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L’amore non è

L’effetto acquatico
(L’effet aquatique)
di Sólveig Anspach
Francia-Islanda, 2016
Con: Florence Loiret-Caille (Aghate), Samir Guesmi (Samir), Didda Jónsdóttir (Anna), Ingvar Eggert Sigurðsson (Siggi)
Trailer del film

Samir sa nuotare benissimo ma finge di essere un principiante per poter stare accanto alla bella Agathe, istruttrice di nuoto. Quando lei scopre la bugia, se ne fugge in Islanda, dove Samir la segue per riconquistarla. Perduta la memoria in un incidente domestico, Samir viene risvegliato al passato dalla risvegliata passione di Agathe.
L’amore non è né lo sguardo sperduto e dall’effetto leggermente Ispettore Clouseau di Samir né la coggiutaggine permalosa ma in fondo disponibile di Agathe. L’amore non è un po’ di conflitto risolto dai baci. O almeno non è soltanto questo. L’amore è qualcosa di molto più complesso e tragico. E per questo interessante. Fosse quello che questo film ci propone, sarebbe sparito da tempo.

Lezione sull’amore

Come promesso agli amici che me lo hanno chiesto, pubblico di tanto in tanto le registrazioni audio di alcune mie lezioni. In questo caso si tratta di una lettura dei Frammenti di un discorso amoroso di Barthes svolta nel maggio del 2013 per il corso di Filosofia della mente (lezione del 6.5.2013).
Lo studente che registrò la lezione non spense il dispositivo durante l’intervallo. E così a metà circa del file si sentono dei silenzi ma anche dei dialoghi informali con qualcuno dei presenti. Può servire a farsi un’idea dell’interazione con gli allievi.

Il file audio si può scaricare e (comodamente) ascoltare come mp3 dalla piattaforma Dropbox. La durata non è breve -1.42 minuti- ma è un argomento che ci coinvolge tutti 🙂

Amare

Le relazioni pericolose
di Pierre Choderlos de Laclos
(Les Liaisons dangereuses, 1782)
Traduzione di Maria Teresa Nessi
Garzanti, 2011
Pagine XVI-400

