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Contro i cristiani

Composto tra il 270 e il 272, probabilmente su invito di Plotino, il Κατὰ Χριστιανῶν di Porfirio (Contro i cristiani. Nella raccolta di Adolf von Harnack con tutti i nuovi frammenti in appendice [1916], a cura di Giuseppe Muscolino, Bompiani 2010, pagine 617) era un libro talmente efficace nei ragionamenti e nella forma da meritare la proscrizione già di Costantino prima del Concilio di Nicea (325) e poi nel 448 il rogo di tutte le copie, su decreto congiunto degli imperatori cristiani d’Oriente e d’Occidente Teodosio II e Valentiniano, i quali ordinano «che tutti quanti gli scritti di Porfirio, o di qualche altro, che egli scrisse spinto dalla sua follia contro il sacro culto dei cristiani, presso chiunque vengano trovate, siano gettate nel fuoco. Infatti tutti gli scritti che spingono Dio all’ira e offendono le anime (dei fedeli), non giungano alle orecchie; (così facendo) vogliamo venire in aiuto degli uomini» (Cod. Justin. I, 5, qui alle pp. 167-169). I roghi dei libri -dai cristiani ai nazionalsocialisti- hanno sempre avuto motivazioni morali. In questo caso «la ragione per la quale sappiamo così poco è che gli scritti di Porfirio erano ritenuti così potenti e spaventosi che furono completamente estirpati» (Catherine Nixey, Nel nome della Croce. La distruzione cristiana del mondo classico, Bollati Boringhieri 2018, p. 80). Il lavoro di Porfirio «fu immenso: almeno quindici libri, sappiamo che si trattava di un testo assai colto e che era, almeno per i cristiani, profondamente sconvolgente» (Ivi, p. 79).
Nel 1916 il filologo tedesco Adolf von Harnack pubblicò 121 frammenti sparsi, citati da altri autori -anche se non tutti di sicura attribuzione a Porfirio- che vennero da lui suddivisi in una parte di Testimonianze e poi in cinque sezioni tematiche dai titoli Critica del carattere e dell’affidabilità degli evangelisti e degli apostoli come principio della critica del cristianesimo, Critica del Vecchio Testamento, Critica degli atti e delle parole di Gesù, Dogmatica, Sulla Chiesa contemporanea.

