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Stile

Lo stile, nella politica come nella vita, dice molto delle persone e dei movimenti.
Lo stile del Partito Democratico e del suo Duce è ben descritto in un editoriale di Alberto Burgio, uscito sul manifesto di oggi. In esso Burgio evidenzia con ottime argomentazioni che cosa siano il «that­che­ri­smo ple­beo» del Partito Democratico e lo «lo squa­dri­smo ver­bale del novello Farinacci» che lo guida, godendo dell’entusiastico sostegno -dentro il Partito- di «un udi­to­rio di faci­no­rosi, di fru­strati, di sma­niosi di vin­cere con qual­siasi mezzo — magari ven­den­dosi e sven­den­dosi nelle aule parlamentari».

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Ne ha dette, ne dice gior­nal­mente tante e tali che non ci si dovrebbe più far caso. Ma una delle ultime esterna­zioni del pre­si­dente del Con­si­glio urta i nervi in modo par­ti­co­lare, sì che si stenta a dimen­ti­car­sene. «I sin­da­cati deb­bono capire che la musica è cam­biata», ha sen­ten­ziato con rara ele­ganza a mar­gine dello «scan­dalo» dell’assemblea dei custodi del Colos­seo. Non sem­bra che la dichia­ra­zione abbia susci­tato reazioni, e que­sto è di per sé molto signi­fi­ca­tivo. Eppure essa appare per diverse ragioni sin­to­ma­tica, oltre che irricevibile.

In effetti la roz­zezza dell’attacco non è una novità. Come non lo è il fatto che il governo opti deci­sa­mente per la parte dato­riale, degra­dando i lavo­ra­tori a fan­nul­loni e i sin­da­cati a gra­vame paras­si­ta­rio che si prov­ve­derà final­mente a ridi­men­sio­nare. È una cifra di que­sto governo un that­che­ri­smo ple­beo che liscia il pelo agli umori più retrivi di cui tra­bocca la società scom­po­sta dalla crisi. Sem­pre dac­capo il «capo del governo» si ripro­pone come ven­di­ca­tore delle buone ragioni, che guarda caso non sono mai quelle di chi lavora. E si rivolge, com­plice la gran­cassa media­tica, a una pla­tea indi­stinta al cui cospetto agi­tare ogni volta il nuovo capro espiatorio.

Sin qui nulla di nuovo dun­que. Nuova è invece, in parte, l’ennesima caduta espres­siva. Un les­sico che si fa sem­pre più greve, pros­simo allo squa­dri­smo ver­bale di un novello Fari­nacci. Così ci si esprime, forse, al Bar Sport quando si è alzato troppo il gomito. Se si guida il governo di una demo­cra­zia costi­tu­zio­nale non ci si dovrebbe lasciare andare al man­ga­nello.
«La musica è cam­biata», «tiro dritto» e «me ne frego». Senza dimen­ti­care i benea­mati «gufi». Quest’uomo fu qual­che mese fa liqui­dato come un cafon­cello dal diret­tore del più palu­dato quo­ti­diano ita­liano. Quest’ultimo dovette poi pron­ta­mente slog­giare dal suo uffi­cio, a dimo­stra­zione che il per­so­nag­gio non è uno sprov­ve­duto. Sin qui gli scon­tri deci­sivi li ha vinti, e non sarebbe super­fluo capire sino in fondo per­ché. Ma la cafo­ne­ria resta tutta. E si accom­pa­gna alla scelta con­sa­pe­vole di sele­zio­nare un udi­to­rio di faci­no­rosi, di fru­strati, di sma­niosi di vin­cere con qual­siasi mezzo — magari ven­den­dosi e sven­den­dosi nelle aule parlamentari.
Secondo un’idea della società che cele­bra gli spi­riti ani­mali e ripu­dia i vin­coli arcaici della giu­sti­zia, dell’equità, della soli­da­rietà.

