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Ghiaccioli

Non dimenticarmi
di Ram Nehari
Israele, Francia, Germania, 2017
Con: Moon Shavit (Tom), Nitai Gvirtz (Neil)
Trailer del film

Nutrirsi, bere, mangiare, defecare, per le femmine in età fertile avere un ciclo, sono tutte espressioni della materia animale. Una materia viva, pulsante, dolorosa, fragile, resistente, temporale. Le indagini etologiche documentano che sono forme vissute con immediatezza da tutti i mammiferi e da altri animali. E che diventano invece problematiche in vari membri della specie Homo sapiens. Un fenomeno che si è accentuato nella contemporaneità ma che appartiene anche ad altri tempi e luoghi, come dimostrano alcune sante medioevali chiaramente anoressiche. E poi c’è il disagio generale della vita, la sua angoscia, che può colpire chiunque in qualsiasi momento, per brevi periodi, per molti anni, a volte per sempre.
Non dimenticarmi racconta l’incontro tra una vivace ragazza piena di energia e disincanto (Tom), che vorrebbe diventare una modella, e un musicista (Neil) che suona la tuba, ha pochi soldi e un po’ di squilibrio mentale. Neil aiuta Tom a fuggire dalla clinica nella quale i suoi genitori l’hanno rinchiusa. Non hanno però dove andare e camminano per la città di notte. Neil, che si porta appresso la tuba con la sua massiccia custodia, è sempre più afferrato dalla vitalità di Tom. Se ne innamora proprio. La scena finale li vede in una clinica psichiatrica; sono seduti l’una accanto all’altro, progettano il pranzo bianco delle loro nozze, nel quale non si mangi nulla se non dei ghiaccioli, e Tom dice: «Voglio morire ma in silenzio. Voglio appassire». Lungo tutto il film la tragedia si coniuga al comico e il desiderio – nonostante tutto – emerge in ogni istante.
Discutendo qualche anno fa di un libro di René Girard scrivevo che nessuno può convincere l’anoressica della sua condizione; lei «è orgogliosa di adempiere a quello ch’è forse il solo e unico ideale ancora condiviso da tutta la nostra società: la magrezza» (Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo, Raffaello Cortina Editore 1999, p. 160). Notevole ed esemplificativa dello stile di Girard è l’immagine che chiude la sua analisi dei disturbi alimentari: «Se i nostri avi vedessero i cadaveri gesticolanti delle riviste di moda contemporanea, li interpreterebbero probabilmente come un memento mori, un promemoria di morte, equivalente forse alle danze macabre dipinte sui muri delle chiese del tardo Medioevo; se dicessimo loro che, per noi, questi scheletri disarticolati significano piacere, felicità, lusso, successo, è probabile che fuggirebbero in preda al panico, pensando che siamo posseduti da un demone particolarmente ripugnante» (p. 188).
Il fenomeno psichico che chiamiamo «disturbi dell’alimentazione» si pone alla convergenza di molteplici elementi: il disagio esistenziale; l’ordine impartito alle ragazze di esprimere una forma fisica che all’epoca, ad esempio, di Rubens sarebbe stata giudicata brutta sino all’inaccettabilità; il modello fortemente competitivo che pervade l’economia e la società neoliberiste; la solitudine generata dalla dissoluzione della Communitas (e moltiplicata dalla distruttiva gestione politica della Sars2).
Il film di Nehari mantiene tutto questo sullo sfondo e racconta una storia d’amore triste e insieme divertente.

Distanziamento

Per una specie come la nostra le parole sono tutto, perché sono insieme pensiero in atto, pensiero pubblico, pensiero che comunica. Un’espressione come «distanziamento sociale» dice quindi molto, e drammaticamente, della visione che sta attualmente vincendo; ‘attualmente’ da alcuni decenni, da quelli che videro Thatcher e Reagan imporre l’ordine liberale e liberista al mondo. Un ordine del tutto ed esclusivamente individualista e quantitativo, si tratti di beni, risorse, denaro, velocità, vita. L’ordine che anche un fisico come Carlo Rovelli ha mostrato di condividere pienamente quando sul Corriere della sera del 2 aprile 2020 ha affermato che «il bene più prezioso» è «un po’ di vita in più». Che significa qualche anno, mese, giorno in più. ‘Tempo’ in più. Una contraddizione ironica e non piccola per chi afferma che il tempo esiste soltanto come struttura della mente (ho discusso le tesi di Rovelli in Tempo e materia. Una metafisica). Ma è sempre così: i negatori teorici del tempo diventano i suoi più fanatici sostenitori pratici quando si arriva al dunque della finitudine, vale a dire della condizione pervasivamente temporale dello stare al mondo.

