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La dittatura liberale

Le democrazie contemporanee sono ridotte alla condizione di oligarchie finanziarie tenute in piedi dalla distribuzione di profitti a ben precise organizzazioni -tramite le strutture dell’economia legale e criminale- e da un apparato mediatico assolutamente ferreo, il quale presenta come universali, giuste e indiscutibili delle discutibilissime e strumentali espressioni ideologiche quali i diritti dell’uomo e il connesso gergo del politicamente corretto. I segnali linguistici di tale tendenza sono assai numerosi. Un esempio molto chiaro è la scomparsa della parola «sfruttati», sostituita da termini quali «esclusi, sfavoriti, ultimi» e soprattutto «discriminati». Mentre lo sfruttamento implica la critica a un ben preciso sistema produttivo e rapporto di produzione, i termini psicologistici e sociologici che lo hanno sostituito rimandano invece a una vaga e quindi innocua forma della morale (si comprende meglio, tra l’altro, quanta ragione avesse Nietzsche nel volere andare al di là del bene e del male).
La natura autoritaria del discorso politico e mediatico costruito su tali fondamenta arriva al suo vertice nella trasformazione dei sistemi elettorali da semplici metodi di amministrazione della volontà degli elettori a strutture ontologiche il cui obiettivo sarebbe una «governabilità» diventata l’altro nome -il nome soft– della dittatura. Ha ragione Marco Tarchi a iniziare una sua lucida analisi (dal significativo titolo I malpensanti) ricordando che «qualunque studente del primo o secondo anno di una Facoltà di Scienze politiche sa che le leggi elettorali sono uno strumento per eccellenza manipolativo. Servono cioè, a seconda della formula che ne è alla base, a distorcere il rapporto fra la volontà degli elettori, espressa attraverso il voto a un candidato e/o a un partito, e l’esito delle loro scelte, ovvero la presenza nelle istituzioni di eletti che corrispondano alle loro opinioni ed aspettative» («Diorama letterario», n. 318, pp. 1-3).
Chi è consapevole che i sistemi elettorali della democrazia rappresentativa costituiscono gli aritmetici e raffinati strumenti del dominio antidemocratico, ha sostanzialmente due alternative: il rifiuto del metodo elettorale (è la tesi della tradizione anarchica) o il voto dato alle formazioni che difendono esplicitamente la democrazia diretta e il controllo sugli eletti, formazioni che il mainstream mediatico liberista stigmatizza con la qualifica di «populisti». Una parola, quest’ultima, dal significato semplicemente descrittivo -analoga a termini quali «conservatori, socialisti, liberali, anarchici, comunisti»- e che invece ha assunto connotati valutativi e addirittura spregiativi. Il populismo viene definito antipolitico mentre è evidente che si tratta di una opzione politica come le altre e anzi volta a restituire significato ai diritti del demos ponendosi contro lo strapotere delle strutture amministrative e di governo, tese soltanto a blindare il potere di cerchie ristrette e tendenti all’autoperpetuazione dei privilegi acquisiti in decenni di espropriazione della democrazia dal basso.
La tendenza a criminalizzare le posizioni politiche distanti dagli assetti di governo attualmente imperanti in Europa si fa sempre più pericolosa poiché tocca il cuore stesso della libertà, che è il diritto di parola, di critica, di distanza dalle idee dominanti. Può sembrare un ossimoro e invece è la descrizione forse più adeguata degli eventi: quella in cui viviamo è e va sempre più diventando una dittatura liberale.

[Photo by Randy Colas on Unsplash]

La Grande Impostura

«Si ripete, anche nel nuovo governo, lo stesso schema che abbiamo visto da qualche tempo: il ministero dell’economia è stato assegnato a un cosiddetto tecnico. La trasformazione delle scelte di politica economica in scelte tecniche, e dunque in qualche modo inevitabili e necessarie, è uno dei più grandi inganni di questi anni che è stato effettuato con la complicità di una politica ormai esautorata di ogni reale potere d’azione e a spese di una opinione pubblica anestetizzata dai grandi media che ha perso ogni riferimento culturale oltre che politico.
Questa situazione è spiegata magistralmente da Luciano Gallino nel suo libro Il Colpo di Stato di Banche e Governi (Einaudi, 2013) […] Le fasi della la crisi economica scoppiata inizialmente come una crisi bancaria e finanziaria innescata da una crisi di debito privato dovuto a un’incontrollata creazione di “denaro dal nulla” nella forma dei titoli derivati da parte delle banche sia in Europa che in America.
Quando questo castello di carte è crollato, con dei costi enormi per milioni di persone, il governo americano ha sostenuto le banche per quasi trenta trilioni di dollari, nella forma di prestiti e garanzie, in parte rientrati e in parte no, mentre alla fine del 2010 la Commissione Europea ha autorizzato aiuti alle banche per più di 4 trilioni di dollari. Con questi interventi la crisi finanziaria, che fino all’inizio del 2010 era una crisi di banche private e non si era tramutata in una catastrofe mondiale, è stata caricata sui bilanci pubblici che così hanno salvato i bilanci privati. In quel momento le parole d’ordine, diffuse dai principali media, sono diventate però altre: eccesso di indebitamento degli stati, eccesso di spesa pubblica, pensioni insostenibili, spese per l’istruzione “che non ci possiamo più permettere”, ecc. E come conseguenza, anche per rispettare i nuovi provvedimenti, primo tra cui l’incredibile norma del pareggio di bilancio inserita in Costituzione senza una discussione pubblica da un parlamento quantomeno distratto, è stato fatto passare senza grandi difficoltà il messaggio che  lo Stato spende troppo e dunque che è necessario tagliare le spese pubbliche: asili, scuole, sanità, istruzione, ricerca, pensioni, ecc. […]
Come osservato dallo storico Massimo L. Salvadori, l’economista Vilfredo Pareto, convinto che la democrazia fosse un’illusione, scriveva “La plutocrazia moderna è maestra nell’impadronirsi dell’idea di eguaglianza come strumento per far crescere, di fatto, le disuguaglianze”. Era il 1923: oggi siamo sempre allo stesso punto».
[Fonte: La grande mistificazione della crisi finanziaria, Roars, 14.3.2014]