Un libro trasparente ed enigmatico. Nel quale i due protagonisti sono votati al piacere e alla vanità. Alla vanità assai più che al piacere, poiché la vanità si spinge fino all’assurdo di negare a se stessa il piacere se quest’ultimo sembra mettere a rischio uno smisurato amor di sé.
La marchesa di Merteuil e il visconte di Valmont sono due aristocratici privi di qualunque scrupolo morale ma sono anche due divinità in lotta tra di loro per il possesso del cuore dei mortali. E un dio non sarebbe precisamente questo? Un essere al di là del bene e del male, poiché fondante il bene e il male, con il potere di imporre a ogni altra entità il proprio volere. Due divinità non di pari livello, però. Il visconte vive quasi sempre di riflesso rispetto all’energia, alla determinazione, alla prudenza e al gelo della marchesa, la quale arriva esplicitamente a descriversi con i tratti del divino: «Eccomi diventata una Divinità, che riceve le opposte suppliche dei ciechi mortali e non cambia nulla dei suoi decreti immutabili» (lettera LXIII). In un libro tramato di menzogna, dove l’inganno è un supremo piacere, fra questi due potenti domina una sconfinata fiducia reciproca, tanto che non appena questa viene meno con essa finisce il romanzo.
Si costruiscono senza posa relazioni, si ordiscono intrecci e rapporti con l’obiettivo di possedere il tempo e il corpo dell’oggetto bramato, mettendo al bando ogni sentimento. L’idea stessa di innamorarsi suscita terrore coincidendo essa con il ridicolo, suprema offesa alla vanità. Quando la passione compare, nella presidentessa di Tourvel, non può che assumere i tratti dell’idolatria, della rinuncia totale al sé in favore di un dio: «Io l’amo fino all’idolatria e non l’amo ancora quanto merita» (lettera CXXXII). Questa donna innamorata morirà d’amore e sembra il più naturale degli epiloghi, giusta punizione alla colpa non d’essersi concessa ma d’averlo fatto con affetto.
Romanzo leggero, erotico, immorale. Intessuto però di una psicologia penetrante e capace di smascherare la genealogia dei sentimenti morali, à la Nietzsche. Quando, ad esempio, Valmont benefica una famiglia contadina allo scopo di apparire in una luce migliore davanti alla signora di Tourvel, osserva di essersi stupito del «piacere che si prova a fare il bene; e sarei tentato di credere che quelle che noi chiamiamo persone virtuose non hanno poi tutto quel merito che tutti si compiacciono di metterci davanti agli occhi» (lettera XXI). La gratificazione del sé, inevitabile in ogni azione virtuosa, mette quindi in discussione la virtuosità dell’agire. Allo stesso modo, la bontà viene fatta scaturire dalla debolezza: chi non ha artigli si vanta d’essere mite, mentre la vera magnanimità implica la capacità di colpire e l’astenersi dal farlo. Una frase come «la gente felice è difficilmente accessibile» conferma la capacità che Laclos ha avuto di leggere nelle azioni e nelle parole degli uomini andando al di là delle apparenze (Valmont, lettera LXXIX).
L’amore che c’è, l’amore che manca, l’amore irriso, l’amore idolatrato, l’amore cercato, l’amore temuto. Che cos’è per Laclos questo sentimento? Esattamente quello che è per Proust, il riflesso della nostra tenerezza: «L’incanto che crediamo di trovar negli altri esiste solo in noi; e soltanto l’amore fa apparire così bello l’oggetto amato».  A dirlo è, naturalmente, la marchesa di Merteuil (lettera CXXXIV).
Se è così, qual è il reale sentimento di Valmont? Nella versione cinematografica di Stephen Frears (Dangerous Liaisons, 1988) viene ben evidenziata la volontà del visconte di giustificare davanti a se stesso, prima che alla signora di Tourvel, la decisione di lasciarla, e lo fa ripetendo ossessivamente «trascende ogni mia volontà» (lettera CXLI). Un voluto determinismo che porta entrambi a morire.
A metà fra il carnefice e la vittima, né solo carnefice come la marchesa né solo vittima come Tourvel, Valmont non scioglie il suo enigma neppure con la morte. Non sapremo mai fino a che punto egli amasse se stesso e fino a che punto invece la signora di Tourvel. È qui che questo romanzo trasparente, che non a caso sceglie un’epigrafe roussoviana, mostra per intero la propria inestricabile ambiguità. In ogni caso, infatti, «se non c’è illogicità non c’è sentimento» (Valmont, lettera LXX).

Teogonia

Zeus è giustizia, armonia, luce. Prima di lui era il gorgogliare della terra -Gaia- dal Caos; era il Tartaro infinito, orribile, buio; era il cielo -Urano- il cui sangue «generò le Erinni potenti e i grandi Giganti / di armi splendenti, che lunghi dardi tengono in mano» (trad. di Graziano Arrighetti, vv. 185-186). Dalla spuma -ἀφρός- di Urano «una figlia  /nacque, e dapprima a Citera divina / giunse, e di lì poi giunse a Cipro molto lambita dai flutti; / li approdò, la dea veneranda e bella, e attorno l’erba / sotto gli agili piedi nasceva; lei / Afrodite» (vv. 191-195).
Che la divinità della vendetta e la divinità dell’amore siano sorelle, che siano nate dallo stesso atto di violenza con il quale Urano venne castrato da Crono, è gesto poetico e teoretico di comprensione profonda di che cosa la vita sia, da dove essa sgorghi, quale sia il suo senso e il suo fine. Da Afrodite non poteva che nascere «Eros, il più bello fra gli immortali, / che rompe le membra, e di tutti gli dèi e di tutti gli uomini / doma nel petto il cuore e il saggio consiglio» (vv. 120-122). Non soltanto gli umani ma ogni vivente e gli dèi sono dunque soggetti alla passione che vuole fare del diverso l’identico, che vuole assimilare a sé ogni alterità per nutrirsene e farsene felice.