Un po’ di vita in più è anche quella che i decisori politici si sono assunti come compito primario, a costo di rendere quel tempo ottenuto un periodo di miseria, angoscia, depressione. A questo conducono infatti superstizione e panico quando si impossessano non soltanto del corpo sociale ma anche di chi avrebbe il compito di guidarlo: «I terrori irragionevoli si allacciano alle folli speranze: quale laboratorio, per primo, fornirà il vaccino miracoloso? Si prendono misure di ‘distanziamento sociale’, a volte eccessive, a volte tardive, spesso inapplicabili. […] Nessuna autorità, pubblica o privata, vuole subire il rimprovero di ‘non aver fatto abbastanza’. Quindi spesso ne fanno troppo. L’economia e l’intera popolazione ne faranno le spese» (Slobodan Despot, in Diorama Letterario 353, p. 8).
La vicenda del coronavirus nell’anno 2020 è stata ed è anche la testimonianza di un complottismo al contrario, testimonianza dell’attribuzione di ogni responsabilità all’elemento biochimico, al virus – indubbiamente presente – e però del silenzio a proposito delle condizioni finanziarie; delle modalità alimentari e produttive (i macelli e i mercati della carne); delle politiche sanitarie (la diminuzione drastica e feroce dei finanziamenti alla sanità pubblica) che ne hanno favorito la comparsa, la virulenza, la diffusione. 

Il nascondimento della presenza umana e politica dentro questo virus impedisce la comprensione dei suoi effetti o la loro riduzione a polemiche tra i partiti, qualcosa non solo di patetico ma anche di criminale rispetto al pericolo che il Covid19 rappresenta. Il silenzio sulle ragioni strutturali del contagio conferma che per il complottista, anche per quello al contrario, «dietro c’è sempre qualcuno, mai qualcosa. Egli si focalizza sugli uomini ed ignora i processi privi di un attore e quelli senza un soggetto, per riprendere una griglia analitica cara agli strutturalisti, e più specificamente a Louis Althusser. […] Non capisce che le strutture sono più potenti degli attori» (François Bousquet, ivi, p. 21).
Gli attori sono in questo caso i Fontana, i Conte, gli Speranza et similia. Le strutture sono l’Unione Europea, i debiti degli stati, il nutrirsi di carne, l’ossessione liberista dell’‘austerità’ a danno delle vite umane, qualunque durata esse abbiano.

[Photo by Sasha Freemind on Unsplash ]

Animalità / Luce

Corpo e anima
(A teströl és a lélekröl)
di Ildikò Enyedi
Ungheria, 2017
Con: Alexandra Borbély (Mária), Morcsányi Géza (Endre), Ervin Nagy (Sanyi)
Orso d’Oro al Festival di Berlino 2017
Trailer del film

