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Aiace

Teatro Greco- Siracusa
Aiace
di Sofocle
traduzione di Walter Lapini
con Luca Micheletti (Sofocle), Daniele Salvo (Odisseo), Diana Manea (Tecmessa), Teucro (Tommaso Cardarelli)
scene e luci di Nicolas Bovery
musiche di Giovanni Sollima
regia Luca Micheletti
Sino al 7 giugno 2024

A differenza di altre esperienze siracusane a teatro, Aiace è una tragedia che non rinuncia al buio dell’ora successiva al tramonto ma lo accompagna e se ne riempie poiché tale buio è l’unica luce rimasta per l’eroe sconvolto dall’ira sino a invocare le «venerabili Erinni» affinché possano vendicare l’offesa sprezzante che gli Atridi e Odisseo hanno compiuto sottraendo le armi di Achille a colui il quale, se l’eroe avesse potuto decidere, sarebbero state destinate, ad Aiace, il più forte dei guerrieri achei dopo Achille, il più valoroso, l’invincibile. Le armi sono invece andate a Odisseo, il quale rimane sempre presente al confine della scena quando protagonista è la compagna di Aiace Tecmessa che racconta al Coro quanto è accaduto all’eroe, quasi a volere confermare con la sua permanenza la sorte comune e misera che anche a lui, in quanto mortale, è destinata.
L’inganno e l’offesa subita scatenano la μῆνις di Aiace, l’ira, la vendetta, il rancore. E scatenano insieme alla μῆνις la follia e la furia che avrebbero portato l’eroe a far strage dei Greci suoi compagni se non fosse intervenuta Atena a indirizzare la violenza del guerriero contro delle pecore, contro dei buoi, creduti invece da Aiace umani ai quali infliggeva dolore e dava la morte. Il velo di sangue che copre la scena e nasconde i cadaveri degli agnelli e dei buoi squartati partorisce anche Aiace che fa il suo ingresso proprio da quello stesso ventre di lamento e di sangue.
Quando il guerriero si sveglia dalla furia che lo ha sconvolto, si accorge di essere diventato lo zimbello dei Greci. È stato toccato il suo onore, perdere il quale è una condizione intollerabile in una civiltà della vergogna e non della colpa, qual è la Grecia antica. Sentono, sentono i suoi soldati le urla strazianti e orribili di Aiace. Si impossessa dei cuori di tutti la paura, il terrore, altra violenza, l’arcaismo di sentimenti primordiali e non controllabili. A rischiare di diventare folli sono tutti e non soltanto l’eroe.
«Quale turbine di orrori mi vortica intorno» dichiara Aiace. E più volte, come fa il colonnello Kurz di Cuore di tenebra, ripete il suo «l’orrore, l’orrore». Una condizione che è frutto non soltanto dell’inganno di Odisseo ma anche e specialmente della ὕβρις di Aiace, del suo vantarsi nei confronti di Atena e di Ares di poter sconfiggere i nemici anche senza la loro protezione e il loro aiuto. Non possono gli dèi tollerare una tale protervia, poiché vale sempre – è regola inscalfibile del mondo greco – che, come afferma Odisseo, «il ridere e il piangere degli umani dipendono solo dagli dèi».
Alla fine accade ciò che deve accadere e la scena viene occupata dall’enorme scheletro di Aiace che si è conficcato la propria spada nel petto. Perché se, come lui stesso afferma, «il tempo porta luce là dove era ombra e ombra dov’era la luce» – e dunque se il tempo è Differenza – è anche vero, come ancora Aiace dichiara, che «la natura di un uomo è immodificabile», Identità. L’identità di guerriero che gli ha reso intollerabile il vivere ancora.

