontologico, dell’epistemologico e dell’etico e che Biuso – quasi come un saggio artigiano in uno scambio organico tra sé e l’oggetto della sua ricerca e della sua critica – distrugge, componente dopo componente, “a favore di una pratica antropodecentrica”. Nel farlo, tra le tante cassette degli attrezzi procuratosi, fa propria la dialettica francofortese, da Marcuse, Horkheimer sino ad Adorno, oltre a recuperare l’In-der-Welt-sein heideggeriano, per poi comprendere la molteplicità degli enti, viventi il e nel mondo intero, come differenza».

Giuseppe Frazzetto su Animalia

Giuseppe Frazzetto
Fratelli animali, creature viventi
Recensione su La Sicilia, 20 ottobre 2020, pagina 16

Giuseppe Frazzetto ha dedicato ad Animalia un articolo/recensione nel quale afferma, tra molti altri elementi ermeneutici di grande interesse, che «avendo come numi tutelari tre autori diversissimi (Ernesto De Martino, Elias Canetti e, soprattutto, Guido Morselli, sorta di guida nel regno del postumanesimo col suo Dissipatio H.G.), Biuso intride il suo libro di un senso di pietà nei confronti delle “alterità non umane”. Tuttavia, a motivare l’argomentazione non è soltanto la ripugnanza per il dolore loro inflitto. C’è la necessità di ripensare, in concreto, il modello di sviluppo e di produzione, a livello planetario. […] Particolare rilievo assumono nozioni filosofiche come quelle di Identità e Differenza, e ipotesi scientifiche come quelle relative alla ibridazione in epoche remote fra varie specie, tutte umane, in particolare fra i Sapiens e i Neandertaliani. […] In ogni caso, non si tratta di proporre argomentazioni moraleggianti, ma di trovare le maniere d’un patto fra i viventi che tenga in considerazione, senza illusioni, la presenza del dolore, del conflitto, della “dissipazione” dell’umano e dell’oikos, il “mondo” in cui viviamo e che in definitiva siamo».

[Photo by Megan Maria Belford on Unsplash]

Augusto Cavadi su Animalia

Augusto Cavadi
Perché l’uomo è spietato con gli animali e non li tutela?
in Zero Zero News, 7 settembre 2020

In questo articolo Augusto Cavadi colloca Animalia nell’ampia questione della genesi, identità ed evoluzione dell’umano.
Ho particolarmente apprezzato questa frase: «un testo impegnativo teoreticamente, che vale per intero la concentrazione mentale, e direi spirituale, che esige», poiché essa fa riferimento alla dimensione spirituale di un libro dall’impronta materialistica ma di un materialismo non riduzionistico.
L’autore continua poi accennando al «”superamento del paradigma vitruviano – la perfetta figura umana dentro un cerchio – a favore di una pratica antropodecentrica e postumana”. Se questa prospettiva (che viene argomentata sin dalla Prefazione a firma di Roberto Marchesini) risultasse convincente da ogni punto di vista, si dovrebbe comunque mettere in conto la resistenza psicologica  – direi psicanalitica – dell’umanità ad accettare tale ennesima ferita narcisistica: non è facile per uno che si è creduto per millenni re, e che come tale si è comportato in maniera dispotica, accettare di scendere dal trono dell’antropocentrismo “ontologico”, “epistemologico” e “etico” per vivere da comune cittadino del mondo alla pari con gli altri ospiti del pianeta».
Cavadi esprime poi delle delle «perplessità su questo orizzontalismo ontologico e assiologico», chiedendosi in ogni caso «ammesso – e non concesso – che gli altri animali abbiano meno diritti di noi perché meno consapevoli, la nostra maggiore consapevolezza non implica doveri da parte nostra nei loro confronti più netti e gravosi dei loro doveri verso di noi?»

