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Dicitencello

Alan Sorrenti
Dicitencello Vuje
(1974)
da «The Prog Years Box» (2018)

Le arti sono anche contaminazione e ibridazione, sono costituite dall’insieme di varianti che a partire da un testo riprendono, riscrivono, riformulano e ricreano l’opera nel corso del tempo, a volte dei millenni. E spesso accade che quanto più lontana sia la rilettura e ricomposizione, tanto più essa sembra rimanere fedele all’opera originaria, regalandole freschezza e profondità.
Dicitencello Vuje è una delle più celebri canzoni d’amore in napoletano. Composta nel 1930 da Enzo Fusco (testo) e Rodolfo Falvo (musica) è stata eseguita da molti artisti. Ma chi l’ha proprio ricreata è Alan Sorrenti, nel 1974. Un Sorrenti che veniva dalla ricca esperienza del cosiddetto rock progressivo, un ambito della musica rock che rappresenta il vertice sperimentale e qualitativo di quell’arte.
Dicintencello diventa quindi un’occasione per sonorità tese, per vocalizzi estremi che confermano il talento naturale di Alan Sorrenti, diventa una sorta di percorso nei meandri labirintici e solitari del sentimento amoroso.

Il capolavoro di Sorrenti è Aria del 1972, un brano di venti minuti nel quale la voce e le sue modalità diventano davvero l’elemento nel quale siamo immersi: SpotifyYouTube

Dicintencello Vuje è anche una sintesi di quell’opera quasi sinfonica: SpotifyYouTube


Testo e traduzione
(Fonte)

Dicitencello
a ‘sta cumpagna vosta
ch’aggio perduto ‘o suonno
e ‘a fantasia.
Ch’ ‘a penzo sempe,
ch’ è tutt”a vita mia.
I’ nce ‘o vvulesse dicere,
ma nun ce ‘o ssaccio dì­.
‘A voglio bene
‘A voglio bene assaje.
Dicitencello vuje
ca nun mm’ ‘a scordo maje.
E’ na passione
cchiù forte ‘e na catena,
ca mme turmenta ll’anema
e nun mme fa campà.
Dicitencello
ch’ è na rosa ‘e maggio,
ch’ è assaje cchiù bella
‘e na jurnata ‘e sole.
Da ‘a vocca soja,
cchiù fresca d”e vviole,
i già vulesse sèntere
ch’è ‘nnammurata ‘e me.
‘A voglio bene.
‘A voglio bene assaje.
Dicitencello vuje
ca nun mm’ ‘a scordo maje.
È na passione
cchiù forte ‘e na catena,
ca mme turmenta ll’anema
e nun mme fa campà.
Na lacrema lucente
v’è caduta,
dice­teme nu poco:
a che penzate?
Cu st’ uocchie doce,
vuje sola mme guardate.
Levammoce ‘sta maschera,
dicimmo ‘a verità.
Te voglio bene.
Te voglio bene assaje.
Si’ tu chesta catena
ca nun se spezza maje.
Suonno gentile,
suspiro mio carnale,
te cerco comm ‘a ll’aria,
te voglio pe’ campà.
Te voglio pe’ campà!

Diteglielo
a questa vostra amica
che ho perduto il sonno
e la fantasia.
Che la penso sempre,
che è tutta la mia vita.
Io glielo vorrei dire,
ma non glielo so dire.
Le voglio bene.
Le voglio bene assai.
Diteglielo voi
che non la dimentico mai.
È una passione,
più forte di una catena,
che mi tormenta l’anima
e non mi fa vivere.
Diteglielo
che è una rosa di maggio,
che è molto più bella
di una giornata di sole.
Dalla sua bocca,
più fresca delle viole,
io già vorrei udire
che è innamorata di me.
Le voglio bene.
Le voglio bene assai.
Diteglielo voi
che non la dimentico mai.
È una passione,
più forte di una catena,
che mi tormenta l’anima
e non mi fa vivere.
Una lacrima lucente
vi è caduta,
ditemi un poco:
a cosa pensate?
Con questi occhi dolci,
voi solo mi guardate.
Togliamoci questa maschera,
diciamo la verità.
Ti voglio bene.
Ti voglio bene assai.
Sei tu questa catena
che non si spezza mai.
Sogno gentile,
sospiro mio carnale,
ti cerco come l’aria,
ti voglio per vivere.
Ti voglio per vivere!