La rappresentazione di tutto questo a Siracusa è stata coinvolgente e corretta. Corretta perché la scena, cosparsa ovunque di sangue e di carcasse di animali uccisi, riesce a trasmettere la struttura arcaica e tribale della tragedia, di questa di Sofocle ma non soltanto di essa. Coinvolgente perché il regista/interprete Luca Micheletti e il compositore Giovanni Sollima hanno tentato di restituire la natura di Gesamtkunstwerk della drammaturgia greca, il suo essere quindi non soltanto un testo recitato – come nel moderno teatro borghese – ma una rappresentazione fatta anche di musica, movimenti coreutici, canto. Un’opera d’arte totale. E le musiche di Sollima rispettano l’andamento ritmico del testo, pur tradotto in italiano.
La musica è protagonista di questa rappresentazione siracusana, musica che assurge al compito nietzscheano di una influenza «veramente rispondente» nella quale «immagine e concetto acquistano un accresciuto significato». Essa infatti «spinge all’intuizione simbolica dell’universalità dionisiaca, e in secondo luogo la musica fa risaltare l’immagine simbolica in una suprema significazione» (Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi 2011, § 16, p. 110). Che siano percussioni, archi o strumenti a fiato, che facciano vibrare l’aria insieme o singolarmente, essi riempiono lo spazio e le immagini che si lasciano così vedere meglio e più a fondo. La rappresentazione mostra assai chiaramente come a essere centrale, alla fine, non è la morte di Aiace ma il destino ineluttabile che appartiene a tutti, come saggiamente ci ricorda quello scheletro  imponente presente sulla scena.
L’enorme scheletro di Aiace che occupa tutta la parte finale della rappresentazione è infatti lo scheletro del nulla umano. Ma non è soltanto questo. È, senza averlo voluto, anche qualcosa di più contingente e miserabile. Il Teatro di Siracusa era infatti pieno. Pieno anche e specialmente di scolaresche. E quindi di adolescenti, o poco più, che hanno mostrato via via tutta la loro insofferenza nei confronti di ciò a cui erano costretti ad assistere. E per questo bisbigliavano, chiacchieravano, interrompevano di continuo con degli applausi anche mentre gli attori recitavano.
Guardavo le posture degli studenti, evidentemente e somaticamente a disagio. Perché infliggere a queste persone un simile tormento? Che diventa un’altra domanda: è corretto pagare biglietti dal costo anche assai alto per uno spettacolo continuamente disturbato e interrotto in questo modo? La responsabilità non è degli studenti, o non è soltanto loro. È anche e specialmente dei loro educatori, o presunti tali, dei loro professori che non esitano a costringere le scolaresche (in gita in Sicilia ma anche autoctone) ad assistere a una espressione di profondità e radicalità antropologica e metafisica alla quale questi adolescenti sono evidentemente impreparati o, in ogni caso, ‘non è cosa loro’. Che stiano a casa a guardare Maria De Filippi e TikTok, che stiano in giro attaccati ai loro cellulari, al torrente di messaggi audio, al flusso di WhatsApp. Quello è il loro mondo, lì devono stare, lì si sentono e sono a proprio agio. Non davanti a un incomprensibile e per loro noiosissimo spettacolo di due ore su argomenti e dinamiche alle quali sono estranei come lo sarebbe un marziano.
Lo scheletro in scena è dunque anche quello del teatro, greco e non greco. È lo scheletro dell’Europa, i cui giovani cittadini sono interamente e totalmente immersi nella Stimmung barbarica che proviene da New York e non da Atene.

L'inganno

Piccolo Teatro Studio – Milano
Aiace e Filottete
tratto da Sofocle
regia Georges Lavaudant
traduzione e adattamento Daniel Loayza
con Maurizio Donadoni e Francesco Biscione
produzione Teatro Garibaldi di Palermo alla Kalsa
dal 2 al 4 marzo 2011

Neottolemo si presenta alla solitudine di Filottete -abbandonato dagli Achei sull’isola di Lemno a causa della sua maleodorante ferita al piede- dichiarandosi anche lui vittima degli inganni di Odisseo. Lo scopo è però riportare a Troia l’arco e le frecce di Eracle -possesso di Filottete- senza le quali la guerra non sarebbe stata vinta.
Atena fa credere ad Aiace di stare al suo fianco mentre fa vendetta degli Atridi, colpevoli di non avergli dato le armi di Achille che gli spettavano per il suo assoluto valore di guerriero. Aiace però invece che di Agamennone, Menelao e altri Achei, fa strage di mandrie e di pastori, ingannato dalla dea amica di Odisseo. Uscito dall’illusione che lo spinge sulla scena a urlare la propria soddisfatta vendetta, l’eroe non regge alla vergogna e si uccide.

È l’inganno dunque il tema che Georges Lavaudant ha tratto da Sofocle. L’inganno, questa nebbia interiore simile a quella che Zeus ha steso sopra Ettore e Aiace quando costui stava per uccidere l’eroe troiano. Nel loro terribile e sacro disincanto i Greci seppero dire che per quanto si dia da fare, soffra tenacemente, speri oltre ogni speranza e ponga di fronte a sé la Verità, l’umano rimane frutto di una menzogna, di un trastullo, di un gioco tramato da potenze che appaiono a volte in forme antropomorfiche ma che sono l’ineffabile segreto che tutti ci spinge a sorridere, a volere, a morire.

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