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Ministero della Verità

In una mattina di aprile dell’anno che forse è il 1984, Winston Smith torna a casa e comincia a scrivere i propri pensieri in un quaderno che ha da poco acquistato. Questa è la sua colpa, lo psicoreato che aveva già cominciato a commettere e che adesso è dimostrato dalla sua stessa scrittura. Winston Smith vive, infatti, in Oceania, uno dei tre stati sovracontinentali nati dalla guerra atomica degli anni ’50. Winston lavora presso il Ministero della Verità, il cui compito è la falsificazione sistematica e la creazione di documenti che modifichino il passato. Infatti, «chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato» (Orwell, 1984, Mondadori 1998, p.  260).
Lo psicoreato esiste negli anni Dieci del XXI secolo e si chiama politically correct. Esso è l’impossibilità di criticare dogmi etico-politici più o meno sensati, pena conseguenze anche sulle carriere. Esso è la disinformazione della quale parla il § XVI dei Commentari alla Società dello Spettacolo di Debord: una mescolanza di vero e di falso sempre funzionale agli interessi di chi governa. Non dimentichiamo, infatti, «che i grandi media che oggi si vantano di ‘decodificare’ le fake news degli altri, sono sempre stati i primi a rilanciare le menzogne di Stato, dalle ‘armi di distruzione di massa’ di Saddam Hussein al presunto ‘carnaio’ di Timisoara» (De Benoist, Diorama Letterario 340, p. 11).
Il politicamente corretto è l’altro nome dell’ideologicamente conforme, il quale diventa esplicita e ignorante censura in iniziative come quelle che hanno impedito lo svolgimento nello scorso febbraio di un dibattito su destra e sinistra promosso dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano con la partecipazione, tra gli altri, di Alain de Benoist. Attribuendo a questo filosofo tesi da lui mai sostenute, alcuni intellettuali (?) e giornalisti italiani hanno ottenuto la provvisoria cancellazione dell’iniziativa. «Affermano di voler difendere la democrazia e ne smantellano le fondamenta» (Tarchi, DL, p. 3). Costoro utilizzano anche «l’ingenuità, la rozzezza e la stupidità politica degli sparuti apologeti di dittature passate che non hanno conosciuto per rafforzare le premesse della dittatura del futuro, che si sforzano di trapiantare nel presente a suon di divieti, discriminazioni e punizioni» (Ibidem). La stupidità è per definizione stupida. Il risultato di quella improvvida richiesta di censura è stata infatti la sala strapiena della Fondazione Feltrinelli quando il dibattito si è poi svolto, lo scorso 6 aprile 2018.
Durante la recente campagna elettorale italiana, gruppi di miserabili e ininfluenti nostalgici come CasaPound e Forza Nuova sono stati gli alleati di una sinistra perduta che si sente viva quando agita «uno spauracchio che si pensa possa farle riguadagnare consenso e sostegni fra un certo numero di simpatizzanti e militanti ormai caduti in preda alla delusione» (Tarchi, DL, p. 19).
Contro il vero fascismo contemporaneo, che è l’ultraliberismo il quale moltiplica le guerre, strangola le economie  e cancella i diritti sociali, non si attua una mobilitazione neppure lontanamente paragonabile alle manifestazioni che hanno regalato per qualche giorno audience e dignità politica agli esigui nostalgici di Mussolini. E invece è contro gli Stati Uniti d’America che bisognerebbe mobilitarsi senza tregua, contro un sistema che -secondo l’analisi del giornalista francese di TF1 Michel Floquet- è inguaribilmente razzista, ferocemente diseguale, fanaticamente bellicista, mortalmente inquinante. Una nazione che è «la più grande prigione al mondo. In America, un adulto su cento si trova in carcere. E un prigioniero su quattro, nel mondo, è americano» (Virgilio, DL, p. 27); secondo Floquet «la democrazia e la libertà delle quali godrebbero tutti i cittadini statunitensi senza distinzione di razza, di sesso, di religione, non sono altro che una finzione, ‘un meraviglioso esempio di doppiezza e di ipocrisia’» (Id. DL, p. 26), come conferma una documentata e dolente analisi di Santo Barezini sul numero 422 di A Rivista anarchica: «Schiavi del XXI secolo».
Rispetto all’uniformismo dei padroni del mondo, sarebbe opportuno applicare la difesa della biodiversità anche alla «diversità dei popoli, nonché a quella delle lingue e delle culture che sono ad esse associate» (De Benoist, DL, p. 5; sulla questione linguistica si vedano anche i testi miei e di Dario Generali: Parola) cercando almeno di rallentare la distruzione della Terra e delle sue fonti di vita, attuata da una forma politico-economica del tutto indifferente alle leggi della natura e alla limitatezza delle risorse. Questo infatti «dimostra il secondo principio della termodinamica e la legge dell’entropia nell’assoluta indifferenza da parte di sociologi, economisti e scienziati della politica, nonostante la messa in guardia fornita dalla teoria della complessità di Edgar Morin e dalle acquisizioni di Ilya Prigogine sulle ‘strutture dissipative’» (Zarelli, DL, p. 22).
Come dimostra Orwell, il Ministero della Verità è anche sede della menzogna più profonda.