Tutte le divinità sono modi, forme, espressioni di questa potenza del sangue, dello sperma, della passione che travolge il cuore e la mente di ognuno e di tutti. Divinità diverse, opposte, lontane ma che da tale potenza sono segnate per sempre: la «Notte oscura», con i suoi figli «Sonno e Morte, terribili dèi» (vv. 758-759); «le Moire, a cui grandissimo onore diede Zeus prudente, / Cloto, Lachesis e Atropo, le quali concedono / agli uomini mortali di avere il bene ed il male» (vv. 904-906); e soprattutto il dio nel quale la luce apollinea e le tenebre fonde trovano la loro sintesi potente e implacabile, «Dioniso, ricco di gioia (Διώνυσον πολυγηθέα)» (v. 941).
L’ordine imposto da Zeus al terribile e all’indicibile che stanno e permangono al fondo di ogni cosa e del mondo, è un ordine generatore di memoria, di bellezza e di canto. Le Muse -alle quali Esiodo consacra l’inizio splendente del poema- furono volute da Zeus affinché «fossero oblio dei mali e tregua alle cure» (v. 55). Guidato da esse, il poeta elenca sin dall’inizio i nomi degli dèi e attraverso e oltre loro canta «ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu» (v. 38), canta la potenza del tempo senza inizio né fine.
Gli umani in tutto questo sono degli epifenomeni, la cui gioia e dolore sono conseguenza dei conflitti tra i Numi, ai quali possono solo chiedere luce e che come loro sono parte dell’unica vicenda della φύσις e del sacro intrecciati; è per questo che -scrive con precisione Graziano Arrighetti- «la Teogonia costituisce la testimonianza di uno sforzo di rappresentazione unitaria e coerente del mondo fisico e di quello divino» (edizione Rizzoli, 2016, p. 33).

«Crono dai torti pensieri (Κρόνος ἀγκυλομήτης)» (v. 137) fa da snodo tra l’originario regno della violenza informe e confusa e il regno olimpio di ordine e luce. Nel mezzo c’è stato un conflitto descritto da Esiodo con termini e toni cosmici, inquietanti, tremendi: «I Titani, di contro, rinforzano le schiere, / risoluti, e mostrarono insieme l’opera e di mani e di forza, / gli uni e gli altri; e terribile intorno muggiva il mare infinito / e la terra molto rimbombava e gemeva il cielo ampio / scosso, e fin dal basso tremava il grande Olimpo / allo slancio degli immortali, e il tremore giungeva profondo / al tartaro oscuro, e dei piedi impetuosi il rimbombo / dell’indicibile battaglia e dei corpi violenti; / così dunque gli uni contro gli altri lanciavano dardi luttuosi, / e giungeva al cielo stellato il grido dalle due parti / che si incalzavano mentre si urtavano con grande tumulto. […] Bolliva la terra tutta, e i flutti d’Oceano, / e il mare infecondo. […] Un ardore prodigioso penetrava Caos, e pareva davanti / agli occhi vedersi e il suono ad udirsi agli orecchi / come quando Gaia e Urano ampio di sopra / si scontrano»…(vv. 676-703).
Murray sostiene che la Teogonia costituisse «l’accompagnamento e la spiegazione di un rituale di parata di due cerimonie che celebravano l’una la vittoria dei nuovi dèi su quelli antichi, l’altra la vittoria della luce sulle tenebre» (cfr. edizione Rizzoli, 2016, nota a p. 175). In ogni caso qui il divino è tra noi e noi siamo parte della natura che è sacra. Nessun’altra prospettiva avvicina così interamente gli uomini al dio.