Innamoramento

Il mio profilo migliore
(Celle que vous croyez)
di Sayf  Nebbou
Francia, 2019
Con: Juliette Binoche (Claire Millaud), Nicole Garcia (Catherine Bormans), François Civil (Alex Chelly)
Trailer del film

Il titolo originale di questo film suona un poco pirandelliano, quasi un Come tu mi vuoi, la decisione e il bisogno di apparire all’altro come vorremmo che l’altro ci vedesse, nel nostro profilo migliore. Il titolo italiano in questo caso restituisce parte del significato dell’opera, dato che il profilo al quale fa riferimento è quello dei Social Network. Claire Millaud è infatti una bella docente universitaria cinquantenne, lasciata dal marito, con due figli adolescenti, con un amante che non la ascolta mai ed è interessato soltanto al sesso. Questo amante ha un giovane collaboratore, Alex, un fotografo del quale Claire vede il profilo su facebook e quasi per gioco e per contattarlo si inventa l’identità fasulla di una bella ventiquattrenne. Messaggio dopo messaggio, parole dopo parole, e poi telefonata dopo telefonata, Claire e Alex iniziano una relazione virtuale che nella prima parte del film viene raccontata dalla donna alla propria analista e nella seconda parte si dipana in vari ‘colpi di scena’ e in finali su finali nei quali il confine tra reale e virtuale si assottiglia sempre più. Anche la scena di chiusura sembra preludere a sviluppi forse ovvi, forse patologici, forse inquietanti.

Due mi sembrano i temi centrali di Celle que vous croyez.
Il primo è la potenza, le modalità, le opportunità e i rischi della comunicazione tramite cellulare telefonico, dello scambio vissuto solo virtualmente, ‘da remoto’. Gli umani non riescono a inventare nessun dispositivo che non risulti intrinsecamente ambiguo, per la semplice ragione che ambigui sono loro stessi: πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀνθρώπου δεινότερον πέλει, afferma il verso 332 dell’Antigone di Sofocle: “molti enti ed eventi ammirevoli e terribili ci sono al mondo ma nulla appare più ammirevole e terribile dell’umano”. E tale terribilità fa riferimento in Sofocle proprio alla natura tecnica dell’animale umano. Lo stasimo sofocleo si conclude con l’affermazione che un simile commensale non sarebbe il benvenuto a tavola.
Le possibilità, offerte dalle tecnologie digitali, di intrecciare relazioni e comunicazioni in ogni istante e con chiunque, si mescolano dunque alla possibilità che tali relazioni e comunicazioni siano fasulle, diventino patologiche, costituiscano un rischio anche assai grave. E questo conferma che l’enfasi sul «remoto», della quale il corpo sociale è stato vittima e carnefice in occasione dell’epidemia Covid19, è un’altra forma di distruzione dei legami umani più sani.
Il secondo elemento del film, ovviamente legato al primo, è la solitudine, è l’innamorarsi, sono le passioni umane. E su questo mi limito a rinviare ad alcuni brevi testi che ho dedicato all’argomento: 
Frammenti di un discorso amoroso (2009); Innamoramento ed evoluzione (2012 ); Amore / Vendetta (2016);  Lezione sull’amore (2017); Roth (2018); L’Altro (2018); Nella spuma potente del cosmo (2019;); Gender (2021).

Nel primo di tali testi scrivevo che l’Altro è una figura del desiderio, del nostro e di quello diffuso nel corpo collettivo, nella filogenesi della specie. L’amato è per l’innamorato l’imprendibile che rimane desiderio – e dunque è la pienezza dell’assenza. Pur sapendo che non raggiungerò mai l’amorosa quiete delle tue braccia, in cui spasimi e drammi saranno appagati e redenti, io continuo a spogliarmi di ogni cosa, continuo a barattare la mia forza con l’istante del tuo sguardo, a rinunciare al mio sorriso per il tuo. Teso verso l’impossibile, il mio discorso è un soliloquio.
L’Altro, infatti, non esiste. Il linguaggio avvolge l’umano sin dal suo apparire, è l’umano nella concretezza del suo agire, esistere, comprendere, comunicare, pensare. L’innamorarsi è una delle pratiche linguistiche che della parola sanno esprimere l’intera potenza nel racconto che la mente narra a se stessa.
Che l’Altro sia una figura linguistica è esattamente ciò che il film mostra.