L’animalità è la calunnia che l’umano esprime in forme molteplici. L’animalità è la paura di vedere ciò che siamo e sempre rimarremo, al di là delle distopie transumaniste, fondate sul volontarismo della psiche e sulle tecnologie al servizio dell’individualismo liberista. L’animalità è la potenza della materia organica che ci costituisce. L’animalità è il desiderio, il timore, l’amore.
È la dolorosa e invincibile ricchezza dell’animalità umana che questo film racconta nella forma di una singolare storia d’amore ambientata in un macello di Budapest. Il maturo direttore Endre e la giovane dottoressa Mária – incaricata del controllo di qualità sulle carni – sono entrambi solitari e riservati, pur se in modi diversi. Mária è silenziosa, precisissima sul lavoro e – si scopre a poco a poco – dotata di una memoria formidabile che declina in modi infantili. La distanza di lei da ogni altro collega di lavoro sembra inoltrepassabile sino a quando Endre e Mária scoprono di fare tutte le notti lo stesso sogno, di essere due cervi che in un paesaggio innevato e solitario si incontrano, si annusano, si toccano, insieme corrono. Una scoperta che cambierà a fondo le loro vite.
Gli animali nella solitudine arcaica del loro mondo fatto di betulle, di laghi, di foglie, i cervi. Gli animali nella solitudine tecnologica di un mattatoio che in pochi minuti trasforma delle pulsanti vite in carne per i supermercati, le mucche. Cervi, mucche, umani sono la stessa animalità libera e oppressa, sovrana e schiava, sacra e squartata. Un’animalità fatta di desiderio, clamori, silenzio, morire.
Corpo e anima racconta e descrive tutto questo attraverso la poesia dei particolari, dei riflessi, degli occhi delle mucche e dei cervi, delle scarpe di Mária, degli sguardi umani, delle lampadine al soffitto, del cibo continuamente assunto e toccato. Lo racconta attraverso un eros intenso e delicato. Dal quale emerge la luce della materia, la luce che la materia è: E=mc2. L’animalità è parte di questa energia, materia, luce.

«Che l’uomo non sia carnivoro per natura»

Plutarco
Del mangiare carne
Trattati sugli animali
(Plutarchi Moralia selecta: De esu carnium; Bruta animalia ragione uti; De sollertia animalium)
Introduzione di Dario Del Corno
Traduzione e note di Donatella Magini
Adelphi, 2001
Pagine 296

Una delle ipotesi più accreditate sulle origini del Coronavirus è che si sia sviluppato nei mercati di carne animale, viva e morta. Può dunque essere utile leggere quanto un antico saggio ha argomentato contro la pratica umana di mangiare la carne di altri animali.
Il volume – ben tradotto e arricchito da due feconde introduzioni e da un imponente apparato di note – raccoglie infatti tre testi di Plutarco (47-127) dedicati all’animalità: De esu carnium; Bruta animalia ragione uti; De sollertia animalium, vale a dire Del mangiare carne, Gli animali usano la ragione, L’intelligenza degli animali di terra e di mare (questo il vero argomento, al di là del modo in cui viene intitolato in latino il terzo testo). 

Molto più che trattati di zoologia antica, molto più che una godibilissima antologia di centinaia di affascinanti leggende greche e romane sul mondo animale, le pagine di Plutarco mostrano alcune delle ragioni per le quali i due immediati successori di Aristotele alla guida del Peripato – Teofrasto e Stratone di Lampsaco – si allontanarono dalla scala naturae del Maestro, sostenendo invece la presenza di una ψυχή, della mente, in tutti gli animali.
Il paradigma proposto da Teofrasto, Stratone, Plutarco è opposto a quello biblico ben testimoniato dalle parole che Yahweh (הְוֶה) rivolge a Noè all’uscita dall’arca: «Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo» (Genesi, 9, 2–3; trad. La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane 1988, p. 50).