Imperialismo e ultraliberismo

Per quello che possono valere le cronologie, bisogna pur dire che il 2016 è stato un anno sorprendente: «Prima la Brexit, poi l’elezione di Trump, il testa a testa delle presidenziali austriache, l’uscita di scena pressoché in contemporanea di Sarkozy e Hollande, il rotondo risultato del referendum costituzionale italiano con la sconfitta del campione della Commissione europea, delle redazioni giornalistiche e degli ambienti economico-finanziari, e alla fine persino il rovescio delle ‘rivoluzioni arabe’ con la riconquista di Aleppo ad opera delle truppe lealiste del governo di Assad» (M.Tarchi in Diorama letterario 334, p. 1).
Eventi che mostrano ancora una volta la necessità di elaborare categorie politiche e metapolitiche diverse rispetto all’obsoleto schema destra/sinistra nato con la Rivoluzione Francese e ormai inadeguato a comprendere un mondo profondamente diverso rispetto a quello che si è chiuso nel 1989.
Il concetto di populismo, ad esempio, è utilizzato dai media e dai politici in un modo troppo generico, polemicamente connotato e parziale. Più esatta è la definizione scientifica che ne dà Tarchi nel suo Italia populista: «La mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione» (Il Mulino, 2015, p. 77).
Due dei protagonisti dello scorso anno sono stati Trump e Hollande. Il primo è in entrata, l’altro in uscita. Due personaggi emblematici, la cui azione politica passata e futura è stata e sarà analizzata nella sua varietà e complessità. Intanto, si può subito dire che per Trump « ‘America first’ vuol dire anche: l’Europa ben lontana dietro di noi! Dopo decenni di interventismo a trecentosessanta gradi e di imperialismo neocon, il ritorno ad un certo isolazionismo sarebbe una buona cosa, che può però avere il suo risvolto. Non dimentichiamo che nessun governo americano, interventista o isolazionista, è mai stato filo-europeo!» (A.de Benoist, p. 6).
Per quanto riguarda Hollande, Eduardo Zarelli si sofferma sul significato della decisione del presidente francese di far sfilare, lo scorso 14 luglio, delle truppe del Mali sugli Champs Elysées. La motivazione più importante di questo evento sta nel fatto che «il Mali è il terzo paese al mondo per i giacimenti auriferi e conta anche giacimenti di petrolio, di gas e soprattutto di uranio. In un periodo di crisi mondiale epocale, il governo francese voleva assicurarsi riserve significative di materie prime, in modo da riuscire ad alimentare le sue 60 centrali nucleari totalmente dipendenti dall’uranio africano, e nel contempo rimpinguare le riserve auree di Stato» (p. 15). Come si vede, si tratta di una politica classicamente imperialista, «che risponde alla strategia geopolitica di mantenere l’intero continente sotto il controllo militare e gli interessi economici delle grandi democrazie, che tornano in Africa, dopo le tragedie ottocentesche e novecentesche, con il casco coloniale dipinto con i colori dell’arcobaleno della pace. […] L’universalismo ugualitario prolunga una tendenza secolare che, nelle forme più diverse e in nome degli imperativi più contraddittori (propagazione della vera fede, superiorità della razza bianca, esportazione mondiale dei miti del progresso e dello sviluppo) non ha mai cessato di praticare la conversione, cercando di ridurre ovunque la diversità e ricondurre l’altro al medesimo riferimento: la modernità occidentale» (p. 16).
Più in generale, si tratta degli effetti di ciò che Paolo Borgognone definisce il «radicalismo liberale» sostenuto da «una sinistra mondialista, officiante l’ideologia dei diritti umani e la dittatura del ‘politicamente corretto’, tanto votata unilateralmente ai diritti civili quanto dimentica di quelli sociali; così ‘tollerante’ e libertaria da sostenere l’irreversibile uniformità dell’occidentalizzazione del mondo a colpi di ‘bombardamenti etici’ e ‘guerre umanitarie’ in ogni dove, perfetta interprete del conformismo dei nostri tempi, di quelle ‘passioni tristi’ snob e radical chic che ben vestono la misoginia morale del perbenismo. Il progressismo non solo è perfettamente calzante con il sistema liberal-capitalista, ma è anche la forza politico-culturale più adatta alla gestione delle dinamiche di una modernità che, vocandosi apolide, diventa globale e senza frontiere» (così Zarelli recensendo di Borgognone L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale, Zambon, Frankfurt am Main/Jesolo 2016, pp. 33-34).
In tutto questo è fondamentale strumento l’informazione, che anche nelle ‘democrazie avanzate’ è asservita ai grandi gruppi finanziari ed economici, i quali orientano soprattutto le emozioni, dando enfasi a immagini, dichiarazioni, eventi in relazione non al loro contenuto ma al mettere in buona o cattiva luce determinati soggetti. Un esempio evidente di tali dinamiche sta nella dichiarazione che il Segretario di stato del secondo mandato Clinton -Madeleine Albright- fece alla Cbs a proposito del mezzo milione di bambini morti durante la guerra in Iraq. La signora rispose in questo modo: «So benissimo che si è trattato di una scelta difficilissima, ma noi siamo convinti che sia stata una scelta perfettamente legittima». Zarelli si chiede opportunamente «che cosa accadrebbe nel mainstream mondiale se una tale risposta venisse data dal presidente della Federazione russa Vladimir Putin, dal presidente cinese Xi o da quello della Repubblica islamica dell’Iran, Hassan Rouhani. Non verrebbero immediatamente additati come satrapi sanguinari?» (p. 35).
Un comunista che si oppone alla svendita culturale della sua ideologia è il filosofo Slavoj Žižek, il quale in La nuova lotta di classe  (Ponte alle Grazie, 2016) sostiene la necessità che la sinistra antagonista si renda conto delle molte trappole culturali e politiche che l’ultraliberismo dissemina nei confronti proprio di chi si batte per un diverso sistema di vita individuale e collettiva. Tra queste, Žižek annovera il ‘buonismo’ che la trasforma in una «innocua sinistra del capitale, in inoffensiva sinistra borghese perfettamente funzionale alla riproduzione dei meccanismi del capitalismo globale che in teoria dice di voler combattere» (ricordato da G. Giaccio a p. 28). Sono tesi molto simili a quelle di Cornelius Castoriadis, Jean-Claude Michéa, Michel Onfray.
Esiste dunque una sinistra capace ancora di pensare e non soltanto di commuoversi.