Di fatto il tono si fa sem­pre più arro­gante, auto­ri­ta­rio, duce­sco. Gli altri deb­bono, lui decide. Ne sa qual­cosa il pre­si­dente del Senato, trat­tato in que­sti giorni come quan­tità tra­scu­ra­bile. E qual­cosa dovrebbe saperne anche il pre­si­dente della Repub­blica, che evi­den­te­mente ha altro a cui pen­sare, visto che non ha fatto una piega — un silen­zio fra­go­roso — quando Renzi ha minac­ciato di chiu­dere il Senato e tra­sfor­marne la sede in un museo — per for­tuna non più in «un bivacco di mani­poli». E forse pro­prio qui sta il punto, ciò che non per­mette di libe­rarsi di que­sto fasti­dioso rumore di fondo.

Que­sta enne­sima vil­la­nia non aggiunge gran­ché a quanto sape­vamo già dell’inquilino di palazzo Chigi, del suo pro­filo, del suo, diciamo, stile. Dice invece qual­cosa di nuovo e d’importante su noi tutti, che ci stiamo assue­fa­cendo, che ci disin­te­res­siamo, che regi­striamo e accet­tiamo come nor­male ammi­ni­stra­zione una vol­ga­rità e una vio­lenza che dovreb­bero destare allarme e forse scan­da­liz­zare. Tanto più che non si tratta, almeno for­mal­mente, del capo di una destra nerboruta.
Nes­suno ha pro­te­stato, nes­suno ha rea­gito: men che meno, ovvia­mente, gli espo­nenti della «sini­stra interna» del Pd […]. Quest’ultima aggres­sione si armo­nizza appieno con la «musica» che que­sto governo suona da quando si è inse­diato. Ma la forma è sostanza, soprat­tutto in poli­tica. E il sovrap­più di aggres­si­vità e di vol­ga­rità che la con­trad­di­stin­gue stu­pi­sce non sia stato nem­meno rilevato.
Evi­den­te­mente ci va bene essere gover­nati da uno che — al netto delle sue scelte, sem­pre a favore di chi ha e può più degli altri — non sa aprir bocca senza minac­ciare insul­tare sfot­tere ridi­co­liz­zare.

[…]
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L’intero articolo si può leggere sul manifesto.

Il governo di un vecchio reazionario

«Son dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smettere di servire, sarebbero liberi. […] È il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca» (Étienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, 1552 ca., trad. di F. Ciaramelli, Chiarelettere 2011, p. 10). Rimane l’enigma del perché gli umani siano così facilmente spinti a rinunciare alla libertà e a sottomettersi anche e soprattutto nei confronti di chi li danneggia.
Una questione politica e antropologica che appare singolarmente grave nella storia d’Italia, un Paese che da Mussolini a Renzi -passando per Andreotti, Craxi, Berlusconi- ha acclamato e sostenuto dei capi di governo spesso buffoni e/o criminali. È quanto si chiede anche Alberto Burgio in questa sua analisi finalmente esplicita, che chiarisce la natura socialmente criminale del governo italiano in carica e di chi lo guida.


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Pubblico impiego, ora sappiamo chi è Renzi
di Alberto Burgio, il manifesto 5.9.2014