Per comprendere il significato dirompente di quest’opera è essenziale fare un’epoché, mettere tra parentesi tutto ciò che conosciamo di Gesù, della sua figura, delle parole che vengono tramandate dai Vangeli, come se non ne sapessimo nulla. È difficilissimo, certo, ma se riuscissimo a farlo il risultato sarebbe quello indicato da Porfirio e che nessuna disperata dialettica di Girolamo, Agostino, Eusebio e altri polemisti cristiani riesce a nascondere. Quali risultati? Quelli che seguono, in gran parte confermati dalla critica biblica moderna e contemporanea.
I Vangeli non vennero redatti dai loro presunti autori -apostoli che conobbero Gesù- ma molti decenni dopo, da comunità cristiane. Essi consistono in gran parte in invenzioni e sono pieni di contraddizioni gli uni con gli altri: «Ognuno di loro infatti scrisse il racconto sulla passione non in modo concorde, ma in modo assolutamente differente» (testo n. 15; p. 203). Non soltanto la passione ma molte altre notizie sono contraddittorie, come ad esempio le genealogia di Maria e di Giuseppe. Gli stessi detti di Gesù sono tra di loro in contraddizione, come quando -ed è un solo esempio tra i tanti- a chi mugugnava perché una donna avesse cosparso il Maestro di preziosi profumi che si potevano vendere a favore dei poveri, Gesù rispose «di non essere con loro per sempre, lui che altrove assicura (i discepoli) dicendo loro: ‘Io sarò con voi fino alla fine del mondo’. Così, addolorato per l’episodio dell’olio profumato, negò che sarebbe stato con loro per sempre’» (61; 325).
In generale, quella dei nazareni è «una fede irrazionale e non sottoposta ad esame» (1; 185), come si vede con chiarezza dalla credenza in un Dio che può distruggere le leggi della logica, della fisica e del buon senso. Porfirio invita infatti a riflettere su «quanto sarebbe assolutamente illogico se il demiurgo lasciasse che il cielo, di cui nessuno potè pensare una bellezza più divina venisse distrutto, le stelle cadessero e la terra perisse, e invece facesse risorgere i corpi putrefatti e guasti degli uomini, alcuni di persone dall’aspetto curato, altri orribili prima di morire, sproporzionati e dall’aspetto terribilmente nauseante» (94; 387). Resurrezione dei corpi che rappresenta una delle maggiori assurdità che si possano immaginare: «Infatti spesso (è capitato) che molti morirono in mare e i (loro) corpi furono mangiati dai pesci, altri furono divorati dalle belve e dagli uccelli; com’è dunque possibile che i loro corpi tornino indietro?» (n. 94, 385).
Ma sono gli stessi cristiani a non credere per primi a tali assurdità. Tanto è vero che la loro presunta fede non è in grado né di spostare le montagne -eppure per farlo basterebbe, assicura il Maestro, avere ‘fede quanto un granello di senape’- né di guarire i malati né di assumere veleni mortali senza subirne alcun danno, come assicura sempre Gesù, per il quale proprio questi sono segni certi della fede. E tuttavia, commenta Porfirio, nessun cristiano e neppure alcun vescovo si è mai sottoposto a tale prova.
I cristiani divennero poi ben presto, come ammise lo stesso Girolamo, simili a degli esattori delle tasse, chiedendo con insistenza denaro a tutti. Tanto che furono frequenti i casi di donne -soprattutto ricche vedove- che furono convinte «a distribuire ai poveri tutta la ricchezza e le sostanze  che (esse) avevano e, ridottesi all’indigenza, a mendicare; dalla libertà (economica) passarono ad una sconveniente e misera condizione di accattonaggio, dalla felicità piombarono in una condizione drammatica» (58; 321).
Chiede poi ragionevolmente Porfirio: «Perché colui che fu chiamato il Salvatore, si è nascosto per così tanti secoli» negando in questo modo la salvezza a milioni e milioni di persone vissute prima della sua comparsa in Palestina in un certo momento del tempo (82;1)? E perché Gesù dopo la presunta resurrezione apparve a pochissime e sconosciute persone «mentre aveva precisamente dichiarato al sommo sacerdote dei Giudei dicendo: ‘Vedrete il figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio che viene sulle nuvole’. Se infatti fosse apparso a uomini illustri, tutti grazie a costoro, gli avrebbero creduto e nessuno dei giudici li avrebbe puniti come inventori di favole assurde; infatti non piace in alcun modo né a Dio, ma nemmeno ad un uomo intelligente che molte persone per causa sua siano esposte alle punizioni più terribili» (64; 329). Se davvero fosse stato il figlio dell’Altissimo, «Cristo avrebbe dovuto, durante la sua discesa, oppure dopo la sua morte o in altra occasione, apparire a gran parte della gente in modo impressionante (tramite miracoli, come Dio)» (sintesi di von Harnack dei frammenti 65 con nr. 48, 64; p 95).

