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«T’ho colpito al cuore»

Selvaggia, totale, cieca e illuminata, feroce, sapiente delle passioni che per gli umani costituiscono «cagione dei mali più tremendi»1. Pervasa e fatta di passione anche lei, soprattutto lei. Questo è Medea. Intrisa di un sentimento potente, la vendetta. Passione che anche altri illuminati -come Platone e Aristotele- giudicano del tutto legittima, una passione che per i Greci è naturale, persino doverosa. La passione che fa dire a Medea «e adesso spero che paghi il fio chi m’odia» (p. 86), la passione che vuole fare di se stessa un’entità «benigna ai cari e ai miei nemici cruda. A persone così ride la gloria» (p. 87).
Medea è tale passione fatta carne, intelligenza, azione. Fatta gioia pur nel gorgo di azioni inconsulte e folli, quali il trasformare in veleno e torcia umana una giovane sposa e poi uccidere i propri figli avuti da Giasone, in modo che quest’uomo non abbia più figli e non abbia più compagna. Al servo che le annuncia la fine della giovane Glauce -sposa di Giasone-, Medea chiede di parlare a lungo, di descriverle nei dettagli l’accaduto «ché la mia gioia sarà doppia, se mi dirai che la morte è stata orrenda» (p. 96).
Di fronte a un simile oltre dell’umano, Giasone si mostra in tutti i suoi limiti di politico, di piccolo calcolatore destinato al fallimento. Ed è Giasone, non certo uno qualsiasi, Giasone che fu il primo ad aver sottomesso il mare navigandolo, colui che ha conquistato il Vello d’oro, un’impresa ricordata persino da Dante al culmine del suo viaggio: «Un punto solo m’è maggior letargo / che venticinque secoli a la ’mpresa / che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo» (Paradiso, XXXIII, 94-96).
A un tale eroe il coro dice però «oh quanto sei cieco al tuo destino!» (p. 92), cecità che presto si trasforma in una visione che lo acceca dei figli, del futuro, di ogni possibile ulteriore soddisfazione nella vita.
E questo sancisce che, sì, «guaio [è] per gli uomini l’amore!» (p. 72). Sancisce che l’umano è un’ombra, «che quanti fra gli uomini sembrano saggi e acuti pensatori sono votati alle pene più gravi. Ché nessuno è felice tra i mortali» (p. 98). Se la verità di tali parole è evidente, allora ha ragione il Coro quando afferma «che, fra gli uomini chi / non sa nulla di figli, chi non seminò, / di gran lunga supera chi generò, / per felicità» (καί φημι βροτῶν οἵτινές εἰσιν / πάμπαν ἄπειροι μηδ᾽ ἐφύτευσαν / παῖδας προφέρειν εἰς εὐτυχίαν /τῶν γειναμένων, vv. 1090-1093). Lo confermo, a ragion veduta.
Rivolgendosi a Giasone, Medea conclude -malvagia e raggiante- «τῆς σῆς γὰρ ὡς χρῆν καρδίας ἀνθηψάμην» (v.1360), «in ogni caso t’ho colpito al cuore». Magnifico.

1. Euripide, Medea, in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 94

Bellamore

Bellamore
Francesco De Gregori (1992)

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2018/07/De_Gregori_Bellamore.mp3]

 

Bellamore Bellamore non mi lasciare

Bellamore Bellamore non mi dimenticare. 

Rosa di Primavera, isola in mezzo al mare 

lampada nella sera, Stella Polare. 

Bellamore Bellamore, fatti guardare

nella luna e nel sole fatti guardare. 

Briciola sulla neve, lucciola nel bicchiere 

Bellamore Bellamore, fatti vedere. 

E vieniti a sedere, vieniti a riposare

su questa poltroncina a forma di fiore. 

Questa notte che viene non darà dolore

questa notte passerà, senza farti del male. 

Questa notte passerà, o la faremo passare. 

Bellamore Bellamore, non te ne andare. 

Tu che conosci le lacrime e le sai consolare. 

Bellamore Bellamore non mi lasciare

tu che non credi ai miracoli ma li sai fare. 

Bellamore Bellamore fatti cantare

nella pioggia e nel sole, fatti cantare. 

Paradiso e veleno, zucchero e sale

Bellamore Bellamore, fatti consumare. 

E vieniti a coprire, vieniti a riscaldare

su questa poltroncina a forma di fiore. 

Questo tempo che viene non darà dolore

questo tempo passerà, senza farci del male. 

Questo tempo passerà o lo faremo passare.