La seduzione

Ovidio: seduzione e felicità
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
3 ottobre 2023
pagine 1-5

Nell’Ars amatoria Ovidio ha tra i suoi obiettivi descrivere un’esperienza razionalizzata dell’amore, nella quale il sentimento è presente, certo, ma in funzione decisamente subordinata al gioco, al piacere, al desiderio e alla finzione. L’«erotodidassi» è un progetto esistenziale, politico e teoretico di controllo del sé che però non significhi affatto rinuncia ma condizione per una soddisfazione ancora più grande, per un piacere più consapevole, per una forma che eviti sempre dismisura e volgarità e si esplichi nel tessuto quotidiano delle relazioni come eleganza e rispetto reciproco.
Raffreddando con la razionalità la passione amorosa nel momento stesso in cui ne celebra i piaceri e la forza, Ovidio mostra in che misura siano fecondi l’atteggiamento e il lavoro filosofici nel cercare di rendere gli umani quanto più possibile saggi e liberi.

[Foto di Anne Nygård su Unsplash]

Mattarella

È raro leggere in poche righe un tale concentrato di affermazioni  lontane dalla realtà.
La prima di queste affermazioni è che una Costituzione giuridico-politica, una norma, una legge scritta possa avere come obiettivo «superare ed espellere» un sentimento, che si tratti dell’odio o di qualunque altra passione umana. Un decreto, di qualunque genere, può imporre o può proibire un agire e non un sentire che afferisce alla sfera interiore, psichica, esistenziale, che siano sentimenti individuali o impulsi collettivi. Ma non ci troviamo soltanto di fronte a un banale errore categoriale. Si tratta di una affermazione pericolosa. Sono esistite infatti nella storia del Novecento delle formazioni politiche e dei regimi che si sono posti l’obiettivo di suscitare o di proibire sentimenti e non soltanto comportamenti nei loro cittadini. Questi regimi sono il fascismo, il nazionalsocialismo, il regime sovietico sotto Stalin.
L’ambito della politica è e deve rimanere distinto da quello dei moti interiori. Gli stati, i governi e i tribunali devono rimanere separati dall’animo umano, pena la dissoluzione di ogni libertà personale e pubblica. La descrizione più esplicita di una simile distopia è 1984. Gli scopi del Partito sono infatti ancora più radicali di qualsiasi passata Inquisizione, di qualsiasi regime autoritario, poiché il Partito vuole l’anima di chi cerca di resistergli e non elimina il ribelle sino a che questi non sia totalmente e sinceramente convinto della propria colpa e non provi autentico amore per il Grande Fratello. A questo, infatti, sarà condotto il dissidente Winston in un finale tanto terribile quanto malinconico e chiuso a qualsiasi speranza. Dopo il trattamento subito nelle stanze del Ministero dell’Amore (dell’amore, appunto) Winston «amava il Grande Fratello» (Orwell, 1984, trad. di G. Baldini, Mondadori 1998, p. 312).
Un secondo errore nel discorso di Sergio Mattarella consiste nella visione assolutamente negativa, al limite della demonizzazione, dei conflitti, dei contrasti, delle lotte. Errore aggravato dall’attribuire una simile posizione ai Costituenti, tra i quali un buon numero erano comunisti.
La Costituzione della Repubblica italiana non è nata infatti da un trionfo disneyano di armonia e di sorrisi ma da una sanguinosa guerra civile, che come tutti i conflitti di questa natura vide scatenarsi odio, violenza, vendette reciproche, tripudio dei vincitori e disprezzo per gli sconfitti (su questo tema è sempre da tenere presente Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, di Claudio Pavone, Bollati Boringhieri 1991).
Tra i «contrasti» indicati da Mattarella come negativi uno riguarda le «contrapposizioni ideologiche», senza le quali tuttavia non si ha pace e armonia ma la semplice vittoria di una ideologia che mette a tacere tutte le altre, compresa l’ideologia (radicale e che meriterebbe un’ampia analisi) che guida simili dichiarazioni contro le ‘ideologie’.
L’altro conflitto stigmatizzato da Mattarella sono le «ingannevoli lotte di classe». Qui immagino il tripudio di uditori da sempre anticomunisti come i militanti di Comunione e Liberazione, ai quali tale discorso è stato rivolto. Ma stupisce che un importante esponente politico mostri una simile rozzezza antistorica. Ritengo invece che siano sempre plausibili e rispondenti all’effettivo divenire storico le parole con le quali Marx ed Engels aprono il primo capitolo del Manifesto del partito comunista:

La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente, ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta 
(trad. di E. Cantimori Mezzomonti, Laterza 1981, pp. 54-55).