In realtà questo rabbi un po’ troppo convinto della propria autorità ha generato una storia di massacri e di dolori, perpetrati dai suoi seguaci contro chi non condivideva un fanatismo simile a quello degli attuali esponenti dell’Isis, come molte testimonianze storiche confermano, al di là di Porfirio. Un solo caso: il massacro attuato nel 415 da una banda di criminali cristiani contro una donna sola, indifesa -Ipazia di Alessandra- su istigazione del vescovo Cirillo, poi proclamato santo e dottore della Chiesa. La verità è che Gesù il Nazareno è un uomo «per la cui venerazione e fede una moltitudine di uomini viene inumanamente uccisa, mentre la (sua) attesa risurrezione e venuta rimane ignota» (36; 245). Un uomo che chiede più volte al suo Dio di risparmiargli la morte e che al momento di spirare lo accusa di averlo abbandonato. Parole le quali «sono indegne non solo del figlio di Dio, ma anche di un uomo saggio che disprezza la morte» (62; 325).
Le risposte dei cristiani a queste semplici e sensate osservazioni consistono nell’insultare in vario modo chi le formula e nell’arrampicarsi sugli specchi, come fa Girolamo a proposito della questione delle montagne che si spostano: «In coincidenza dell’apparizione nel mondo della fede cristiana, si verificarono in gran numero eventi prodigiosi e straordinari, la maggior parte dei quali non sono stati riportati, in quanto superavano le capacità di comprensione degli uomini», continuando poi con il dire che le montagne da spostare sono una immagine del diavolo (nota del curatore, p. 459).
Ecco l’unica risposta che i dotti cristiani sono capaci di dare: interpretare i Vangeli e i detti di Gesù in chiave totalmente allegorica, salvo poi tornare alla lettera del testo quando a loro conviene. Ma l’allegoria è capace di dire tutto e il contrario di tutto, come -ad esempio- che in base al testo dell’Iliade Ettore raffigura il diavolo e Achille prefigura il Cristo vincitore.

È penoso che la ricca e sempre lucida cultura dei Greci sia stata costretta a confrontarsi con questo insieme di favole esagerate, neppure buone per dei bambini. E questo per ragioni in primo luogo politiche. L’imperatore Costantino, che per primo ordinò il rogo dei libri, abbracciò la fede cristiana anche per una motivazione semplicemente personale e giudiziaria. Infatti egli si era macchiato «del duplice delitto contro il primogenito Crispo e la moglie Fausta [che uccise facendola bollire in una vasca d’acqua], sospettati di aver avuto una relazione sentimentale» e, «non avendo ottenuto il perdono da nessuna religione presente nell’impero di allora per una simile nefandezza, si rivolge al cristianesimo», il quale lo assolve e lo accoglie tra i propri adepti (nota del curatore, pp. 514-515). Non solo: lo proclama «eguale agli apostoli» (Nixey, Nel nome della Croce, cit., p. 54).
Un nemico di Porfirio, Agostino di Ippona, è ancora abbastanza greco da riconoscerlo in ogni caso come «philosophus nobilis, magnus gentilium philosophus, doctissimus philosophorum quamvis Christianorum acerrimus inimicus» (De civitate Dei, XIX, 22, qui a p.162), filosofo nobile e dotto nonostante fosse acerrimo nemico dei cristiani.
Quei cristiani e quei padri della Chiesa a proposito dei quali Nietzsche può giustamente dire che «ci si ingannerebbe completamente se si supponesse un qualsiasi difetto d’intelligenza nelle guide del movimento cristiano -oh, se essi sono accorti, accorti fino alla santità, questi signori padri della Chiesa!», con la capacità che ebbero di assorbire la filosofia greca -affrancandosi così dalla natura settaria del cristianesimo delle origini- per metterla al servizio delle patetiche e pericolose invenzioni dottrinarie, etiche e politiche della fede dei nazareni (L’Anticristo, Adelphi, p. 256).
I cosiddetti padri della Chiesa sono stati fomentatori di crimini e hanno contribuito alla distruzione della razionalità platonica e aristotelica, da loro giudicata diabolica. Sia come vittime sia come carnefici, hanno dato ragione a Zarathustra, per il quale «il sangue è il peggior testimone della verità; il sangue avvelena anche la dottrina più pura e la trasforma in follia e odio dei cuori» (Così parlò Zarathustra, II parte, ‘Dei preti’). Porfirio e gli ultimi filosofi pagani sono rimasti indenni da tali follie, da tanto odio.

Corpoflusso

Metto a disposizione su Dropbox il file audio (ascoltabile e scaricabile) della pr ima delle due lezioni sulla Coscienza  che ho svolto alla Scuola Superiore di Catania il 3 e 4 maggio 2018.