Come europei

Le reazioni al referendum britannico che ha sancito l’uscita dall’Unione Europea sono state davvero disvelatrici della struttura ormai radicalmente oligarchica della politica occidentale. Per i ceti dirigenti -vale a dire per i decisori politici- e per chi gode degli enormi vantaggi economici e simbolici della globalizzazione, la democrazia si riduce a «un sistema in cui al popolo è concessa soltanto la libertà, condizionata, di approvare le linee di condotta decise ‘da chi sta in alto’» (M. Tarchi in Diorama Letterario 332, p. 3). Decisori politici che sono privi, tra le tante altre cose, di una delle condizioni necessarie a far politica: imparare dagli eventi. E invece, «terrorizzati come dei conigli investiti dalla luce dei fari, i dirigenti dell’Unione europea si leccano le ferite ma rifiutano di mettersi in discussione: l’unica lezione che trarranno da questo voto è che bisogna decisamente far di tutto per impedire ai popoli di esprimersi» (A. de Benoist, 6). Quello che sta accadendo e che accadrà sempre più è che «dappertutto, i popoli si rivoltano contro un’oligarchia transnazionale che non sopportano più» (Ibidem). L’arma più potente per tenere sotto controllo questa rivolta è naturalmente l’informazione. I commenti e le analisi successive al Brexit sono davvero esemplari di tale intenzione. Tarchi così le riassume:

Le hanno tentate davvero tutte, per frenare il processo di separazione fra Regno Unito e Unione europea. Mesi di assillante campagna psicologica interna e internazionale incentrata sulla visione apocalittica dei disastri che si sarebbero abbattuti su un intero continente in caso di abbandono delle istituzioni di Bruxelles (e poi si ha il coraggio di sostenere che a puntare sul ‘voto di pancia’ e sulla paura del futuro sono soltanto i movimenti populisti…). Discesa in campo del grande fratello d’Oltreoceano, pronto a rincarare la dose. Manovre pilotate dei ‘mercati’ -ovvero, come nessuno ha ormai il coraggio di negare, dei grandi speculatori che fanno indisturbati il bello e il cattivo tempo delle Borse, piegando ai propri voleri le classi politiche dell’intero pianeta. […] Senza timore di cadere nel ridicolo, insigni studiosi hanno perfino proposto, se non di privarli [i cittadini più anziani] totalmente del diritto di voto, quantomeno di decurtargliene una considerevole quota. […] Su queste elucubrazioni, e soprattutto sul loro sottofondo psicologico, ci sarebbe molto da dire. […] Sarebbe però, in questa sede, un esercizio ozioso, dal momento che a neanche tre settimane dal voto britannico un documentato articolo del ‘Guardian’, che scarsa eco ha trovato fuori dai confini nazionali, ha smentito in pieno la leggenda dei vecchi cattivi (pp. 1-2).

L’unica potenza rimasta a dominare il mondo induce a questo tipo di comportamenti. L’altra, sconfitta nella Guerra fredda, rimane per molti europei un enigma, sul quale cerca di fare un po’ di luce il libro di Paolo Borgognone Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell’Ucraina postsovietica (Zambon, 2015). Ne riferisce Archimede Callaioli, mostrando come nel decennio di ultraliberismo seguito al 1991 «la Russia esce dalla condizione di diffusa povertà in cui aveva trascorso gli ultimi decenni (e non solo) della sua storia sovietica, per conoscere la vera e autentica miseria, mentre meno dell’1% della sua popolazione può avere accesso al paradiso del consumismo occidentale» (25). Per quanto riguarda le decisive questioni geostrategiche, Callaioli osserva che ci siamo abituati a ritenere «normale che nessun paese ritenga di poter influenzare quello che accade in un altro, tranne uno, e che non ci risulta che la Russia, la Cina, il Venezuela, l’Iran, Cuba, il Vietnam, e tutti gli altri Stati del Medio Oriente, dell’Africa e dell’America Latina abbiano mai tentato di influenzare la politica degli Stati Uniti, mentre il contrario è sempre avvenuto» (Ibidem).
Rispetto a tale pervasivo e gravissimo monopolio interventista degli Stati Uniti d’America, dovremmo come europei essere più rispettosi nei confronti della Russia, una nazione difficile certo da comprendere ma che «non ha mai approfittato delle sue vittorie militari (e ne ha avute parecchie, nel corso della storia, da Ivan il Terribile in poi) per sottometterci a sé. Nel confronto e nello scontro, ci ha sempre rispettato, ha sempre rispettato la diversità che ci distingueva, cosa che vorremmo molto poter dire di altre nazioni» (28).
Dalle vicende storiche e culturali dovremmo come europei imparare a riconoscere da dove vengono i reali pericoli per le nostre economie e per la nostra cultura. Vengono da Ovest.

Sul disordine costituito

Che cosa vuole il potere? Quali sono gli strumenti e insieme gli obiettivi di chi comanda? L’elenco potrebbe essere lungo ma esso dovrebbe in ogni caso comprendere la rassegnazione, il silenzio, l’adesione al pensiero dominante. Sono esattamente questi gli elementi del potere contemporaneo. Il quale però, a differenza di altre epoche, è assai più sottile e anzi tende a presentarsi come il garante e lo spazio delle libertà, dei ‘diritti’.  E quindi bisogna affinare gli strumenti culturali e teoretici –metapolitici– mediante i quali resistere all’omologazione, poiché «rassegnarsi è un delitto commesso contro la nostra stessa coscienza di uomini liberi di assegnarsi un destino» (M. Tarchi, Diorama letterario, n. 330, p. 3).