Si dice che con­ti­nui la luna di miele tra il governo e il paese. Renzi se ne vanta, con quella vanità gon­fia di vuoto che Musil defi­niva biblica. Fosse vero, si ripro­por­rebbe un clas­sico pro­blema. Sa que­sto popolo giu­di­care? O forse ama essere irriso, deriso, abbin­do­lato? Era meglio per­sino Monti (ci si passi l’iperbole), il nostro can­cel­lier Morte (parola del Finan­cial Times, che ebbe modo di assi­mi­larlo al rigo­ri­sta che spianò la strada a Hitler). In pochi mesi Monti rase al suolo la parte più indi­fesa del paese, ma almeno non vestiva panni altrui. Renzi non fa pra­ti­ca­mente altro che infi­noc­chiare il pros­simo, con quella sua fac­cia di bronzo da bam­bino viziato e prepotente.
Le balle più odiose riguar­dano ovvia­mente la ridu­zione delle tasse (gli 80 euro per i quali si ribloc­cano i salari del pub­blico impiego). Non­ché la difesa di ceti medi e lavoro dipen­dente. In realtà il governo col­pi­sce duro entrambi.
Nei diritti (è vero, l’art. 18 è un sim­bolo: poi c’è la sostanza, come dimo­stra que­sta novità del mana­ger sco­la­stico che arbi­trerà le car­riere dei col­le­ghi a pro­pria discre­zione). Nelle tutele (per­sino l’Ocse segnala che la «riforma» Poletti esa­gera con la pre­ca­rietà). Nei già esan­gui red­diti. Tor­nano i tagli lineari, ver­go­gnosi in sé, e tanto più per­ché val­gono a soste­nere l’indifferenza tra biso­gni essen­ziali (la salute, la for­ma­zione, la vita stessa) e spre­chi veri, a comin­ciare dalla scan­da­losa spesa mili­tare. E torna – per la quinta volta – il blocco degli scatti nelle retri­bu­zioni dei dipen­denti pub­blici. Non una por­che­ria: un vero e pro­prio furto.
Hanno lor signori idea di che signi­fi­chi di que­sti tempi in Ita­lia per milioni di fami­glie, spe­cie al Sud, per­dere mille euro l’anno? Certo, per chi ne gua­da­gna quin­di­ci­mila al mese o più, è una baz­ze­cola. Per molti invece è un dramma, come dimo­stra quel 5% di fami­glie (l’anno scorso era appena l’1%) costrette a inde­bi­tarsi con ban­che e finan­zia­rie per com­prare libri e cor­redo sco­la­stico. Anche di quella che con­ti­nua a chia­marsi scuola dell’obbligo.
Il peg­gio è la moti­va­zione for­nita cini­ca­mente dalla mini­stra Madia. «Non ci sono risorse». Il che può tra­dursi in un solo modo: «Per que­sto governo sono intan­gi­bili ren­dite e patri­moni, pur in larga misura accu­mu­lati con l’illegalità» (leggi: elu­sione ed eva­sione fiscale).
Ora final­mente chie­dia­moci: che razza di governo è mai que­sto? Chie­dia­mo­celo senza guar­dare alle eti­chette, badando alle cose che fa e pro­getta, dalla poli­tica eco­no­mica alle scelte inter­na­zio­nali, dalla con­tro­ri­forma del lavoro a quella della Costituzione.
Chie­dia­mo­celo noi. Ma se lo chie­dano prima di tutti seria­mente sin­da­cati e poli­tici. La Cgil minac­cia mobi­li­ta­zioni in difesa del pub­blico impiego. Vedremo. Parte del Pd mugu­gna e medita di dar bat­ta­glia sull’art. 81 della Costi­tu­zione. Vedremo. Ma all’una e all’altra sug­ge­riamo di guar­darsi final­mente dall’errore che ci ha por­tati a que­sto stato.
Non c’è più tempo per trac­cheg­giare. Ne va della loro resi­dua cre­di­bi­lità, ma soprat­tutto della vita di milioni di persone.