Il filo che abbiamo cercato di dipanare in queste conversazioni si può raccogliere affermando che se è vero che la mente è un’espressione delle attività neuronali del cervello, la conoscenza delle caratteristiche e delle proprietà dei singoli neuroni non è sufficiente a comprendere davvero che cosa la mente sia poiché l’intenzionalità, la coscienza, la volontà, il pensiero non sono il risultato della sola attività cerebrale ma implicano il suo agire in un mondo del quale anch’essa è parte. Nella coscienza è coinvolto l’intero organismo e non il cervello soltanto, anche se è quest’ultimo il luogo critico di raccolta e di sintesi delle sensazioni fisiche, dell’esserci corporeo da cui la coscienza viene generata.
La coscienza non sembra poter essere oggetto di un’indagine soltanto empirica perché il mentale costituisce una dimensione privata, temporale, intenzionale, introspettiva, mentre il cerebrale rappresenta una dimensione oggettiva, spaziale, fisica, esterna. Se vogliamo comprendere coscienza e tempo dobbiamo anche liberarci dalla sola percezione spaziale del mondo e di noi stessi per accedere, invece, a una intuizione del tempo capace di coglierne gli aspetti qualitativi e dinamici, del tutto interiori e irriducibili al movimento nello spazio.
Tempo, corpo e linguaggio sono strettamente legati nel preciso evento della memoria, che è sempre dinamica, trasformatrice di ricordi, manipolatrice di eventi, autrice di narrazioni, creatrice alla fine delle identità singole tramite una continua reinvenzione del passato. Per Platone tutta la conoscenza è di fatto memoria (Menone) poiché la miriade di eventi, impressioni, pensieri che costituisce un umano diventa comprensibile e unitaria nel racconto che la coscienza fa a se stessa del tempo vissuto, diventando in tal modo coscienza di sé e non soltanto del mondo.
La coscienza è anche il dinamismo ininterrotto del corpomondo, il continuo e complesso legame dei neuroni, delle sinapsi, delle cellule gliali con tutta la corporeità immersa nel passato, coinvolta nel presente, rivolta al futuro. La coscienza è dunque la percezione che il corpo ha di se stesso come flusso temporale, è la relazione tra il corpo e gli eventi.
Agostino, Bergson, William James e Husserl individuano nel tempo il fattore che dà continuità e coerenza ai diversi contenuti della mente attraverso la profonda unità di ritenzione, protenzione e presentificazione nella coscienza interiore del tempo. La coscienza consiste pertanto nella consapevolezza di essere parte di un flusso temporale che determina e spiega ogni aspetto della nostra vita, consapevolezza che neppure per un istante ci abbandona.
Se vogliamo comprendere la coscienza, è necessario rivolgere uno sguardo radicale –insieme neurologico e fenomenologico– alla corporeità e al suo essere una macchina temporale cosciente di sé. È il tempo, infatti, a costituire e a legare reciprocamente ogni ente e ogni pensato. Trama e ordito del reale sono tessute con il filo della temporalità. L’esistenza e la comprensione umane costituiscono dunque una cronosemantica. La struttura della coscienza è composta da ricordi semanticamente densi il cui fluire plasma il Sé nell’articolazione di passato, presente e futuro, configurazioni temporali che trovano la loro unitarietà nella corporeità vivente, ora.

[Seconda lezione del 4 maggio 2018]

Husserl

Edmund Husserl
Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo
(Zur Phänomenologie des Inneren Zeitbewusstseins 1893-1917, hgg. v. Rudolf Boehm, «Husserliana», Bd. X, , Martinus Nijhoff, 1966)
A cura di Alfredo Marini
Introduzione di Rudolf Boehm
Franco Angeli, 1998
Pagine 497