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«Animali siamo tutti, tutti»

Volevo nascondermi
di Giorgio Diritti
Italia, 2020
Con: Elio Germano (Antonio Ligabue), Pietro Traldi (Renato Marino Mazzacurati), Orietta Notari (Madre Mazzacurati), Francesca Manfredini (Cesarina), Paola Lavini (Pina)
Trailer del film

Dentro un sacco, nel gelo dei campi, nelle stalle svizzere e sulle rive del Po. Un dialetto svizzero-tedesco assai duro e un altrettanto stretto dialetto della bassa reggiana, a Gualtieri. Città della quale era originario l’uomo che gli diede un cognome odiato, che Antonio cambiò in Ligabue. Due madri, una biologica e l’altra adottiva, amate e, in modi diversi, assenti. E sopratutto la potenza creativa che sgorga anche dai corpimente più martoriati, dalla psiche più contorta, solitaria, dispersa.
E poi esplode nei colori sfavillanti, nelle forme espressionistiche, negli animali amati imitati abbracciati, quegli «animali che siamo, tutti, tutti» come Antonio dice a un amico. Dell’animalità è parte anche il desiderio erotico che neppure diventato ricco e famoso dà a Ligabue l’amore, perché le donne sono da lui tanto volute quanto temute. «Follia» è parola che tutto spiega e nulla spiega di una vita così dolente e appassionata, ascetica e ctonia, orgogliosa «sono un artista io, un grande artista!» e umilissima. La vita di uno dei pittori più profondi e radicali del Novecento, le cui tele sono terra, foreste, simboli, morte che divora, forma che rinasce.
Alla persona di Ligabue Elio Germano regala un personaggio estremo e forte, mai patetico, a volte insopportabile a se stesso e agli altri.
Sullo sfondo crepuscolare e abbacinante dei campi e del fiume, del magnifico delta del Po, la vita di Ligabue viene narrata da Giorgio Diritti in modo anche rigoroso, poetico, allusivo, delicato. E molto terrestre.
«Il rimpianto del suo spirito, che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore, è rimasto in quelli che compresero come sino all’ultimo giorno della sua vita egli desiderasse soltanto libertà e amore», questa la frase che sta sulla sua tomba.

Animalia

Animalia (Villaggio Maori Edizioni, 2020, pagine 186) è il libro nel quale ho cercato di sistematizzare le ricerche che ho svolto in questi anni sullo statuto dell’animalità dentro il più ampio cerchio ontologico e a partire da una prospettiva antropodecentrica. Pur essendo assai diverso da Tempo e materia. Una metafisica, uscito qualche mese fa, Animalia ne costituisce una verifica empirica dedicata alla materia viva.
Il testo si compone di 22 capitoli, tra i quali: Biocentrismo e policentrismo (l’animale non esiste); Per una biologia disincantata e incosciente; Sacrifici animali; La Rivoluzione del DNA arcaico; Deep Ecology; Animalità politica; Da Horkheimer a Machiavelli; Anarchia e animalismo; Heidegger e l’animale; Etoantropologia (l’indice completo si trova nel pdf qui sotto).
A me sembra anche un libro semplice da leggere, che si chiude con un racconto (il secondo che pubblico, dopo Di stelle e di buio) dal titolo I Signori del cielo.
Sono grato a Roberto Marchesini, che ha scritto la Prefazione, e ai miei allievi che hanno letto una stesura preparatoria del testo e mi hanno aiutato a migliorarlo.

Il volume sarà disponibile nelle librerie a settembre ma è uscito un paio di settimane fa e lo si può già acquistare sul sito dell’editore.

Quarta di copertina
Pensare l’animalità significa ridisegnare il confine delle riflessioni sulla vita umana. Cosa rimane del presunto primato per cui l’essere umano è sempre stato considerato il vertice del biocentrismo? Possiamo ancora considerarci superiori in quanto appartenenti a una specie che mette a rischio persino la propria sopravvivenza? Animalia suggerisce un cambiamento di prospettiva, in cui l’arroganza dell’umano viene messa in discussione dallo sguardo con cui veniamo scrutati dagli altri animali, i quali compongono una molteplicità splendente e millenaria.
Alberto Giovanni Biuso indaga gli scenari filosofici, letterari e antropologici che sostengono il reticolato fitto e complesso dell’animalità, svelandone somiglianze e differenze: «un’anatomia comparata» come viene definita da Roberto Marchesini nella sua Prefazione.
Una riflessione necessaria non per decretare un vincitore unico all’interno del regno animale ma per creare una connessione diversa, nel rispetto della vita di tutti gli animali. Umani e non.