 

Dea del Tempo

Ho messo a disposizione su Dropbox il file audio (ascoltabile e scaricabile sui propri dispositivi) della terza lezione dedicata a Proust, da me svolta al Disum di Catania il 20 aprile 2018.
Aggiungo qui le diapositive che ho utilizzato in questa occasione. Scorrendo le immagini/testo e ascoltando l’audio, spero si possa cogliere la potenza della scrittura di Marcel Proust, della sua arte, della dimensione cosmogonica e sacra delle parole che raccontano l’illusione suprema che sempre ci spinge verso l’Altro. L’oggetto amato è figura del Dio, in lui cerchiamo la Grazia, in lui ci sentiamo redenti. Abbiamo bisogno di tanto in tanto di trarre dalla specie una persona che diventa lo splendore che ci salva, che ci regala la gioia.
La Recherche è la notte dell’esistenza in un libro figlio del silenzio. È l’Adoration perpétuelle. È la Gloria.

«Del resto, le amanti che più ho amate non hanno mai coinciso con il mio amore per loro […] Quando le vedevo, quando le udivo, non trovavo nulla in loro che somigliasse al mio amore e potesse spiegarlo. Eppure, la mia sola gioia era di vederle, la mia sola ansia di aspettarle […] Sono incline a credere che in questi amori (lascio in disparte il piacere fisico che d’altronde s’unisce abitualmente a essi ma non basta a costituirli), sotto l’apparenza della donna, ci rivolgiamo in realtà alle forze invisibili accessoriamente unite a lei, come a oscure divinità. È la loro benevolenza a esserci necessaria, è il loro contatto quello che cerchiamo, senza trovarvi nessun piacere vero».
Marcel Proust, Sodoma e Gomorra, Einaudi 1978, pp. 560-561

«Di per sé lei è meno di niente, ma nel suo essere niente c’è, attiva, misteriosa e invisibile, una corrente che lo costringe a inginocchiarsi e ad adorare una oscura e implacabile Dea, e a fare sacrificio davanti a lei. E la Dea che esige questo sacrificio e questa umiliazione, la cui unica condizione di patrocinio è la corruttibilità, e nella cui fede e adorazione è nata tutta l’umanità, è la Dea del Tempo. Nessun oggetto che si estenda in questa dimensione temporale tollera di essere posseduto, intendendo per possesso il possesso totale che può essere raggiunto con la completa identificazione di soggetto e oggetto. […] Tutto ciò che è attivo, tutto ciò che è immerso nel tempo e nello spazio, è dotato di quella che potrebbe essere definita un’astratta, ideale e assoluta impermeabilità».
Samuel Beckett, Proust, SE 2004, pp. 41-42.

Seconda lezione su Proust (6.4.2018)

L’Altro

Recensione a:
Storia naturale dell’amore
di Domenica Bruni
(Carocci 2010, pp. 143)
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
Vol. IX, numero 1, primavera 2018
Pagine 107-108

Innamoramento e amore sono due strutture naturali e culturali, innate e apprese, universali e differenziate. Ovunque e sempre l’amore è anche un conflitto tra i sessi. Ovunque e sempre, «l’amore sembra avere qualcosa in comune con il mistero più profondo, ossia con la fine dell’esistenza» (p. 93). Non soltanto, infatti, l’abbandono è un’anticipazione e una metafora della morte ma la struttura stessa del sentimento amoroso ha a che fare con il nulla, con l’«inesistenza dell’oggetto d’amore, il quale altro non è che una proiezione dei nostri desideri» (p. 93). L’universalità dell’amore è dunque la stessa universalità del morire. Le caratteristiche somatiche e mentali riassunte con chiarezza da Domenica Bruni descrivono efficacemente la relazione tra la passione amorosa, la fine per l’individuo di un’epoca e la rinascita in un mondo nuovo.
Per l’Altro si è disposti a cambiare abitudini e persino valori. Tutto questo crea una dipendenza emotiva foriera di ansia, di speranza e di disperazione. Tali caratteristiche non nascondono tuttavia, anzi confermano, che l’Altro è un oggetto ermeneutico verso cui si esercita una costante e minuziosa «ricerca di indizi», ricerca nella quale si esprime una «ipersensibilità verso i segnali che invia la persona amata per avere una conferma della reciprocità del sentimento» (p. 97).