Baci

Mente & cervello 134 – febbraio 2016

M&C_134_febbraio_2016Innato e appreso non sono in contraddizione ma costruiscono insieme la continuità dell’umano e di molti altri animali. L’intelligenza ha certamente delle basi biologiche e genetiche -che la costituiscono per il 40% circa- ed è poi «ovvio che un potenziale cognitivo su basi genetiche si esprime in un ambiente adatto, vale a dire dipende da fattori sociali scolastici, dal crescere in un ambiente stimolante e via dicendo» (A. Oliverio, p. 18)  Per questa e per altre ragioni, la tesi di Noam Chomsky sulla grammatica interna -e quindi innata- del linguaggio è assolutamente plausibile, nonostante le critiche che da più parti le vengono rivolte: «Una ricerca pubblicata su ‘Nature Neuroscience’ sembra però offrire una prova alla presenza di un meccanismo cerebrale che consente di costruire un’organizzazione gerarchica per comprendere il linguaggio» (V. Daelli, 20).
Innato è il sentimento amoroso, nella varietà assai complessa delle sue forme storiche e strutture psichiche. Tra di esse le più importanti sono quelle che i Greci definivano Eros, Philia e Agape, l’amore passionale, l’amore materno e amicale, il sentimento universale di condivisione del medesimo destino.
Al tema è dedicato il dossier di questo numero della rivista. Uno degli articoli si occupa del bacio, pratica non così universale come di solito si ritiene: «Nel complesso, Jankowiak ha osservato 77 culture in cui il bacio romantico era presente e 91 in cui era assente» (F. Sgorbissa, 34). Nata molto probabilmente in India tra il 1500 e il 1200 a.C., la pratica del bacio venne diffusa tramite le conquiste di Alessandro il Grande e divenne poi dominante a Roma. Da qui è transitata ovunque in Europa e nel Mediterraneo. Le ricerche di Jankowiak mostrano che c’è una correlazione tra la pratica del bacio e le condizioni economiche e culturali di una società: «Più è complessa una cultura maggiore è la probabilità che gli individui si bacino». Il piacere erotico ha infatti «una componente di provocazione e ‘attesa’ […] e solo le società che possono permettersi di perdere tempo in attività di intrattenimento possono aver sviluppato il bacio» (Id., 34). Questo dato non è affatto in contraddizione con la constatazione che molti altri animali, in particolare i nostri cugini primati, si bacino. Le ragioni sono ovvie e legate al piacere che il bacio offre e scatena ma si può anche aggiungere che le società composte da altri animali hanno di solito molto più ‘tempo libero’ di quelle umane -«Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre» (Mt., 6,26). Espressione della Philia è anche la compassione, l’essere sensibili alla sofferenza degli altri, unita al desiderio di alleviarla. Più che l’autostima, è l’autocompassione a costituire una condizione di equilibrio, purché naturalmente non diventi un alibi: «Essere aperti alla propria sofferenza e gentili con se stessi, non condannarsi ed essere consapevoli che la sofferenza accomuna tutti, così da non sentirsi soli e non provare vergogna» (F. Cro, 54).
In questa nostra debole e dolorosa esistenza possiamo comunque contare su molte e differenti risorse. La prima è il corpo stesso che siamo, un dispositivo fragile ma anche potente, come è confermato dagli studi sulla neuromodulazione, i neurotrasmettitori, gli endocannabinoidi che il corpo genera per affrontare i momenti più delicati della vita e dei giorni. Kevin Tacey sostiene giustamente che «il nostro corpo è un’enorme industria farmaceutica. Chi scoprirà il modo per modulare la produzione endogena dei neurotrasmettitori in maniera precisa e accurata avrà trovato la chiave per curare un gran numero di patologie neurologiche e psichiatriche» (98).

Tolstòj, la storia, gli umani

Lev Nikolajevic Tolstòj
GUERRA E PACE
(Vojna i mir, 1865-1869)
Traduzione di Enrichetta Carafa d’Andria
Con un saggio di Thomas Mann
Prefazione di Leone Ginzburg
Einaudi, 1990 (1942)
Pagine XXII-1425