Infine un’osservazione generale: l’allocuzione di Mattarella è non soltanto inadeguata alla complessità del presente ma è anche e soprattutto logicamente autocontraddittoria, come lo è ogni tipo di affermazione contro l’odio. La sostanza e l’esito di simili dichiarazioni consiste infatti nell’incitare all’odio contro quanti vengono etichettati come «odiatori». Difatti lo stesso oratore invita a «sanzionare severamente» gli odiatori.
Ma stabilire e sanzionare un’affermazione in quanto «incita all’odio» è questione assai delicata. Dove si fermano il dissenso e il disaccordo e dove comincia l’odio? Chi stabilisce il discrimine, il crinale, il momento nel quale dei sentimenti si trasformano? Una commissione? Un supremo censore? Un tribunale? Un gruppo di giornalisti? Le porte si aprono evidentemente all’arbitrio di chi comanda e agli organi che le autorità controllano.
Con la loro stessa censura gli inquisitori aprono all’esclusione, alla punizione, al risentimento verso gli inquisiti. Notavo anche questo in un mio intervento di qualche anno fa intitolato Elogio dell’odio. La storia umana insegna che quando il potere si presenta nelle vesti dell’ultramoralismo il corpo collettivo corre dei gravi pericoli.

Politeisti semantici

Il mito è conoscenza ma non è solo conoscenza. Il mito è teologia ma non è solo teologia. Il mito è specialmente racconto, è l’arte del racconto, è il racconto che produce mondi, credenze, significati.
Anche per questo «qualsiasi esposizione della mitologia è una interpretazione»1, poiché è il mito in se stesso – e non soltanto nei suoi lettori e inventori – a essere un oggetto cangiante, metamorfico, ermeneutico.
Di ogni dio si raccontano storie diverse, anche molto diverse. Di ogni nome del dio si danno differenti origini, interpretazioni, significati. Di ogni racconto esistono una molteplicità di versioni, sviluppi, soluzioni. Un esempio è Marsia, il satiro che sfidò Apollo nella musica e che, sconfitto, venne scuoiato dal dio a causa della sua ὕβρις. In un saggio assai bello Elvia Giudice ipotizza e descrive «una storia diversa, in cui Marsia, sconfitto da Apollo nell’agone auletico e risparmiato dal dio per intercessione di Athena (?), avrebbe riconosciuto le ragioni del rivale, assumendone lo strumento e sposandone la causa: la supremazia della citarodia su tutte le altre forme d’arte musicale»2.
Nel mito vive una molteplicità ermeneutica che lascia ammirati e stupefatti. Perché i Greci erano davvero dei politeisti semantici, credevano che nulla potesse fermarsi, avere un solo volto, diventare verità per sempre uguale, dogma.

Il Mare, la Notte, la Terra stanno all’origine di tutto. In principio – questo afferma il colto narratore greco al quale Kerényi dà voce e presta erudizione – «esisteva la Notte: nella nostra lingua essa si chiamava Nyx, una delle più grandi dee anche secondo Omero, una dea davanti alla quale perfino Zeus provava un sacro timore» (p. 26, con riferimento a Iliade, XIV, 261). Da questa notte sconfinata e potente si generarono il Cielo e la Terra; dalla loro unione il Tempo; e dal Tempo la Luce, Zeus, il dio la cui potenza, i cui figli, le cui sapienti alleanze garantirono il trionfo contro le forze più antiche e più oscure, l’avvento di un ordine comunque sempre precario, violento e cangiante, poiché precaria, violenta e cangiante è la vita stessa delle cose e della materia.
La Morte, che su tutto domina e ogni cosa aspetta, seppe darsi la figura più lieta, più desiderata, più potente: l’Amore. Soltanto perché la passione amorosa vince sui mortali, essi generano enti simili a sé, altre cose destinate e morire. «Le Sirene servivano la morte» (58). Afrodite, nata nel Mare dallo sperma insanguinato del Cielo, è una divinità d’amore e una divinità di morte. E anche per questo «l’Afrodite nera può stare altrettanto bene a lato delle Erinni, tra le quali essa viene pure contata» (73-74). Afrodite domina su tutti gli animali (umani compresi) e su tutti gli dèi (tranne Atena, Artemide ed Estia). Essa costringe persino Zeus a desiderare donne mortali, ad amare anche la propria sposa-sorella Era e poi una miriade di donne, di enti, di forze, con le quali si unisce nei modi più impensati e fantasiosi e dalle quali genera altre forze, eroi, dèi.
Le Erinni e Afrodite limitano e compiono il potere di Zeus, della Luce. Le Erinni anch’esse generate dalle gocce di sangue di Urano. Le Erinni figlie della Notte, della Terra, dell’Oscuro.