Recensioni

Animalità / Luce

Corpo e anima
(A teströl és a lélekröl)
di Ildikò Enyedi
Ungheria, 2017
Con: Alexandra Borbély (Mária), Morcsányi Géza (Endre), Ervin Nagy (Sanyi)
Orso d’Oro al Festival di Berlino 2017
Trailer del film

L’animalità è la calunnia che l’umano esprime in forme molteplici. L’animalità è la paura di vedere ciò che siamo e sempre rimarremo, al di là delle distopie transumaniste, fondate sul volontarismo della psiche e sulle tecnologie al servizio dell’individualismo liberista. L’animalità è la potenza della materia organica che ci costituisce. L’animalità è il desiderio, il timore, l’amore.
È la dolorosa e invincibile ricchezza dell’animalità umana che questo film racconta nella forma di una singolare storia d’amore ambientata in un macello di Budapest. Il maturo direttore Endre e la giovane dottoressa Mária – incaricata del controllo di qualità sulle carni – sono entrambi solitari e riservati, pur se in modi diversi. Mária è silenziosa, precisissima sul lavoro e – si scopre a poco a poco – dotata di una memoria formidabile che declina in modi infantili. La distanza di lei da ogni altro collega di lavoro sembra inoltrepassabile sino a quando Endre e Mária scoprono di fare tutte le notti lo stesso sogno, di essere due cervi che in un paesaggio innevato e solitario si incontrano, si annusano, si toccano, insieme corrono. Una scoperta che cambierà a fondo le loro vite.
Gli animali nella solitudine arcaica del loro mondo fatto di betulle, di laghi, di foglie, i cervi. Gli animali nella solitudine tecnologica di un mattatoio che in pochi minuti trasforma delle pulsanti vite in carne per i supermercati, le mucche. Cervi, mucche, umani sono la stessa animalità libera e oppressa, sovrana e schiava, sacra e squartata. Un’animalità fatta di desiderio, clamori, silenzio, morire.
Corpo e anima racconta e descrive tutto questo attraverso la poesia dei particolari, dei riflessi, degli occhi delle mucche e dei cervi, delle scarpe di Mária, degli sguardi umani, delle lampadine al soffitto, del cibo continuamente assunto e toccato. Lo racconta attraverso un eros intenso e delicato. Dal quale emerge la luce della materia, la luce che la materia è: E=mc2. L’animalità è parte di questa energia, materia, luce.

Epidemie, biodiversità, alimentazione

Come sempre, la scaturigine di ciò che accade è politica, sta nelle opzioni economiche e nella tracotanza che la natura punisce.
Lo conferma una analisi di Silvia Granziero sul numero del 7.4.2020 di Internazionale, Le pandemie sono una delle conseguenze della perdita di biodiversità:

«È la distruzione della biodiversità da parte dell’uomo a creare le condizioni per nuovi virus e patologie come la COVID-19. David Quammen, autore di Spillover. L’evoluzione delle pandemie, sintetizza così: “Sconvolgiamo ecosistemi e liberiamo virus dai loro ospiti naturali: quando succede, hanno bisogno di nuovi ospiti, e spesso siamo noi”. […]
La distruzione delle foreste – attraverso il taglio di legname, la costruzione di strade e miniere, l’urbanizzazione e la crescita demografica – avvicina le persone alle specie animali con cui non sono mai state così a contatto, e questo aumenta la possibilità per i virus di passare da una specie all’altra. […] L’attività umana danneggia anche la biodiversità animale, provocando una perdita di specie predatrici degli animali vettori. […]
In pratica, più disturbiamo habitat e foreste e più siamo in pericolo. […] Grazie alla loro adattabilità, i virus possono poi replicarsi e diffondersi con estrema rapidità grazie al sovraffollamento dei grandi centri. […]
Anche l’inquinamento gioca la sua parte […] quasi tutte le recenti pandemie sono state influenzate da alta densità di popolazione, aumento di commercio e caccia di animali selvatici, cambiamenti ambientali e allevamenti intensivi. […]
Dobbiamo metterci in testa l’idea che non si può salvaguardare la salute umana senza rispettare la biodiversità. È il momento di ripensare completamente la nostra relazione con la natura: fermare la crisi climatica, frenare la distruzione delle foreste e ridurre il consumo di risorse sono misure da avviare immediatamente. Anche le pandemie sono una delle le conseguenze della perdita di biodiversità. Quando quella da coronavirus sarà cessata, bisognerà intervenire sui fattori che l’hanno scatenata e renderci conto che la diffusione di questi nuovi virus è anche la risposta della natura all’assalto dell’uomo»
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Sono tre i nuclei della questione ecologica: l’utilizzo di varie forme di energia, la demografia, l’alimentazione.
Siamo chimica in movimento, materia consapevole di esserci. Ciò che mangiamo diventa la nostra persona, ciò di cui ci nutriamo si fa tessuto, muscoli, sangue, liquidi, cervello, pensieri. Esserne consapevoli significa oltrepassare le secche di ogni dualismo ‘mente – corpo’ come di ogni riduzionismo che evidenzia soltanto una delle componenti dell’essere umano o dei viventi: che si tratti dell’ ‘anima’ o dell’organismo.
Siamo plurali, complessi, intessuti di tante vite, di quelle dei nostri avi come degli incontri che ci regalano gioia o ci infliggono tormento. E siamo fatti anche di una miriade di esseri che abitano nel nostro corpo, che sono il nostro corpo.
Portiamo con noi, dentro di noi, fatti di noi e noi di loro, «miliardi di esseri viventi che ci condizionano l’esistenza senza che noi ce ne accorgiamo. Si tratta di batteri che costituiscono il nostro microbiota, cioè l’insieme di esseri che si trovano nel tubo digerente. I vegetariani, consumando frutta e verdura, ‘coltivano’ batteri intestinali di varietà specifiche che hanno un impatto positivo sulla salute» (Biagio Tinghino, Vivere senza carne. La guida a una nuova alimentazione scritta da un medico vegetariano, Tecniche nuove 2016, p. 119).
Ciò che chiamiamo salute e malattia è il risultato sempre provvisorio del corpo come dimora di entità e strutture plurali e diverse tra di loro. Soltanto se proiettata su uno sfondo antropologico e biologico complessivo la questione del vegetarianesimo mostra tutta la propria fecondità. Decisivo è l’approccio statistico poiché le osservazioni soggettive e parziali non bastano, né gli impressionismi più o meno sentimentali o ideologici, ancor meno la parola di presunte autorità che non dimostrino le loro tesi sulla base di ampi studi. Tinghino fa invece «riferimento a studi osservazionali, di coorte e soprattutto a metanalisi. In una parola: vogliamo appoggiarci su fondamenti seri» (44), allo scopo di affrancarsi da «un dibattito che sembra ormai accecato dalle polemiche tra le varie fazioni» e fare invece «informazione scientifica serena, fondata sulle evidenze e, quando necessario, critica» (2).
Il risultato complessivo di analisi nutrizionali, chimiche, mediche molto accurate – basate su una bibliografia davvero imponente – è che «la carne rossa fa male e le carni conservate aumentano il rischio di cancro nei consumatori. L’Organizzazione Mondiale della Sanità si è recentemente espressa in questi termini, attraverso l’IARC, l’agenzia internazionale di ricerca sul cancro» (77); «la carne non è indispensabile in nessuna fase della vita» (24); «mangiare molta carne accorcia la vita ed è alla base di molte malattie del nostro secolo: tumori, patologie croniche e degenerative» (1).
Ne consegue un interrogativo ovvio e razionale: «Perché dovremmo far soffrire gli altri animali per usarli come cibo, quando, evitandolo, possiamo addirittura stare meglio in salute?» (3). Anche in questo caso la risposta è complessa ma alla sua base c’è una constatazione di fatto, confermata dallo sguardo e dagli studi antropologici: «Mangiamo gli animali perché essi non riescono a difendersi con l’astuzia e la tecnologia di noi umani. La questione è tutta qui» (14), come mostrano le analisi antropologiche di Gianfranco Mormino.
Ed è una questione che si volge poi contro l’umano che utilizza senza misura e intelligenza i propri poteri. Il carnismo sistematico è infatti fonte di numerose e gravi patologie. Una delle ragioni è che Homo sapiens è diventato onnivoro ma la sua anatomia non è quella di un carnivoro. A mostrarlo ci sono molteplici evidenze: le nostre mani e i piedi sono privi di artigli o zanne, siamo incapaci di correre e saltare, come sanno fare tutti i predatori, siamo invece 