L’Università (s)valutata

3+2, CFU (Crediti Formativi Universitari pari a 25 ore ciascuno), debiti formativi, GEV (Gruppi Esperti Valutazione), VQR (Valutazione della qualità della ricerca). Le parole sono tutto. E quelle che ho indicato sono alcune delle espressioni dominanti nel linguaggio accademico contemporaneo. Una vera e propria neolingua imposta alle università italiane ed europee da una penosa scimmiottatura delle modalità e delle tradizioni degli Stati Uniti d’America. Paese, è bene ricordarlo, dove a pochi e costosissimi centri di eccellenza si contrappongono migliaia di università che valgono assai meno di un buon liceo italiano.
Un linguaggio contabile, bancario, aziendalistico che si pone l’esplicito obiettivo di formare non dei cittadini pensanti ma degli impiegati e dei funzionari del pensiero unico mercantile e capitalistico; una realtà che ha danneggiato prima di tutto gli studenti, costretti ad accumulare “crediti formativi” come fossero punti del supermercato, studenti sempre più trafelati nello studio e dunque inevitabilmente superficiali nella preparazione.
Adesso tocca ai docenti. Entro il 25 di questo mese di marzo 2012, infatti, ciascun professore e ricercatore dovrà indicare da uno a tre fra i lavori pubblicati dal 2004 al 2010, i quali saranno sottoposti ai GEV, dalla cui valutazione dipenderanno i futuri finanziamenti di ogni Ateneo. Fuori dall’Università si sa poco o nulla di tali pratiche; ecco perché ne scrivo anche qui.
Non è forse tutto questo un principio di giustizia e di riconoscimento del merito di chi ha ben studiato, scritto, fatto ricerca? Lo sarebbe, certo, se i criteri fossero trasparenti, rispettosi della specificità delle diverse aree del sapere, miranti a incoraggiare gli studi più rigorosi, innovativi, non conformisti. E invece la realtà è esattamente l’opposto. L’obiettivo è discriminare le Università in relazione all’acquiescenza dei loro membri al potere accademico, politico, editoriale.
Lo si può comprendere leggendo alcuni documenti di diversa fonte, dai quali riporto dei brani invitando a una lettura integrale tramite i link. Ripeto quanto scrissi qualche tempo fa: non è questione di studenti, professori, accademie. È questione del futuro e del presente di un pensiero libero, che non riduca il sapere e la ricerca a servi del sistema economico-politico dominante.

«Che cosa sta succedendo in questi giorni nell’Università italiana? In base alla “riforma” Gelmini (assunta in toto dal governo Monti) si è aperto, nel sacro nome del Merito, il capitolo della Valutazione, pomposamente denominato Vqr (“Valutazione sulla qualità della ricerca”). […]
Aree e linee di studio, in taluni casi intere discipline, saranno discriminate, con gravi limitazioni, di fatto, della libertà e del pluralismo. Non solo. Siccome la Valutazione si muove sulla base di sistemi a numero chiuso (per esempio, si stabilisce in partenza il rapporto percentuale tra le riviste di fascia A e quelle collocate nelle fasce inferiori), si produrrà un esito di frustrazione, non di stimolo: poiché è materialmente (e “politicamente”) impossibile che tutti pubblichino su riviste A, agli altri (spesso esclusi perché estranei al mainstream o per ragioni di non-appartenenza a forti cordate accademiche) si trasmetterà un messaggio molto chiaro: “non vale la pena che vi affatichiate, tanto…”. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di puro autolesionismo, cioè di stupidità: alle università e al governo dovrebbe interessare stimolare l’attività, non già deprimerla. Ma sarebbe – temiamo – un’obiezione ingenua. Come dicevamo, la Valutazione è un’arma; il proposito è (anche) quello di neutralizzare voci scomode (o soltanto periferiche), concentrando risorse e poteri nelle mani di ristrette cerchie di “ricercatori eccellenti”. Da questo punto di vista, svalutare (e scoraggiare) è utile quanto premiare. Tanto più che l’Università pubblica è costosa e deve “dimagrire” – sappiamo a vantaggio di chi. […]
Aggiungiamo qualche osservazione in merito alle conseguenze micidiali (e di dubbia legittimità) che questo sistema genererà a danno della piccola e media editoria. Far valere (di diritto o di fatto: come dicevamo, una caratteristica di tutta questa faccenda è la scarsissima trasparenza proprio in merito ai criteri di giudizio) una graduatoria tra le case editrici significa, in sostanza, impoverire il panorama culturale dell’intero Paese e renderne agevole la colonizzazione da parte di poche imprese private (e dei potentati accademici). […]
In sostanza, alcuni rispettabili imprenditori privati potrebbero presto diventare i Signori della ricerca scientifica italiana, poiché dalle loro insindacabili decisioni dipenderà la sanzione della qualità delle pubblicazioni, con tutte le conseguenze che da ciò discendono. E se a loro la Valutazione conferirà il tocco di Creso (qualsiasi schifezza avranno deciso di pubblicare potrà miracolosamente trasformarsi in una pietra miliare del progresso scientifico), una pietra tombale verrà invece posta sugli “sfigati” editori piccoli e medi, ridotti al rango di diffusori di merce di scarto.
Questi sono, ci pare, alcuni prevedibili – e già, in parte, attuali – effetti perversi della Valutazione. Su di essi (nonché sui gravi conflitti d’interesse inerenti a giudizi formulati da soggetti inclusi nella platea valutata) varrebbe la pena di confrontarsi prima che un sistema varato con il pretesto della meritocrazia sancisca definitivamente l’emarginazione di posizioni eterodosse e lo strapotere di grandi editori e lobbies accademiche».
(Alberto Burgio – Maria Rosaria Marella, Università, la Valutazione sbagliata, il manifesto, 21.3.2012 )