Si comincia a leggere e, per chi ama Proust, Mann, Kafka, sembra di tornare a una narrativa solida ed elegante, a una introspezione psicologica che però -rispetto a quegli autori- appare troppo prudente. Poi, mano a mano che si continua a leggere, il libro afferra per la forza dei personaggi, affascina per la vastità e complessità della trama, produce stupore di fronte alle sculture di sentimenti, passioni, innamoramenti e dolori che appaiono plastici, tridimensionali, magnifici in tutta la loro potenza: «…e da quella porta socchiusa a un tratto spirò e investì Pierre quella felicità da tempo dimenticata alla quale, specialmente ora, egli non pensava. Spirò, lo avvolse, lo sommerse; quando poi ella sorrise, non ci poterono più essere dubbi: era Nataša, ed egli l’amava» (pag. 1302).
L’apice è la morte del principe Andréj, bellissima e lenta, complicata e romantica, appassionata, mistica. Andréj sente «quello straniarsi completo da ogni cosa umana che è tremendo per un uomo vivo» (1145) e si schianta nel momento in cui la felicità sembra di nuovo possibile: «“Sì, era la morte. Sono morto: mi sono svegliato. Sì, la morte è un risveglio”. A un tratto l’anima sua s’illuminò»…(1152). Il dolore che rimane in chi lo ama è paragonabile solo a quello descritto in Albertine disparue e tuttavia in Tolstòj la felicità è un desiderio troppo grande, è la meta stessa a cui tende ogni cosa e sempre essa rinasce dalle ceneri di qualunque tragedia: «Ma una piena, assoluta tristezza è altrettanto impossibile come una piena, assoluta gioia» (1259) e in Nataša, nella principessina Marja, in ognuno e in tutti risorge la vita.
Il romanzo è intessuto di magnifiche similitudini e di potenti metafore. I personaggi squallidi e meschini sono assai numerosi e sul loro sfondo meglio si stagliano le figure non tanto positive o forti quanto pure: il conte Pierre Bezúchov è certo il migliore. La sua ingenuità, l’allegria e la serietà, la generosità e l’orgoglio costituiscono alcuni dei caratteri di quell’anima russa che Tolstòj vuole più di ogni altra cosa rappresentare. Non a caso essa si esprime in due personaggi assai lontani per condizione sociale, cultura, autorità: il maresciallo Kutúzov -capo supremo delle forze armate russe- e il giusto Platòn Karatàjev, contadino prigioniero dei francesi, compagno di Pierre, vittima rassegnata della follia della guerra. Entrambi usano non la ragione ma il sentimento, affidano a Dio le loro sorti e quelle della Russia, affondano nel suolo di una civiltà arcaica, rurale, immutabile.
Allo spirito popolare di Kutúzov e di Karatàjev si oppone l’individualismo di Napoleone. Egli è certamente presente in ogni pagina del romanzo, è l’attore che ha affascinato le corti e le masse, è l’ambizione immensa del potere. Egli si illude di guidare la storia e i popoli «mentre invece» -quasi manzonianamente- «una invisibile mano lo conduceva» (1330), la sua cieca arroganza suscita persino compassione e disprezzo. Tolstòj condanna come un volgare alibi il progetto napoleonico inteso a fare dell’Europa «un même peuple» e di Parigi «la capitale du monde» (959). Contro questo empio emblema della hybris il pacifista Tolstòj scrive una vera e propria apologia della guerriglia, esaltando il popolo russo che nel momento supremo ha gettato la spada impugnando il randello per colpire con tutte la possibile forza «finché nella sua anima il sentimento dell’offesa e della vendetta si muti in disprezzo e in pietà» (12)
In generale, Tolstòj si mostra un lucido (anche se sempre di parte) ed efficace analista di questioni strategiche e militari. La descrizione delle battaglie ci fa entrare nel vivo non solo dell’azione ma della percezione stessa di chi le combatteva. Costante è l’analogia fra le leggi della storia e quelle della fisica, fra la strategia militare e i teoremi geometrici anche se la posizione complessiva oscilla fra un peculiare storicismo e la negazione della sua stessa possibilità. “Che cos’è la storia?” è la vera domanda da cui si genera il romanzo. La guerra nazionale russa del 1812, con ciò che la precedette e quanto ne seguì, rappresenta per Tolstòj il laboratorio nel quale tentare una risposta.
Sembra che Tolstòj creda a una astuzia della ragione che muove gli individui ai propri fini anche quando essi ritengono di agire liberamente e soltanto per sé:

In ogni uomo vi sono due aspetti della vita: la vita personale, che è tanto più libera quanto più astratti sono i suoi interessi, e la vita elementare, la vita di sciame, dove l’uomo obbedisce inevitabilmente a leggi che gli sono prescritte. L’uomo vive consciamente per sé, ma serve come uno strumento inconscio per il conseguimento dei fini storici dell’umanità in generale. […] La storia, cioè la vita incosciente e comune, la vita di sciame dell’umanità, si avvantaggia per sé di ogni momento della vita dei re, come di un mezzo per raggiungere i propri fini. (709-710)