«tra i più lenti esseri viventi. […] Anche se le scimmie possono occasionalmente mangiare carne o cibarsi di insetti, fondamentalmente i primati sono frugivori o folivori (mangiano foglie e germogli). […] L’intestino umano è molto più lungo di quello dei carnivori. […] La flora batterica (microbiota) dei frugivori e dei primati in generale è fermentante, non putrefatta come quella dei carnivori. […] Quando questa flora batterica viene alterata dall’eccessiva introduzione di cibi animali è più facile che insorgano alcune malattie come i tumori e le malattie infiammatorie. […] I denti dell’uomo non sono adatti ad afferrare prede e strappare carne, ma ad addentare la frutta (con gli incisivi, propri degli erbivori), trattenerla (canini, piccoli e pochi), triturare il cibo (coi premolari e molari). […] L’uomo, dunque, non è adatto a un cibo carneo. È più coerente definirlo un frugivoro-cerealicolo che occasionalmente potrebbe cibarsi di altro, come la carne, senza però fare di essa il cibo fondamentale» (17-19).

Anche dall’ignoranza di questi dati fisiologici e anatomici nascono veri e propri miti alimentari, come quello delle proteine. Una leggenda frutto di fattori sociali e storici e non certo scientifici, che fanno riferimento alla carne come status symbol e non come alimento né sano né necessario. Tanto è vero che se «nel 1968 si è scesi a raccomandarne 1,8 g e nel 1974 1,35 g. Le raccomandazioni attuali oscillano intorno a 1 grammo [per chilo di peso]. […] Le prime credenze sono state sconfessate dalla ricerca più recente, ma il mito popolare delle proteine tarda a morire e l’industria della carne si sta apprestando a battere nuovi record, fino a quando il sistema economico non collasserà» (23-24).
In realtà le proteine sono presenti non soltanto nella carne bensì «in tutte le classi di alimenti, ma in quantità variabile» (131). Assumere tali sostanze dai vegetali invece che dagli altri animali costituisce un’espressione di razionalità anche ambientale, dato che «la produzione di carne è probabilmente il maggior spreco di risorse del pianeta Terra», in quanto «un onnivoro consuma le risorse che basterebbero a cinque vegetariani» e «l’88% delle foreste viene abbattuto in Amazzonia proprio per creare pascoli. Il consumo di acqua è raddoppiato dagli allevamenti e il 65% dell’ossido di azoto immesso in atmosfera deriva dagli allevamenti, così come il 35% del metano. Stiamo parlando di gas che hanno un impatto tra 23 e 297 volte superiore a quello dell’anidride carbonica (CO2) sull’effetto serra» (25).
È dunque chiaro che la razionalità e la scienze stanno dalla parte di un’alimentazione vegetariana. E questo prescindendo dai fattori di crudeltà, di interesse economico e di silenzio mediatico promossi dall’industria alimentare.
È confortante che (dati del 2014) «in Italia i vegetariani costituiscono il 6,5% della popolazione e i vegani lo 0,6%, per un totale del 7,1%, pari a circa 4 milioni e 200 mila persone. […] Più in alto dell’Italia, in Europa, si colloca solo la Germania, con l’8,6% della popolazione, mentre in India i vegetariani sfiorano il 3% e in USA calano al solo 2%» (14). È confortante per la salute e per la razionalità, per l’unità corpomentale che siamo.

In un articolo per girodivite.it di qualche anno fa avevo discusso altre motivazioni -sia generali sia specifiche- che rendono razionale e necessaria l’opzione vegetariana: Essere vegetariani. Le ragioni.

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