«Contro l’ERIH e la “valutazione dei tecnocrati” che secondo alcuni esso incarna, si assiste in questi giorni al capitolo forse più qualificato della continua, esasperata e taciuta serie di contestazioni che serpeggia da anni in Europa nella ricerca e nella formazione superiore. Dopo l’“onda” italiana e le rivolte sociali in Grecia, di cui l’università è stata ancora una volta epicentro, ecco in Gran Bretagna l’“Independent” del 22 gennaio dedicare una pagina indignata ad accusare i meccanismi bibliometrici del RAE di favorire tra l’altro “miopia intellettuale […], guasta convenzionalità […], e disonestà generalizzata”. Negli stessi giorni l’ERIH è stato costretto a ritirare la sua classificazione delle riviste, dopo che i direttori di 61 riviste internazionali di storia della scienza e di filosofia hanno dichiarato che avrebbero aperto il prossimo numero con un editoriale contenente la richiesta di non indicizzarle: “Non vogliamo avere parte in quest’attività pericolosa e sbagliata” (in “un universo in cui tutto” è destinato a “dar luogo a […] hit-parades”, come si legge nell’editoriale dell’ultimo fascicolo della “Revue philosophique”). Ancora, è di questi giorni in Francia una rivolta profonda –di cui qui non giunge notizia– contro le nuove leggi Sarkozy sull’università, incentrate sulla valutazione. Il “Nouvel Observateur” del 14 febbraio intitola: Une période de glaciation intellectuelle commence»
(Valeria Pinto, Sulla valutazione, dagli Atti di un Convegno svoltosi a Napoli nel 2009)

«Quanto tale immagine sia “realistica” lo si può constatare osservando le liste prodotte per Filosofia teoretica (ricavabili dalle attribuzioni tra parentesi nella lista unificata), che confermano tutte le precedenti riserve espresse dalla SIFIT [Società italiana di filosofia teoretica] sulla possibilità di produrre ranking sensati nei termini imposti alle Società. Si tratta di una selezione ampiamente arbitraria, dove si segnalano presenze incongrue e nella quale, viceversa, non sono neppure presenti riviste che ospitano una ampia percentuale della produzione dei docenti del settore. Il risultato, oggettivo, è l’assenza di rispetto per le pratiche riconosciute in una comunità scientifica. […]
Di fronte a questo stato di cose, la SIFIT non riconosce validità, anche solo orientativa, a quanto indicato nel documento GEV e respinge come una grave distorsione l’uso degli strumenti proposti, del tutto inidonei a favorire una valutazione fondata».
(Comunicato della SIFIT sui “Criteri” del GEV area 11, 29.2.2012)