La storia è fatta non dagli individui, qualunque sia la loro forza apparente e il loro grado nel mondo, ma dalle masse o meglio dall’insieme sterminato degli uomini che transitano nel tempo. Essa ha delle leggi ma non sono quelle che la storiografia crede di aver individuato. Per quanto deterministiche siano (e Tolstòj ritiene che davvero lo siano) esse rimangono enigmatiche. Il problema chiave diventa quindi il libero arbitrio dei singoli nella infinità dei casi, delle volontà, delle relazioni. È comunque chiaro che non esistono eroi e i cosiddetti grandi uomini sono anch’essi -come ogni altro- determinati da qualcosa che li supera, nettamente li oltrepassa. «Negli avvenimenti storici gli uomini così detti grandi sono etichette che dànno il titolo all’avvenimento e, come le etichette, meno che mai hanno rapporto con l’avvenimento stesso. Ogni loro azione, che a essi sembra volontaria, nel senso storico è involontaria, e si trova legata a tutto il corso della storia ed è determinata da sempre» (711).
A segnare il corso degli eventi a volte sembra essere la divinità, altre la somma delle vite e delle volontà singole, altre ancora qualcosa in cui dio e gli uomini sono compresi ma che li trascende. L’enigma rimane. In ogni caso, una storiografia che voglia essere scientifica dovrebbe porsi l’impossibile scopo di descrivere non l’uno o l’altro avvenimento, non le vicende di singoli personaggi ma «la storia di tutti, di tutti, senza esclusione, gli uomini che hanno partecipato a un dato avvenimento» (1390). Sono alcune delle stesse critiche che Popper rivolge alla “miseria dello storicismo”.
Ma è sul tema del libero arbitrio che la posizione di Tolstòj si complica e anche si confonde. Egli cerca di tenere fermi entrambi i lati del problema. Esclude una assoluta libertà come l’assoluta necessità. La prima è in gran parte un’illusione dovuta all’ignoranza di tutte le cause che concorrono a un certo fenomeno e alla sua vicinanza temporale rispetto a chi lo osserva. Quanto più ci si allontana da un’azione, tanto meno libera appare la scelta di chi l’ha compiuta. La fisicità stessa, la trama spaziale nella quale siamo intessuti ci determina in qualche modo. Posso certo decidere di sollevare e abbassare la mia mano ma lo farò nella direzione in cui essa incontra meno ostacoli: «Per rappresentarci un uomo libero dobbiamo rappresentarcelo fuori dello spazio, il che evidentemente è impossibile» (1417). D’altra parte «rappresentarsi un uomo che sia privo di libertà non è possibile, se non rappresentandoselo privo di vita» (1409). L’enigma, ancora una volta, rimane ed è efficacemente riassunto da Tolstòj:

Così, per rappresentarci l’azione di un uomo sottomesso alla sola legge di necessità, senza libertà, dobbiamo ammettere la conoscenza di una infinita quantità di condizioni spaziali in un infinito periodo di tempo e per un’infinita serie di cause. Per rappresentarci un uomo assolutamente libero, non sottoposto alla legge di necessità, dobbiamo rappresentarcelo fuori dello spazio, fuori del tempo e indipendente dalle cause. (1419)

Chi dunque può conoscere la storia, sia come libertà che come necessità? Soltanto un dio. Tolstòj prende atto della rivoluzione storiografica che non vede più gli eventi come determinati dalla volontà di un singolo, ne condivide in parte le posizioni ma rifiuta che da questi presupposti discenda la negazione dell’anima, della legge morale e di dio. E lascia aperto il suo romanzo non soltanto nella sua dimensione teoretica ma anche in quella narrativa. I personaggi finalmente sereni, di quell’unica felicità concessa agli umani, trascorrono le loro esistenze e intessono i loro rapporti in un modo che potrebbe far continuare il libro all’infinito. Esso si deve fermare. Ma solo dopo aver in un contrappunto continuo di pubblico e privato, di storico e di personale, di guerra e di pace, creato un’epopea, descritto un mondo, scolpita la gioia.

Amanti

Just
di David Lang
(da After Song of Songs)
Trio Mediaeval

justUn incantamento di note e litanie in cui cullarsi in apparenza per sempre. Un mantra che potrebbe durare e ripetersi, coniugando minimalismo, serialità, vocalità antiche e tecnologie elettroniche.
Il Cantico dei Cantici -di cui Just è una rivisitazione in chiave contemporanea- è una delle poche parti del libro ebraico che meritano di essere lette e amate. La sensualità intima e gloriosa dell’antico testo viene esaltata e moltiplicata da queste voci avvolgenti, insieme gelide e brucianti. Qualcosa del genere dovette ascoltare Odisseo mentre era legato all’albero della sua nave.
Molto bella ed efficace la soluzione trovata per distinguere le voci dell’amante e dell’amata e per unificarle nel Noi. Se il sentimento amoroso può avere una sua realizzazione, deve essere simile a queste voci che rimangono differenti mentre si fanno una sola cosa; l’intimità, la potenza, la purezza del desiderio trovano la loro completa sanzione in un dire evocativo, essenziale, fermo e categorico, unico, superiore e preferibile a tutto. Sembra che gli amanti non possano fare altro che indicarsi e contemplarsi l’un l’altro là dove si realizza l’utopia dell’amore.

[audio:Just.mp3]
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