Il postulato è che non bisogna avere «il benché minimo rispetto per l’ordine costituito, che il più delle volte è solo un disordine costituito» (A. de Benoist, 3). Disordine che si mostra in una varietà di espressioni e forme:

– la globalizzazione economica e i conseguenti esodi di intere popolazioni, il cui risultato consiste nel fatto che «i ‘disperati’ accettati in nome del dovere di accoglienza, della solidarietà e della incapacità politica di attuarne il rimpatrio finiranno con il vivere in larga misura di sussidi statali pagati con le imposte dei cittadini già residenti e, in larga misura, alimenteranno una vera e propria armata di riserva del Capitale addetta al lavoro e al contenimento dei salari» (Tarchi, 2);

– la pervasività dei Social Network e dei loro scopi di controllo e di profitto, profitto esteso anche allo sfruttamento delle relazioni sociali, le quali «sono state trasferite su piattaforme elettroniche che ne annientano le qualità nello stesso momento in cui le rendono quantificabili e monetizzabili» (M. Virgilio, 35);

– l’emergere di personaggi inaffidabili e francamente stolti, ai quali vengono affidati interi Stati e arsenali, come Donald Trump -«un miliardario paranoico incrociato con un potenziale dottor Stranamore», che «di fatto, non conosce assolutamente niente delle questioni internazionali e non ha la benché minima idea di cosa sia la politica»- e la sua rivale, «l’istericissima strega neo-conservatrice Hillary Clinton. […] È certo che, a confronto con lo spaventapasseri spennato e con la bambola Barbie che ha superato la data di scadenza, Bernie Sanders perlomeno fa la figura di un umano» (de Benoist, 4-5);

– la progressiva eliminazione o ridimensionamento della libera corporeità, delle sue strutture e ritmi naturali  e innati, a favore di una culturalizzazione ed economicizzazione totale dei corpi. Un esempio è quello presentato da Jonathan Crary nel suo 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (Einaudi, 2015). Il dormire è infatti ritenuto un’attività assolutamente ‘improduttiva’ e come tale da ridurre quanto più possibile. «Un fatto, questo, del quale il capitale è stato cosciente sin da quando ha deciso di operare come se il tempo non esistesse, e che lo ha costretto ad impegnarsi a fondo nella costruzione di un soggetto umano in grado di adeguarsi completamente ad ‘un sistema in cui le operazioni produttive non si fermano mai’, ad ‘un lavoro che, per diventare più redditizio, funziona appunto 24/7. […] Altre necessità primarie della vita umana come la fame, la sete, il sesso, sono state mercificate, il sonno, no. Grazie alla sua natura, esso resta libero dal giogo del profitto. Dal sonno il capitale non può estrarre nulla che si possa considerare di valore. Per questo gli ha dichiarato guerra, erodendo a poco a poco il tempo che gli può essere dedicato» (M. Virgilio, 35-36).

– l’estensione del pensiero unico sin nei gangli della coscienza individuale e dei corpi collettivi. È questo lo strumento più potente e più pericoloso, in quanto «per la specie umana, i nudi fatti sono in sé sprovvisti di senso. L’uomo è un animale ermeneutico, che cioè ha bisogno di interpretare i fatti in funzione di una griglia che possa conferir loro un senso» (de Benoist, 5), l’uomo è un dispositivo semantico.

La cultura, le letteratura, l’arte, la filosofia costituiscono gli antidoti più forti a questa regressione dei Corpi sociali verso la servitù volontaria. Alcuni miti mantengono la loro carica sovversiva ed emancipatrice a distanza di secoli e millenni. Uno di questi è Don Giovanni, letto da Roberto Escobar in una interessante chiave temporale. L’attitudine di Don Juan lascia infatti «intravedere una concezione del tempo vissuto nella umana libertà effimera dell’esserci, in cui si colgono addirittura echi heideggeriani ante litteram. Così è il Convitato di Pietra a dover lamentare ‘più tempo non ho’, riconoscendo indirettamente che non ne ha mai avuto, avendo barattato questo e la sua libertà con quella che a Don Giovanni appare come l’ingannevole promessa dell’eternità» (G. Del Ninno, 37). Don Giovanni non è soltanto un seduttore, un libertino, un amorale. È una figura della resistenza al Grande Altro. Invece che darne una lettura banalizzante, bisogna «piuttosto, cedere all’invidia e all’ammirazione» (Id., 38).

Opporre dunque al mito dell’autorità il mito altrettanto potente della libertà. E allora si può condividere la fiducia, nonostante tutto, di de Benoist sui limiti del potere contemporaneo: «La classe dominante vive al di fuori del terreno, in un universo fittizio di cui ha fatto un prolungamento di se stessa. Nega la realtà per non ‘fare il gioco’ di coloro che vogliono tenere gli occhi aperti. Tutto questo è in pura perdita. La banchisa ha iniziato a fondere e le dighe ad incrinarsi. Nessuno ci crede più» (10).