Il paradigma di questi Greci si può invece riassumere in alcuni punti tanto chiari quanto fondamentali per comprendere le dinamiche dell’οἶκος, della comune abitazione dei viventi:
-tutti gli animali, qualunque sia la loro specie, sono dotati di percezione, ragionamento, comprensione della complessità degli ambienti nei quali vivono. A volte alcuni di essi impazziscono e non si può impazzire se non si possiede la ragione. Essi tutti sono in grado di comprendere i pericoli e di perseguire i vantaggi, in caso contrario semplicemente non esisterebbero; rispetto agli umani, sono anche dotati di un maggiore equilibrio nei comportamenti quotidiani, tanto è vero – afferma Grillo nel Bruta animalia ragione uti – che «le bestie, invece, hanno un animo totalmente inaccessibile e impenetrabile alle passioni di provenienza esterna, e vivono tenendosi lontano da vane illusioni» (cap. 6, 989 C, p. 91). Una superiorità etica alla quale si ispirò Machiavelli per il suo splendido e incompiuto poema L’Asino;
-tra le passioni che li muovono, gli umani nutrono una ferocia smodata, una costante aggressività, un eccesso persino sadico, dal quale le specie carnivore sono invece libere. Se infatti «per loro [serpenti, pantere, leoni] il sangue è un cibo vitale, invece per voi è semplicemente una delizia del gusto» (De esu carnium, 2, 994 B; 58), sino al punto che «per un minuscolo pezzo di carne priviamo un essere vivente della luce del sole e del corso dell’esistenza, per cui esso è nato ed è stato generato» (Ivi, 3, 994 E ; 59-60);
-la struttura anatomo-fisiologica di Homo sapiens è la più evidente prova della sua natura frugivora e non carnivora: «Che l’uomo non sia carnivoro per natura, è provato in primo luogo dalla sua struttura fisica. Il corpo umano infatti non ha affinità con alcuna creatura formata per mangiare la carne: non possiede becco ricurvo, né artigli affilati, né denti aguzzi, né viscere resistenti e umori caldi in grado di digerire e assimilare un pesante pasto a base di carne. Invece, proprio per la levigatezza dei denti, per le dimensioni ridotte della bocca, per la lingua molle e per la debolezza degli umori destinati alla digestione, la natura esclude la nostra disposizione a mangiare la carne. Se però sei convinto di essere naturalmente predisposto a tale alimentazione, prova anzitutto a uccidere tu stesso l’animale che vuoi mangiare. Ma ammazzalo tu in persona, con le tue mani, senza ricorrere a un coltello, a un bastone o a una scure» (Ivi, 3, 994 F -995 A; 60-61);
-l’abitudine al sangue e alla violenza inflitta ad altri animali si trasforma inevitabilmente in crudeltà verso i propri conspecifici, verso gli umani. Lo hanno ribadito, tra gli altri, filosofi come Kant, Schopenhauer, Horkheimer, Adorno, Marcuse e lo afferma con chiarezza anche Plutarco: «Queste pratiche insegnano […] a considerare il sangue, la morte di esseri umani, le ferite e i combattimenti il più raffinato degli spettacoli» (Ivi, 2, 997 C, 67); «Una volta che ebbero così gradualmente temprato la propria insaziabilità, gli uomini si volsero alle stragi dei loro simili, ai delitti e alle guerre» (Ivi, 4, 998 C; 70); «La caccia sia responsabile del diffondersi fra gli uomini dell’insensibilità e della ferocia» poiché essa corrobora «la componente sanguinaria e ferina, che è insita in loro [gli umani] per natura, e la resero inflessibile alla pietà […] Infatti l’abitudine è straordinariamente efficace nel far progredire l’uomo con il graduale insinuarsi degli affetti» (De sollertia animalium, 2, 959 D-F, 106-107);
-nutrirsi della carne di altri animali è, di fatto, un nutrirsi di cadaveri. Plutarco è su questo punto del tutto chiaro: «Io mi domando con stupore in quale circostanza e con quale disposizione spirituale l’uomo toccò per la prima volta con la bocca il sangue e sfiorò con le labbra la carne di un animale morto; e imbandendo mense di corpi morti e corrotti, diede altresì il nome di manicaretti e di delicatezze a quelle membra che poco prima muggivano e gridavano, si muovevano e vivevano. […] Come mai quella lordura non stornò il senso del gusto, che veniva a contatto con le piaghe di altre creature e che sorbiva umori e sieri essudati da ferite mortali?» (De esu carnium, 1, 993 B; p. 55).