Il politeismo narrativo, le continue metamorfosi, le trasformazioni, il diventare e il tempo generano racconti vorticosi, producono nomi, celebrano matrimoni, fioriscono figli, si trasformano in stelle, nel continuo catasterismo della religione greca che colloca nella notte stellata molti personaggi rendendoli così immortali e insieme visibili.
Una delle più belle costellazioni invernali, Orione, è appunto un catasterismo, insieme al suo cane, allo scorpione che lo ha punto, agli altri animali dei quali il cacciatore primordiale va sempre all’inseguimento, ogni notte.
Il politeismo narrativo inventa la vergine madre ben prima che lo facesse la saga biblica; la storia delle nozze di Atena narra infatti che la dea «non perdette la sua verginità, ma dopo le quali [nozze] affida ugualmente un bambino alle figlie di Cecrope, re della sua amata città di Atene» (107).
Il politeismo antropologico attribuisce a disgrazia la donna (come accade anche in Genesi), tanto da definire Pandora, plasmata da Zeus per punire Prometeo e gli umani, con la formula di un «bel male […] insidia pericolosa, di fronte alla quale gli uomini sono inermi. Da essa discende la generazione delle donne. Un male di cui gioiranno, circondando d’amore ciò che costituirà la loro disgrazia» (182).
Il vortice narrativo arriva al suo culmine nell’unione di Zeus con Persefone, figlia sua e di sua madre Rea o forse di Demetra (Diodoro Siculo, 3, 64. 1); unendosi alla figlia Zeus generò Dioniso, nella prima delle tre nascite del dio; «entrambi gli dèi, Zeus, il seduttore di Persefone, e Dioniso, figlio dei due, portavano anche il nome Zagreo» (101).

Dioniso è il culmine, è il fascino, è il dio smembrato e divorato dalle forze oscure ancora potenti, punite e rese fumo da Zeus. Da tale caligine fummo generati noi, gli umani, che dunque siamo tenebra titanica e luce dionisiaca.
I racconti di Dioniso che rende vani gli sforzi dei pirati di rapirlo, trasformando la loro nave in una vite e loro in delfini; di Dioniso che punisce tremendamente Penteo facendolo sbranare dalla sua stessa madre; di Dioniso che nasce ancora due volte da Semele e dal proprio cuore/fallo bollito, tutto questo è la meraviglia ironica, serissima e cosmica che fa del mito greco la spiegazione più profonda e cangiante del mondo profondo e cangiante nel quale abitiamo e che siamo.

Note
1. Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia (1951-1958), trad. di Vanda Tedeschi, il Saggiatore 1963, p. 17. Indicherò tra parentesi nel testo i numeri di pagina delle successive citazioni.
2. Elvia Giudice, Il Cratere del Pittore di Cadmo 1093: pittura vascolare e società, in Ostraka. Rivista di antichità, anno XXX. Numero 21, 2021, p. 72.