Gender Theory

Negli studi accademici e nei mezzi di comunicazione di massa si va imponendo la Gender Theory, vale a dire l’idea di «sostituire a categorie come il sesso o le differenze sessuali, che rimandano alla biologia, il concetto di genere che, viceversa, dimostra che le differenze tra gli uomini e le donne non sono fondate sulla natura, ma sono storicamente costruire e socialmente riprodotte». Queste parole si trovano in una dichiarazione della deputata socialista francese Julie Sommaruga (cit. da A. de Benoist, in Diorama letterario 329, p. 1).
Si tratta di una posizione che va ben oltre qualunque forma di platonismo e di storicismo. È infatti una teoria che attribuisce uno degli elementi fondamentali dell’identità umana e animale -la differenza tra i sessi- al semplice effetto di opzioni culturali, di costume, di credenze ideologiche, filosofiche, religiose. Una teoria che dissolve esplicitamente la differenza a favore dell’identità. Caroline de Haas sostiene infatti che «noi non neghiamo le differenze tra gli esseri, ma diventiamo indifferenti alle differenze: così faremo un grande passo in avanti verso l’eguaglianza» (Id., p. 2). Monique Wittig va oltre e afferma che «per noi, non ci possono più essere né donne né uomini. […] In quanto categorie di pensiero e di linguaggio, essi devono scomparire politicamente, economicamente, ideologicamente» (Id., p. 3).
L’antimaterialismo culturalista nasce da una radicale ostilità verso la struttura biologica dei corpi umani e animali, «in particolare verso il corpo sessuato. Il corpo smette di essere il dato iniziale attraverso il quale noi apparteniamo alla specie. L’appartenenza alla specie è staccata in maniera metafisica da qualunque ‘incarnazione’: preesiste al sesso» (Ibidem). Le obiezioni mosse da Alain de Benoist a tali posizioni mi sembrano del tutto condivisibili. Ne riporto qui alcune.
«L’ideologia del genere poggia su due fondamentali errori. Il primo consiste nel credere che il sesso biologico non abbia alcun rapporto con l’identità sessuale né con la personalità, e che il genere si costruisca senza alcun’altra relazione con il sesso al di fuori delle ‘convenzioni’ alimentate dalla cultura, dall’educazione  o dall’ambiente sociale. Il secondo consiste nel confondere sistematicamente il genere, nel senso esatto del termine, le preferenze o gli orientamenti sessuali ed infine il ‘sesso psicologico’ o ‘bisessualità psichica’, cioè il grado di mascolinità o di femminilità presente in ciascuno di noi» (Ibidem).
È del tutto evidente che «ci sono solo due sessi, ma esiste una pluralità di pratiche, di orientamenti o di preferenze sessuali. […] Quel che il sesso biologico non determina non è il ‘genere’, ma la preferenza sessuale. La molteplicità delle preferenze sessuali non fa scomparire i sessi biologici, e neppure ne aumenta il numero. L’orientamento sessuale, quale che sia, non rimette in discussione il corpo sessuato» (Id., pp. 3-4). Il sesso biologico determina quindi sin dall’inizio l’essere femmine/donne o maschi/uomini, senza che questo vincoli poi le preferenze sessuali. Da maschio/uomo posso accoppiarmi con un altro maschio/uomo senza però diventare una femmina/donna. Ho esercitato la mia giusta libertà erotica ma non ho potuto negare la mia struttura biologica.
Pensare il sesso, comprenderlo, gestirlo, non è dunque possibile al di fuori di una prospettiva che sia insieme biologica e culturale. «La credenza secondo cui non si nasce donna o uomo è una manifesta controverità. Il sesso (xx o xy) si decide in realtà sin dalla fecondazione dell’ovocito da parte dello spermatozoo, cioè prima ancora della comparsa morfologica degli organi genitali. […] La differenza dei sessi appare quindi marcata ben prima della nascita. E il ruolo degli ormoni sessuali prosegue durante tutta la vita. L’umanità unisex, di conseguenza, è un non senso per definizione. Si appartiene alla specie umana solamente in quanto uomo e donna, e questa differenza è acquisita sin dai primi istanti della vita» (Id., p. 4).
Negare quest’ultima evidenza è una forma di ultraplatonismo che Platone sarebbe il primo a rifiutare. Si tratta di un’espressione estrema del dualismo metafisico, un dualismo scatenato e sbagliato. Coerentemente, i suoi sostenitori dovrebbero chiedere di modificare alla radice, ad esempio, la legislazione sportiva, che continua a separare le squadre maschili dalle squadre femminili; dovrebbero proporre che in una squadra di calcio, basket, pallavolo, i membri siano indifferentemente maschi o femmine, proprio perché non si sarebbe per natura né l’uno né l’altro. O correre insieme -maschi e femmine- i cento metri piani.
La mia critica (che qui ho solo accennato) dei presupposti, delle tesi e delle conseguenze implicite della Gender Theory si fonda su una prospettiva materialista. Infatti «Leib bin ich ganz und gar, und Nichts ausserdem [corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro]» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, parte I, «Dei dispregiatori del corpo»)