L’ultimo trattato è il più lieve e curioso. In esso infatti due interlocutori, Aristotimo e Fedimo, difendono con convinzione rispettivamente l’intelligenza profonda degli animali di terra e di aria e quella degli animali marini. Una lode che arriva sino all’ammirazione e al sacro. Una lode così convinta che Soclaro, che li ha ascoltati, conclude che «collegando i vostri discorsi contrapposti, entrambi lotterete insieme validamente contro chi priva gli animali di ragione e di intelligenza» (De sollertia animalium, 37, 985 C, 188). Emerge in questo modo evidente la contraddizione logica e retorica che intride tutto il dialogo e che consiste nel fatto che gli animali così efficacemente descritti, dei quali si dimostra la sensibilità, l’intelligenza, la nobiltà dei comportamenti, vengano lodati da coloro che però difendono poi la caccia che a loro viene data, la morte che a loro viene inferta.
Credo si tratti di un effetto voluto da Plutarco, il quale – per bocca di Fedimo – riconosce l’universalità della lotta, della violenza e della morte che intridono il mondo dei viventi, di tutti gli animali: «E la natura ha creato per loro tale ciclo e tale avvicendarsi di reciproci inseguimenti e fughe come esercizio e pratica di competizione per l’abilità e l’intelligenza» (Ivi, 27, 979 A, 168). E però l’intelligenza è capace di allontanarci, per le ragioni da Plutarco ben argomentate, da una pratica tanto insensata quanto feroce come il mangiar carne.

Epidemie, biodiversità, alimentazione

Come sempre, la scaturigine di ciò che accade è politica, sta nelle opzioni economiche e nella tracotanza che la natura punisce.
Lo conferma una analisi di Silvia Granziero sul numero del 7.4.2020 di Internazionale, Le pandemie sono una delle conseguenze della perdita di biodiversità:

«È la distruzione della biodiversità da parte dell’uomo a creare le condizioni per nuovi virus e patologie come la COVID-19. David Quammen, autore di Spillover. L’evoluzione delle pandemie, sintetizza così: “Sconvolgiamo ecosistemi e liberiamo virus dai loro ospiti naturali: quando succede, hanno bisogno di nuovi ospiti, e spesso siamo noi”. […]
La distruzione delle foreste – attraverso il taglio di legname, la costruzione di strade e miniere, l’urbanizzazione e la crescita demografica – avvicina le persone alle specie animali con cui non sono mai state così a contatto, e questo aumenta la possibilità per i virus di passare da una specie all’altra. […] L’attività umana danneggia anche la biodiversità animale, provocando una perdita di specie predatrici degli animali vettori. […]
In pratica, più disturbiamo habitat e foreste e più siamo in pericolo. […] Grazie alla loro adattabilità, i virus possono poi replicarsi e diffondersi con estrema rapidità grazie al sovraffollamento dei grandi centri. […]
Anche l’inquinamento gioca la sua parte […] quasi tutte le recenti pandemie sono state influenzate da alta densità di popolazione, aumento di commercio e caccia di animali selvatici, cambiamenti ambientali e allevamenti intensivi. […]
Dobbiamo metterci in testa l’idea che non si può salvaguardare la salute umana senza rispettare la biodiversità. È il momento di ripensare completamente la nostra relazione con la natura: fermare la crisi climatica, frenare la distruzione delle foreste e ridurre il consumo di risorse sono misure da avviare immediatamente. Anche le pandemie sono una delle le conseguenze della perdita di biodiversità. Quando quella da coronavirus sarà cessata, bisognerà intervenire sui fattori che l’hanno scatenata e renderci conto che la diffusione di questi nuovi virus è anche la risposta della natura all’assalto dell’uomo»
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Sono tre i nuclei della questione ecologica: l’utilizzo di varie forme di energia, la demografia, l’alimentazione.
Siamo chimica in movimento, materia consapevole di esserci. Ciò che mangiamo diventa la nostra persona, ciò di cui ci nutriamo si fa tessuto, muscoli, sangue, liquidi, cervello, pensieri. Esserne consapevoli significa oltrepassare le secche di ogni dualismo ‘mente – corpo’ come di ogni riduzionismo che evidenzia soltanto una delle componenti dell’essere umano o dei viventi: che si tratti dell’ ‘anima’ o dell’organismo.
Siamo plurali, complessi, intessuti di tante vite, di quelle dei nostri avi come degli incontri che ci regalano gioia o ci infliggono tormento. E siamo fatti anche di una miriade di esseri che abitano nel nostro corpo, che sono il nostro corpo.
Portiamo con noi, dentro di noi, fatti di noi e noi di loro, «miliardi di esseri viventi che ci condizionano l’esistenza senza che noi ce ne accorgiamo. Si tratta di batteri che costituiscono il nostro microbiota, cioè l’insieme di esseri che si trovano nel tubo digerente. I vegetariani, consumando frutta e verdura, ‘coltivano’ batteri intestinali di varietà specifiche che hanno un impatto positivo sulla salute» (Biagio Tinghino, Vivere senza carne. La guida a una nuova alimentazione scritta da un medico vegetariano, Tecniche nuove 2016, p. 119).
Ciò che chiamiamo salute e malattia è il risultato sempre provvisorio del corpo come dimora di entità e strutture plurali e diverse tra di loro. Soltanto se proiettata su uno sfondo antropologico e biologico complessivo la questione del vegetarianesimo mostra tutta la propria fecondità. Decisivo è l’approccio statistico poiché le osservazioni soggettive e parziali non bastano, né gli impressionismi più o meno sentimentali o ideologici, ancor meno la parola di presunte autorità che non dimostrino le loro tesi sulla base di ampi studi. Tinghino fa invece «riferimento a studi osservazionali, di coorte e soprattutto a metanalisi. In una parola: vogliamo appoggiarci su fondamenti seri» (44), allo scopo di affrancarsi da «un dibattito che sembra ormai accecato dalle polemiche tra le varie fazioni» e fare invece «informazione scientifica serena, fondata sulle evidenze e, quando necessario, critica» (2).
Il risultato complessivo di analisi nutrizionali, chimiche, mediche molto accurate – basate su una bibliografia davvero imponente – è che «la carne rossa fa male e le carni conservate aumentano il rischio di cancro nei consumatori. L’Organizzazione Mondiale della Sanità si è recentemente espressa in questi termini, attraverso l’IARC, l’agenzia internazionale di ricerca sul cancro» (77); «la carne non è indispensabile in nessuna fase della vita» (24); «mangiare molta carne accorcia la vita ed è alla base di molte malattie del nostro secolo: tumori, patologie croniche e degenerative» (1).
Ne consegue un interrogativo ovvio e razionale: «Perché dovremmo far soffrire gli altri animali per usarli come cibo, quando, evitandolo, possiamo addirittura stare meglio in salute?» (3). Anche in questo caso la risposta è complessa ma alla sua base c’è una constatazione di fatto, confermata dallo sguardo e dagli studi antropologici: «Mangiamo gli animali perché essi non riescono a difendersi con l’astuzia e la tecnologia di noi umani. La questione è tutta qui» (14), come mostrano le analisi antropologiche di Gianfranco Mormino.
Ed è una questione che si volge poi contro l’umano che utilizza senza misura e intelligenza i propri poteri. Il carnismo sistematico è infatti fonte di numerose e gravi patologie. Una delle ragioni è che Homo sapiens è diventato onnivoro ma la sua anatomia non è quella di un carnivoro. A mostrarlo ci sono molteplici evidenze: le nostre mani e i piedi sono privi di artigli o zanne, siamo incapaci di correre e saltare, come sanno fare tutti i predatori, siamo invece 

«tra i più lenti esseri viventi. […] Anche se le scimmie possono occasionalmente mangiare carne o cibarsi di insetti, fondamentalmente i primati sono frugivori o folivori (mangiano foglie e germogli). […] L’intestino umano è molto più lungo di quello dei carnivori. […] La flora batterica (microbiota) dei frugivori e dei primati in generale è fermentante, non putrefatta come quella dei carnivori. […] Quando questa flora batterica viene alterata dall’eccessiva introduzione di cibi animali è più facile che insorgano alcune malattie come i tumori e le malattie infiammatorie. […] I denti dell’uomo non sono adatti ad afferrare prede e strappare carne, ma ad addentare la frutta (con gli incisivi, propri degli erbivori), trattenerla (canini, piccoli e pochi), triturare il cibo (coi premolari e molari). […] L’uomo, dunque, non è adatto a un cibo carneo. È più coerente definirlo un frugivoro-cerealicolo che occasionalmente potrebbe cibarsi di altro, come la carne, senza però fare di essa il cibo fondamentale» (17-19).