Medea, la maga

Teatro Greco – Siracusa
Medea
di Euripide
Traduzione di Massimo Fusillo
Scene di Marco Rossi
Costumi di Giovanna Buzzi
Con: Laura Marinoni (Medea), Alessandro Averone (Giasone), Debora Zuin (nutrice), Francesca Giochetti (prima corifea), Roberto Latini (Creonte), Luigi Tabita (Egeo)
Regia di Federico Tiezzi
Sino al 24 giugno 2023

È un male per gli umani l’amore. Questa verità antica e discussa viene enunciata da Medea, che non parla di sé soltanto ma degli effetti universali e spesso nefasti che un sentimento di possesso così esclusivo comporta e produce. Medea è una maga dei veleni e del linguaggio. Sa porsi a un livello dialettico assai alto nel confronto retorico con Giasone durante il quale i due sposi cercano di sovrastare l’uno le ragioni dell’altro con le proprie. E sono ragioni tutte razionali, ragioni tutte etiche. Anche questo fa la grandezza del filosofo/drammaturgo Euripide: aver reso inestricabile nei suoi testi la mescolanza tra il più raffinato ragionare e la più estrema violenza fisica, in una guerra dialettica e materica che soltanto nei Greci ha potuto giungere a unità.
Mentre i moderni hanno separato del tutto la razionalità diventata cartesiana e il sentimento diventato romantico, in Euripide si tratta di due aspetti della stessa struttura, di due modi d’essere che transitano senza posa l’uno nell’altro e che non costituiscono dunque – come vorrebbe Nietzsche – la fine della tragedia ma forse, al contrario, il suo più splendente e oggettivo inveramento.
«Selvaggia, totale, cieca e illuminata, feroce, sapiente delle passioni. […] Questo è Medea. Intrisa di un sentimento potente, la vendetta. Medea è tale passione fatta carne, intelligenza, azione. Fatta gioia» (Chronos. Scritti di storia della filosofia, p. 51).
Una gioia tanto sicura quanto inquieta, tanto incerta quanto alla fine solare mentre sul carro celeste che la porta verso Atene Medea rivolge all’annichilito Giasone, al quale ha ucciso i due figli con lui generati, parole di saggezza e di disprezzo:
«Alle tue parole potrei certo opporre lunghe repliche, se il padre Zeus non sapesse sia quello che avesti da me, sia quello che m’hai fatto tu. Non potevo permettere che tu, spregiato il letto mio, te la godessi allegramente, facendoti beffe di me, né che la tua sposa regale e Creonte, che a te la diede in moglie, mi cacciassero via da questa terra impunemente. Dopo questo dì pure, se vuoi, che sono una leonessa o la Scilla che sta lungo il Tirreno: in ogni caso t’ho colpito al cuore (τῆς σῆς γὰρ ὡς χρῆν καρδίας ἀνθηψάμην)» (v. 1360, trad. di Filippo Maria Pontani).
E al cuore da millenni vengono colpiti anche gli spettatori e i lettori di questa vicenda estrema, alla quale la traduzione di Massimo Fusillo offre un linguaggio immerso nella contemporaneità e ricco di riferimenti anche impliciti; Conrad ad esempio, che in Hearth of Darkness così descrive un’altra estrema forza umana e materica: «His stare […] was wide enough to embrace the whole universe, piercing enough to penetrate all the hearts that beat in the darkness. He had summed up -he had judged. “The horror!”»  (Dover Publications, New York 1990, p. 65) .
Non è casuale o frutto soltanto di scarsa educazione teatrale se in occasione di questa rappresentazione siracusana da un certo momento in poi gli spettatori, per lo più folle di studenti medi e liceali, abbiano cominciato ad applaudire quasi a ogni discorso dei personaggi. Era anche un tentativo (inconsapevole, ovviamente) di neutralizzare con la banalità e la familiarità dell’applauso l’orrore al quale stavano assistendo.

Un amore

Hannah e Martin, tra le lettere il segreto di un amore
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
23 marzo 2023
pagine 1-5

Heidegger sapeva che «nonostante tutto, a prescindere dalla durata della mia vita personale, ho molto tempo» (lettera n. 68 di M.H., 15.9.1950). Una donna meravigliosamente intelligente, politicamente scorretta, una donna innamorata di Martin Heidegger sino alla fine dei suoi giorni, dà al filosofo conferma della unicità e grandezza del cammino di pensiero da lui intrapreso, percorso, costruito: «sai già da solo che non ci sono tuoi pari» (lettera n. 133 di H.A., 28.7.1971).

Sono contento di aver avuto l’occasione di scrivere sull’Epistolario tra Hannah Arendt e Martin Heidegger. Un documento tradotto in italiano da Einaudi e che consiglio a coloro che sanno (e a quanti desiderano saperlo) che la filosofia costituisce anche la pienezza della vita, delle passioni, dei corpi, della solitudine, delle relazioni, della gioia.

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