Skip to content


Siciliani

Teatro ABC – Catania
La roba
da Giovanni Verga
con Enrico Guarneri (Mazzarò), Rosario Marco Amato, Nadia De Luca, Alessandra Falci, Alice Ferlito, Francesca Ferro, Gianni Fontanarossa, Maria Chiara Pappalardo, Giuseppe Parisi, Giampaolo Romania
regia Guglielmo Ferro
Sino al 13 novembre 2022

La roba e il resto avrebbe dovuto intitolarsi questo spettacolo. Guarneri e Ferro mescolano infatti la scarna e perfetta novella che ha questo titolo con altri testi delle Novelle rusticane e di Vita dei campi; con altri personaggi quali Nedda, Janu, Jeli, Mara; con altre miserie, altri amori, altri tradimenti; con la disgrazia dell’esser nati poveri o d’avere molto danaro e farselo rubare o saper mantenere e moltiplicare la roba e poi dover morire; con la pazienza, la solitudine e la violenza a stento mascherata «d’indifferenza orientale che è la dignità del contadino siciliano» (Jeli il pastore, in Giovanni Verga, Tutte le novelle, Einaudi 2015, p. 130).
E poi le piogge che rovinano il raccolto e il sole tremendo che moltiplica l’arsura. E la diffidenza verso i potenti. E su tutto la morte. La morte che fa impazzire Mazzarò al pensiero che dovrà lasciare ad altri – a degli sconosciuti – quella roba che è diventata la sua sostanza stessa, per la quale ha commesso la stoltezza di continuare a mangiare pane e cipolle quando i suoi granai straboccavano, per la quale ha vissuto, respirato, faticato, odiato. Senza ottenere una pace diversa dalla consolazione di vedere «gli scimuniti» perdere la loro roba e lui acquistarla.
La messa in scena assai tradizionale ma piacevole di Guarneri-Ferro inizia con Mazzarò che recita l’incipit della novella, il suo canto del possesso nello spazio sconfinato della terra:

«Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristemente nell’immensa campagna e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: — Qui di chi è? — sentiva rispondersi: — Di Mazzarò —. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: — E qui? — Di Mazzarò —. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: — Di Mazzarò —. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. – Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra».
(Tutte le novelle, pp. 256-257)

La roba è parola tra i siciliani sacra, anche quando essa non riguarda direttamente dei beni economici ma il possesso di cariche politiche, amministrative, accademiche. La roba è il concetto materico per eccellenza. La roba è una droga capace di porre fine alla miseria e di dare senso al regime quotidiano della lotta. Greci e hobbesiani; solitari «sul cuor della terra» e splendenti d’ironia come il sorriso dell’ignoto di Antonello, i siciliani vivono la pienezza dell’assurdo mentre vengono inghiottiti dalle tenebre della storia e del tempo.

La rosa, il respiro

Suite of Love – Nobuyoshi Araki
fOn Art Gallery – Aci Castello (Catania)
Fondazione OELLE Mediterraneo Antico
A cura di Filippo Maggia
Sino al 25 luglio 2021

Si respira. Liberi dal soffocamento moralistico che dietro l’apparenza del ‘rispetto per la donna’ nasconde ancora una volta la paura verso la potenza del corpo femminile, verso il suo abisso, la sua gloria. Paure oscurantiste e superstiziose, a fatica celate dietro lo scintillio delle etiche postmoderne. Paure profondamente maschili verso il gorgo di follia, di μανία, che la vulva e la bocca sempre rappresentano per chi teme di essere afferrato dalla loro inemendabile potenza. Paura del gioco, del rischio, dell’inquietudine che sesso e desiderio costituiscono ma senza i quali rimane soltanto la piattezza casta e funebre del politicamente corretto.
E invece le 1000 Polaroid selezionate da Nobuyoshi Araki sono strutture di pienezza e  di gioia, sono un vivere e un agire nei quali la forma femminile, il suo εἶδος, è fatta di Ἔρως / θάνατος, di Amore e Morte -come ci ha ricordato Carmelo Nicosia, guida esperta e splendida alla mostra. Queste immagini sapientemente costruite e nello stesso tempo rubate all’istante danno vita a un gioco seriale e potenzialmente illimitato, nel quale la rosa del sesso femminile che si apre è accostata alle rose fatte di petali, entrambe irresistibili, profumate, possenti e delicate; nel quale i rettili, quanto forse di meno erotico si possa immaginare, convivono con lo sguardo che freme di possesso; nel quale il dualismo di natura e artificio è oltrepassato nella metamorfosi dell’immagine fotografica in desiderio. Le Polaroid fungono da ingresso al bagno e alla camera da letto della suite, camera arredata con intense immagini in bianco e nero nelle quali si ripete ancora una volta ciò che affresca le stanze di Pompei, l’intimità della fellatio, il gioco vibrante, malinconico e segreto dei corpi. Al di là della suite, il primo piano della fOn Art Gallery ospita altre immagini erotiche di Araki: bamboline mescolate e custodite dentro ai fiori e fiori che si declinano nella effimera potenza della loro gloria quotidiana.
Dopo aver visitato la mostra, docenti e studenti del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict e dell’Accademia di Belle Arti di Catania abbiamo discusso l’Estasi dell’arte. «Surrealismo orientale» ha definito Nicosia l’arte ludica e mortale di Nobuyoshi Araki, questa disseminazione del desiderio quotidiano nei luoghi di ogni giorno, questa cura ossessiva per l’immagine che diventa divertimento dell’immagine. Un Oriente e un Giappone molto greci, sacri. La «dimensione ieratica dell’arte» (ancora Nicosia) emerge infatti in Araki nel modo più impensato e del tutto naturale: quello di membra che fremono, di sguardi che desiderano, di istanti perfetti di piacere, di amore e di morte. «Post coitum animal/anima triste».

Vai alla barra degli strumenti