Anche dall’ignoranza di questi dati fisiologici e anatomici nascono veri e propri miti alimentari, come quello delle proteine. Una leggenda frutto di fattori sociali e storici e non certo scientifici, che fanno riferimento alla carne come status symbol e non come alimento né sano né necessario. Tanto è vero che se «nel 1968 si è scesi a raccomandarne 1,8 g e nel 1974 1,35 g. Le raccomandazioni attuali oscillano intorno a 1 grammo [per chilo di peso]. […] Le prime credenze sono state sconfessate dalla ricerca più recente, ma il mito popolare delle proteine tarda a morire e l’industria della carne si sta apprestando a battere nuovi record, fino a quando il sistema economico non collasserà» (23-24).
In realtà le proteine sono presenti non soltanto nella carne bensì «in tutte le classi di alimenti, ma in quantità variabile» (131). Assumere tali sostanze dai vegetali invece che dagli altri animali costituisce un’espressione di razionalità anche ambientale, dato che «la produzione di carne è probabilmente il maggior spreco di risorse del pianeta Terra», in quanto «un onnivoro consuma le risorse che basterebbero a cinque vegetariani» e «l’88% delle foreste viene abbattuto in Amazzonia proprio per creare pascoli. Il consumo di acqua è raddoppiato dagli allevamenti e il 65% dell’ossido di azoto immesso in atmosfera deriva dagli allevamenti, così come il 35% del metano. Stiamo parlando di gas che hanno un impatto tra 23 e 297 volte superiore a quello dell’anidride carbonica (CO2) sull’effetto serra» (25).
È dunque chiaro che la razionalità e la scienze stanno dalla parte di un’alimentazione vegetariana. E questo prescindendo dai fattori di crudeltà, di interesse economico e di silenzio mediatico promossi dall’industria alimentare.
È confortante che (dati del 2014) «in Italia i vegetariani costituiscono il 6,5% della popolazione e i vegani lo 0,6%, per un totale del 7,1%, pari a circa 4 milioni e 200 mila persone. […] Più in alto dell’Italia, in Europa, si colloca solo la Germania, con l’8,6% della popolazione, mentre in India i vegetariani sfiorano il 3% e in USA calano al solo 2%» (14). È confortante per la salute e per la razionalità, per l’unità corpomentale che siamo.

In un articolo per girodivite.it di qualche anno fa avevo discusso altre motivazioni -sia generali sia specifiche- che rendono razionale e necessaria l’opzione vegetariana: Essere vegetariani. Le ragioni.

Valori / Sadismo

Valori, violenza, sadismo
in Liberazioni – Rivista di critica antispecista
Anno X / n. 39 / inverno 2019
Pagine 75-82

Indice
-Il sacrificio
-La corporeità
-Caduta e alimentazione

In realtà lo gnostico si chiede perché nel mondo c’è proprio questa necessità biologica del dolore; si chiede, più universalmente, perché il mondo dei viventi è fatto proprio in questo modo, quando potrebbe naturalmente essere pensato e articolato in molte altre maniere (p. 79).

 

Alimentazione e ambiente

Fabbriche di carne: gli allevamenti intensivi in Europa
(byoblu, 8.3.2019, durata 6.40)

Ho poco da aggiungere a questo breve video, chiaro e pacato. Esso mostra con efficacia che la prima forma di rispetto dell’ambiente passa attraverso l’alimentazione. E questo non per motivazioni sentimentali o psicologiche ma per ben più corpose ragioni politiche, economiche, “ecologiche” nel senso strutturale e non da sospiro etico o da semplice fenomeno mediatico.

Segnalo anche una mia sintesi di qualche anno fa -pubblicata su Girodivite.it, 14.2.2008- nella quale ho indicato undici motivi per essere vegetariani, «non solo per gli altri animali» ma anche per l’animale umano: Essere vegetariani: le ragioni

Consiglio infine la lettura di uno dei migliori romanzi contemporanei: Regno animale, di Jean-Baptiste Del Amo.

 

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