Le armi e i sacrifici

Finalmente anche parte della grande stampa si occupa del vero, immenso scandalo che colpisce economia e società. E che consiste in questo: si chiedono sacrifici ai cittadini, soprattutto a quanti non possono evadere le tasse perché dipendenti pubblici o privati, e si stanziano enormi somme di pubblico denaro per continuare ad acquistare delle armi. Ne parla Il Fatto quotidiano a proposito di ulteriori spese sulle quali il Parlamento è chiamato in questi giorni a pronunciarsi. Si dice, tra l’altro, che «sono soldi che l’Italia spenderà entro fine anno in armamenti e che si potrebbero destinare ad altro subito, oggi stesso. […] Si torna a parlare di manovre “lacrime e sangue”  per recuperare 30 miliardi in due anni. Ma il settore delle spese militari è cresciuto nel 2010 dell’8,4%, con una spesa addizionale di 3,4 miliardi di euro. Il conto generale sale a quota 20.556,9 milioni di euro, corrispondente all’1,283% del Pil e che colloca l’Italia all’ottavo posto al mondo per spese militari. […] Manna dal cielo per chi produce mezzi di questo tipo, cioè tutta la grande industria italiana che va a braccetto con la politica per ottenere commesse sicure in un business sussidiato con soldi pubblici per centinaia di milioni. […] Buona parte delle commesse sono proprio per quella Finmeccanica Spa finita nella bufera per tangenti, finanziamenti illeciti ai partiti e commesse “politiche”». L’articolo ricorda anche l’appello di Alex Zanotelli, che invito di nuovo a sottoscrivere.

Quindi gli amministratori della cosa pubblica mentono, mentono spudoratamente: i soldi ci sono. È che li si vuole utilizzare per la guerra e non per la pace, non per la salute, non per la ricerca, non per la scuola, non per la sicurezza ambientale. Ma per uccidere, ancora. Un dossier apparso sul numero di novembre 2011 di Alfabeta2 è dedicato alla guerra. Tra gli articoli, ne segnalo uno del tutto condivisibile di Alberto Burgio, il quale analizza con lucidità una gravissima trasformazione intervenuta nella società civile: «Grazie all’imponente apparato ideologico e mediatico mobilitato per giustificare le nuove guerre, la guerra ha finito col riconquistarsi un posto al sole nel nostro immaginario. Chi l’avrebbe detto anche solo vent’anni fa? Nei decenni della Guerra fredda la memoria della Seconda guerra mondiale faceva sì che la guerra rappresentasse, agli occhi dei popoli, un male assoluto. La speranza era che grandi conflitti bellici non si verificassero più. La corsa agli armamenti delle due grandi potenze appariva una follia dettata dall’incapacità di trovare terreni altrettanto efficaci su cui misurare le rispettive forze. E le guerre regionali, soprattutto nel Sud-Est asiatico, erano guardate con autentico orrore, considerate intollerabili insulti alla conclamata volontà di pace dell’umanità. […] Oggi, nel grosso della popolazione, prevale il cinico e rassegnato realismo di chi volentieri si risparmia battaglie perse in partenza. La guerra è tornata al centro dello scenario politico, si è normalizzata: perché denunciarne ancora lo scandalo? A chi interessa oggi la causa pacifista? Risulta molto più comodo fingere di credere alle retoriche istituzionali sui diritti umani e l’esportazione della democrazia. […] La caduta della memoria pubblica degli orrori della guerra è un fatto di enorme portata, e stupisce che non se ne parli mai. Stupisce e sgomenta».
Il precedente governo italiano era composto da idioti e da criminali. Che cosa ha da dire e da decidere, invece, su queste assurde spese il nuovo esecutivo? Che cosa le forze politiche che lo sostengono?

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