Lezioni aperte, pensieri annotati, un flusso di ipotesi, una ricerca in divenire. I testi raccolti nel X volume della Husserliana sono un’efficace testimonianza del modo in cui Husserl pensava, della sua tecnicità ma anche dell’esercizio costante di filosofia che la fenomenologia rappresenta. Lo stesso loro autore giudicava queste pagine ancora immature e non pubblicabili ma diede anche incarico a Edith Stein di rivederle e di farne un testo leggibile, che uscì nel 1928 a cura di Heidegger nel IX volume dello Jahrbuch für Philosophie und Phänomenologische Forschung. In ogni caso risulta evidente che, pur essendo frutto di un lavoro venticinquennale, questi testi sono espressione di una ricerca rimasta sempre aperta e «non un’opera conclusa, una diga contro il tempo» (A. Marini, p. 424).
Il Tempo è non solo «il più difficile di tutti i problemi fenomenologici» (testi integrativi, n. 39, p. 280) ma è forse il più complesso di tutti i pur numerosi e variegati temi della filosofia. Affrontandolo con il suo peculiare metodo, la  fenomenologia mostra per intero la propria natura, la potenza teoretica del suo procedere. Nella definizione, infatti, che qui ne dà lo stesso Husserl la fenomenologia è la «scienza della coscienza pura», la quale «abbraccia in un certo senso tutto ciò che essa stessa ha accuratamente posto fuori gioco, abbraccia ogni conoscenza, tutte le scienze» e l’intera natura, ma lo fa sospendendo l’ovvietà del loro darsi allo sguardo ingenuo del realismo quotidiano e di quello filosofico e concentrando invece il proprio sguardo sulla intenzionalità della coscienza. La natura stessa, infatti, «non è mai e in nessun caso una datità assoluta» (ivi, p. 340) ma rappresenta sempre un vissuto per la coscienza che indaga la datità del mondo e quella parte di mondo che la coscienza stessa è.
Il problema che mette alla prova la plausibilità logica ed empirica della coscienza fenomenologica è il Tempo. Il tempo, infatti, è il mondo, è la sua pensabilità, è la coscienza che lo pensa. Il tempo intesse ogni ente e sembra da ogni cosa emergere e tuttavia, come già Agostino comprese quasi con disperazione, «si nemo a me quaerat, scio, si quaerenti esplicare selim, nescio» (Confessiones, XI, 14). La complessa analisi condotta in queste lezioni husserliane si pone sotto il segno agostiniano: «In questa materia i tempi moderni, tanto orgogliosi del proprio sapere, non hanno eguagliato l’efficacia con cui la serietà di questo grande pensatore aggredì il problema, né fatto progressi degni di nota» (Introduzione, p. 43).
In Agostino è infatti già chiarissima la natura non soltanto empirica del tempo. Esso non è un ente al modo degli elementi chimici, non è un aggregato di atomi, molecole, cellule o altri insieme di particelle elementari. Non è soltanto un processo che avvenga in natura. Il tempo non è neppure, però, solo la percezione psicologica della memoria, dell’attesa e della durata interiore, poiché: a) la coscienza psichica è un oggetto naturale che rientra appieno nell’ambito delle scienze empiriche, un oggetto –quindi- trascendente e non primario, costruito a partire dai dati immanenti della intenzionalità fenomenologica; b) la soggettività della coscienza psicologica non può dar conto della universalità dei fenomeni temporali. E quindi «il tempo che qui emerge non è un tempo obiettivo né obiettivamente determinabile. Questo tempo non è misurabile e per esso non c’è alcun orologio, né cronometro di sorta. Qui si può soltanto dire: adesso, prima e prima ancora, mutare o non mutare nella durata, ecc.» (testi integrativi, n. 51, p. 332).