 

Innamorato

Ho inserito su Dropbox il file audio (ascoltabile e scaricabile sui propri dispositivi) della seconda lezione dedicata a Proust, da me svolta al Disum di Catania il 6 aprile 2018.
Ho tentato di disegnare la cattedrale, il gelo, la bellezza, il sacro, l’amore, il tempo, la vibrazione, la scrittura, la gioia.
La natura temporale dell’amore fonda la logica tragica del desiderio.
Insignificanza, volgarità, nullità costituiscono la condizione naturale dell’Altro. È soltanto il desiderio di possedere il suo corpotempo fatto di eventi e di memorie, assai più che il semplice corpo fatto di organi e tessuti, a trasfigurarlo nella favolosa e insondabile meta della nostra passione.
Irraggiungibile meta.
Meta foriera di angoscia, gettata nell’attesa, intessuta di gelosia, fatta di ricordi.
Questo è il lavoro della mente amorosa, l’incessante attività di un’ermeneutica della diffidenza che nessuna certezza potrà mai conseguire poiché tale sicurezza ha come condizione l’intero temporale nel quale l’Altro distende il proprio corpo negli anni.
La vita appare in tal modo per quello che è in se stessa e agli occhi della Gnosi: un paradiso perduto, dal quale una qualche entità aberrante e maligna ci ha gettati nel tempo. E sta qui una delle ragioni per cui l’universo di Proust è senza morale, veramente al di là del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto.
Per Proust la via d’uscita, l’unica, non è etica né psicologica. È la scrittura.
La scrittura ci libera dal dolore dei giorni e dei sentimenti per trasfigurare giorni e sentimenti nella parola soteriologica, nella parola che salva, che è gloria, che dà la gioia.
La Recherche può non piacere, si ha diritto a che non piaccia. Bisogna allora lasciarla.
La Recherche non può essere un’amica ma soltanto un’amante.
Quelle che ho balbettato sono le parole di un innamorato.

Terza lezione su Proust (20.4.2018)

Abbandono

L’Atalante
di Jean Vigo
Francia, 1934
Con: Michel Simon (Père Jules), Dita Parlo (Juliette), Jean Dasté (Jean), Gilles Margaritis (L’ambulante)
Trailer del film

L’Atalante film attraversa la storia del cinema come L’Atalante chiatta percorre il suo fiume; con la stessa costanza, calma, malinconia e sorriso. Restaurata e di nuovo nelle sale, questa favola liquida racconta l’abbandono della casa paterna, l’abbandono della sicurezza, l’abbandono al sentimento, l’abbandono dell’amata.
Una delicata e deliziosa Juliette sposa Jean, giovane capitano di una chiatta. Con lui parte, con lui condivide la compagnia dell’anziano, rude e affettuoso marinaio Jules, la cui cabina è l’antro delle meraviglie abitato da gatti, grammofoni, coltelli, denti di squali, gioielli, foto di Shangai. Juliette vorrebbe visitare Parigi, la Lumière. Jean è attraversato dalla gelosia. Ingenua e testarda, Juliette vi si perde. L’abbandono è pieno di angoscia, sfiora la follia. Sino a che la figura dell’amata intravista nell’acqua non ridiventa carne di pienezza. Prima, però, ho immaginato per Juliette pensieri come questi:
«Sono passati così pochi giorni e la tua voce, caro, mi manca come da impossibili distanze. Sei già lontano come fossi stato mai tra questi piedi che baciavi prima dell’amore. E risalivi poi con tenerezza la caviglia, le mie gambe forti. Amavi le cosce che ti conducevano al delta nel quale ti tuffavi con l’intero respiro dei polmoni. Ma prima mi cucivi un tessuto lungo tutto il corpo, le spalle piene della tua saliva, i capelli profumati della voglia che sentivo tra le mani. E come amavi questi miei seni striduli!» Questo lei pensava nelle sere fatte di silenzio. Di suoni era sempre circondata ma più non c’era quello familiare, la voce diventata come le pareti, ogni angolino pieno del suo tono. E questo gli rimproverava con asprezza: lui s’era messo a sospettare, a cadere, anzi a precipitare in quella gelosia alla quale non interessano più i fatti ma soltanto se stessa. Come un cavallo furioso, Jean cercava di trattenere la follia ma essa lo afferrava, inevitabile. Troppo bella la vedeva. Ogni uomo la desiderava, questo era sicuro. E di maschi il mondo è pieno. «Ma lo sai, vero, lo sai che mai mi è venuto in mente di tradirti. Stesso istante e stesso malinconico desiderio, mio Jean: dei nostri abbracci infiniti, dei tuoi grattini e baci lungo il corpo, delle mie carezze sul tuo volto e alle spalle, delle risate piene e compiacenti, dell’abbandono dei nostri corpi uniti».
Αταλάντη è una figura del mito greco. La sua caratteristica è la fuga, l’abbandono. Ma delle mele d’oro la fermarono. È di queste mele che va in cerca colui che ama.

 

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