American Way

Gramsci ha ragione: i popoli e gli stati si conquistano soprattutto con l’elemento in parte immateriale costituito dalle idee, dalle parole, dalle culture. L’american way of life è stato imposto all’Europa non con le armi vittoriose della Seconda Guerra Mondiale ma con gli strumenti dello spettacolo: fumetti, oggetti d’uso quotidiano, cinema, televisione. Lo stile di molti film hollywoodiani è fatto di una «frenesia visuale [che] ha il vantaggio di inibire ogni difesa immunitaria, in questo caso ogni forma di spirito critico, cosicché il messaggio ideologico viene distillato in modo subliminale, il che ne facilita l’interiorizzazione» (de Benoist in Diorama letterario 329, p. 11). Allo stesso modo, molti Social Network costituiscono un pensiero della trasparenza fatto di «uno scatenamento narcisistico che va sempre più verso il denudamento. Il gusto per la confessione intima, la tele-realtà, l’architettura di vetro, la moda degli abiti leggeri, l’instaurazione dell’ ‘open space’ nelle imprese vanno nella medesima direzione. Voyeurismo e esibizionismo si alimentano reciprocamente mentre i poteri pubblici registrano i dati. C’è in ciò qualcosa di osceno, nel senso proprio del termine. Quando non si nasconde niente, c’è pornografia. L’esibizione di sé, così come l’ingiunzione a non ‘celare’ mai niente, è una forma di pornografia. […] Così come il segreto è uno degli attributi della libertà, l’opacità è la condizione stessa della vita privata. […] La tirannia della trasparenza si avvicina allora alla polizia del pensiero» (Id., p. 17). Ben al di là delle sue forme e apparenze amicali e coniuganti, tutto questo esprime l’estensione del dominio liberista della lotta «a tutte le età della vita e a tutte le classi sociali» (Zavaglia, ivi, p. 31) poiché consiste in un lavoro gratuito a favore delle grandi aziende informatiche, lavoro del quale i suoi workers non sono neppure consapevoli.
Stadio contemporaneo della guerra di tutti contro tutti, l’economia digitale è una delle strutture dominanti del capitalismo globalizzato, a proposito del quale vale sempre più la questione «della progressiva sconnessione tra il sistema capitalista e la vita umana» (de Benoist, 14). La globalizzazione ha distrutto il progetto europeo, facendolo diventare una struttura soltanto mercantile e ‘umanitaria’, umanitaria in quanto mercantile. Dato che «la creazione dello spazio Schengen presupponeva che l’Unione europea assicurasse il controllo delle proprie frontiere esterne» e questo non è accaduto -sia per la forza dell’impatto dei flussi migratori sia per l’interesse del capitale ad avere un esercito industriale di riserva-, il risultato attuale è che «lungi da proteggere gli europei dalla globalizzazione, l’Unione europea è così diventata uno dei suoi principali vettori» (Id., 12), generando le spinte populiste alla difesa dell’identità europea. La necessaria opposizione al TTIP –Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti– costituisce il vero criterio di demarcazione attuale tra quanti operano per un sistema equo di distribuzione della ricchezza e quanti optano per gli interessi delle classi dirigenti ultraliberiste.
Epifenomeno di tutto questo è la dissoluzione della sinistra italiana nel Partito della Nazione il quale, anche se non esiste ancora come sigla, di fatto governa nelle opzioni politiche ed economiche dell’attuale esecutivo. Probabilmente non sarà neppure necessario «cambiare nome a un partito che, nelle sue strutture di comando a vari livelli [Renzi] ha forgiato a propria immagine e somiglianza: senza un’identità, disancorato dalla sinistra ma ancora in grado di contare sia a livello parlamentare che fra gli elettori su una cospicua pattuglia di ‘fedeli alla sigla’ -essendo la ‘linea’ perduta da un pezzo- che, pur tra infiniti tormenti, mai e poi mai rovescerebbero la barca che continua a trasportare i loro sogni di gioventù» (Tarchi, ivi, p. 20).