Condivido interamente le parole di Francesco Sylos Labini e invito a leggere la versione integrale (poco più ampia) della sua analisi. In essa si fanno evidenti i profondi intrecci tra gli stati, le banche e la comunicazione. Diventano dunque  molto chiari almeno due elementi: dove risieda il nucleo del potere contemporaneo e quali siano le vere ragioni del fallimento ormai storico e totale di ciò che si è chiamato «Sinistra». In tutte le sue forme istituzionali e parlamentari i partiti di sinistra hanno assimilato integralmente i princìpi che stanno a fondamento della Grande Impostura. Ed è per questo che non hanno senso -se non quello marxiano del mascheramento- le differenze in Europa tra Schultz e Tsipras e in Italia quelle tra Bersani, Renzi, Civati, Vendola, Fassina e altri soggetti che hanno portato a compimento la dissoluzione di qualunque analisi critica dell’economia politica, accettando totalmente una diagnosi fasulla di quanto sta accadendo. Ed è per questo che bisogna farla finita con la sinistra, è per questo che abbiamo bisogno di altre prospettive, di altre rivolte, che partano dal tessuto sociale e non dai partiti, come l’anarchismo ha sempre sostenuto.

 

Potere / Grottesco

Teatro Stabile –  Torino
L’ispettore generale
(1836)
di Nikolaj Vasil’evič Gogol’
Con: Alessandro Albertin (il sindaco), Luca Altavilla (Pëtr Ivanovic Dobcinski 1), Alberto Fasoli (il giudice), Emanuele Fortunati (Pëtr Ivanovic Dobcinski 2), Michele Maccagno (sovrintendente alle opere pie), Fabrizio Matteini (ispettore scolastico-commissario di polizia), Eleonora Panizzo (la figlia del sindaco), Silvia Paoli (la moglie del sindaco), Pietro Pilla (Osip), Alessandro Riccio (ufficiale postale), Stefano Scandaletti (Ivan Aleksandrovic Chlestakov)
Scene di Paolo Fantin
Costumi di Carla Teti
Regia di Damiano Michieletto
Sino al 9 marzo 2014

Un bar sporco e decadente in una cittadina sperduta da qualche parte nel mondo. Il televisore sempre acceso sul vaniloquio dello spettacolo. Il locale è abitato dal sindaco affarista e cialtrone, ben coadiuvato dal direttore ospedaliero, dal giudice, dal provveditore agli studi, dall’ufficiale delle poste. Se la vivono e se la spassano con i soldi pubblici, che si dividono con commercianti e appaltatori, intascando tangenti e scambiandosi favori.
Finché non si diffonde la notizia dell’arrivo dalla Capitale di un ispettore generale in incognito. Panico. Smarrimento. Organizzazione di piani per neutralizzare il funzionario. Prima di tutto il danaro, è ovvio. Si cercano i segni della presenza dell’ispettore e lo si identifica in un giovane squattrinato che da giorni è ospite in uno degli alberghi della città. Tutti si convincono che l’ispettore sia lui e lo riempiono di lusinghe, di soldi, di compiacenza, compresa quella della moglie del sindaco. Il fortunato soggetto sta naturalmente al gioco. Intasca tutto quello che può, promette di sposare la figlia del sindaco e se ne va con i soldi che ha racimolato. Sicuri di imparentarsi con un simile potentato, si fa una grande festa in discoteca, si beve e si sogna a più non posso. Sin quando un piccolo particolare fa emergere la verità. A questo punto la figlia del sindaco (che sino ad allora aveva subìto tutto con umiliazione) comincia a ridere e a impacchettare nel cellophane l’intera combriccola, immobilizzata nell’istante in cui dalla bocca di ciascuno vengono fuori delle banconote.
Il testo di Gogol’ è un’immagine immortale dell’umano infetto e complice. Questa magnifica messinscena ne esalta ogni fibra, ogni parola, ogni intenzione e ogni divertimento. Una spettacolare rappresentazione del potere nella sua essenza sempre grottesca, miserabile e corrotta.

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