Metapolitica

Ciò che possiamo fare adesso, subito, nei confronti dell’oppressione sociale e del conformismo culturale è capire, è opporre alla forza degli apparati politici la lucidità della metapolitica, dell’andare alla radice degli eventi per comprenderne e disvelarne la natura. Perché il dominio -Weber e Gramsci lo sapevano bene- si esercita soprattutto sulle menti, sulle convinzioni, sui paradigmi, sui modelli culturali. È «sul piano della conquista delle mentalità, e della loro omologazione allo spirito del tempo esistente, che si svolgono essenzialmente le partite che incidono sui destini del nostro mondo» (M.Tarchi in Diorama Letterario, n. 328, p. 2).
La propaganda pervasiva, ossessiva, costante e continua, fa sì che vengano accolte come ovvie e giuste decisioni, eventi e situazioni caratterizzate da palese ingiustizia e persino da brutalità. Solo qualche esempio, tra i tanti possibili:

  • la ‘comprensione’ verso la complicità della Turchia, paese membro della Nato, con i tagliagole dell’Isis, in funzione antisiriana e soprattutto anticurda, «la Turchia gioca, infatti, un gioco irresponsabile. Tutto quello che le interessa è nuocere a Bashar el-Assad ed impedire la nascita di uno stato curdo indipendente. Aiuta direttamente o indirettamente l’Isis e lo finanzia acquistandogli il petrolio» (A. de Benoist, 8);
  • il sorvolare sulla diretta responsabilità delle guerre statunitensi nella nascita dell’Isis, testimoniata dal fatto che i principali dirigenti di quella formazione politico-militare «non sono degli islamisti ma nella maggior parte dei casi, ex ufficiali dell’esercito di Saddam Hussein» (Ibidem);
  • il nascondimento del fatto che dopo la fine dell’URSS l’esistenza e l’ampliamento della Nato siano dettate da ragioni di puro imperialismo, le quali minacciano la sicurezza della stessa Europa, come persino il generale francese Vincent Desportes ammette; ignorare tale minaccia impedisce di difenderci dai nostri veri nemici, difenderci anche collaborando «senza riserve mentali con tutti i nemici dei nostri nemici, a cominciare dalla Russia, dalla Siria e dall’Iran» (Ibidem);
  • il silenzio, gravissimo e antidemocratico, sul TTIP, il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti, «il più pericoloso cavallo di Troia mai ideato per annientare la residua autonomia europea» (Tarchi, 3), un accordo a tutto vantaggio degli Stati Uniti e delle multinazionali, alle quali viene data facoltà e «potere di citare in giudizio l’autorità statuale fino a rovesciarne le leggi sovrane che regolamentano questioni di primaria importanza -come le relazioni del mondo del lavoro, l’inquinamento, la sicurezza agroalimentare, gli organismi geneticamente modificati», con l’obiettivo di rendere «norma la mercificazione dell’esistente. Non è un caso che i contenuti del mercato unico transatlantico e le sue motivazioni restino privi di trasparenza e discussione pubblica» (E. Zarelli, 31).

Dicotomie concettuali come destra/sinistra o moderatismo/estremismo si rivelano autentici miti invalidanti, che ostacolano la comprensione e quindi l’azione politica. L’espressione forse più significativa e più grave di tale paralisi è il primato delle questioni etniche e razziali rispetto ai problemi economici e alle prospettive di classe. Ignorando l’intero impianto della dottrina marxiana, «la sinistra radicale considera la regolarizzazione degli immigrati clandestini come il marcatore di sinistra per eccellenza, senza capire che serve oggettivamente il processo di dominio capitalista e mercantile» (C. Robin, 33). Il dispositivo concettuale marxiano dell’‘esercito industriale di riserva’ ha ancora molto da insegnare agli ‘umanisti’ liberali di sinistra che si fanno complici del Capitale senza neppure rendersene conto.

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