Le osservazioni più elementari dei vissuti temporali ci dicono che appare un flusso di ora che si susseguono incessanti. In esso sono contenuti sia gli enti che appaiono sia il loro peculiare apparire alla coscienza. Tutto ciò che esiste, per il fatto stesso della sua esistenza attuale, è destinato a essere stato, a divenire passato. Il percepire della coscienza è costituito dall’intenzionalità con cui essa si dirige verso l’adesso e quindi: la presentificazione del dato immanente, la ritenzione dei momenti che sono stati, la protenzione verso quelli che saranno. La ritenzione rappresenta il ricordo “fresco” (o primario) di una impressione immediata e da essa si genera il ricordo secondario o rimemorazione; il ricordo è quindi nella sua essenza «coscienza dell’esser-stato-percepito» (§ 27, p. 88); il flusso degli istanti presentificati, del ricordo e dell’aspettazione scorre sempre nel presente di una coscienza.
Come la materia è composta di atomi, così il flusso del tempo è fatto di tali ora che potremmo chiamare tempora o, più esattamente, temp-ora. Credo sia infatti utile dividere la parola latina in modo da cogliere la temporalità come flusso incessante di «ora». Ciascuno di questi temp-ora mano a mano che si presenta alla coscienza si allontana poi da essa e va a costituire la realtà spessa e profonda della memoria di lunga durata, quella memoria che fa l’identità di ogni individuo, la sua storia, il suo patrimonio più prezioso.
Il vivere consiste in questo flusso di temp-ora che plasma il nostro corpo, gli dà una storia e con essa un’identità. Ed è per questo che non solo «il tempo è la forma ineliminabile delle realtà individuali» ma –assai di più- il tempo è la mente stessa e la mente è l’insieme indissolubile di coscienza, intenzionalità, corpo (testi integrativi, n. 39, p. 279).
È possibile, in questo modo, cominciare a intravedere qualcosa di quell’enigma che la coscienza è da sempre. La coscienza è l’insieme coeso –istante per istante- dei temp-ora che formano il flusso del vivere, un insieme simultaneo nel suo darsi poiché in essa convivono i vissuti intenzionali (la percezione del sé, le conoscenze, le informazioni, i sentimenti, le emozioni), le percezioni esterne (suoni, odori, colori, sapori, forme), i ricordi (l’insieme costituito dalle ritenzioni, dalle rimemorazioni, dalla memoria del corpo), le attese (progetti, desideri, timori, preoccupazioni, speranze), la certezza primaria, e confermata dall’accumularsi dei temp-ora, di dover morire.
Se «la coscienza desta, la vita desta, è un vivere andando incontro, un vivere che dall’“ora”, va incontro al nuovo “ora”» (appendice III, p. 131) è perché la coscienza è anche corporea. Mente e corpo sono due aspetti della medesima realtà temporale. Una delle differenze che rendono dinamica questa realtà profondamente unitaria riguarda proprio la percezione del tempo. La mente, infatti, dimentica, deve dimenticare per poter accumulare altri temp-ora, per rimanere aperta al futuro, alle sue protenzioni, alle attese che danno senso alla vita. Il corpo, invece, non solo non ha bisogno di oblio ma cresce attraverso lo scambio costante con il flusso del tempo in cui è immerso e in cui consiste. Per questo il corpo non dimentica nulla, non dimentica i momenti esaltanti che gli hanno dato forza, non dimentica le sofferenze che gli altri e se stesso gli hanno inferto. L’accumularsi dei temp-ora di sofferenza –di cui l’esistenza di ogni ente finito è costellata- non può essere cancellato dal corpo ed è precisamente per questo che esso muore. La corporeità è radicata nel tempo in un modo letterale, in un modo fisico.

Precedenti analisi di opere husserliane e di libri e tematiche fenomenologiche:

Ontologia del nuovo (1.3.2009)

Il tempo vissuto (14.4.2010)

Filosofia e verità Sulle Ricerche logiche (11.4.2013)

Riscoprire Husserl (21.3.2014)

On Time (7.11.2014)

Meditazioni fenomenologiche Sulle Meditazioni cartesiane (5.3.2015)

Husserl / Filosofia (11.8.2015)

Husserl / Tempo (12.3.2016)

Ontologia (2.4.2017)

Sul ricordo

Quei labirinti temporali che redimono il dolore
il manifesto
20 gennaio 2018
pagina 11

Percorriamo di continuo il magnifico labirinto del tempo, fatto con i mattoni dei nostri ricordi, i quali però non sono mai rappresentazioni statiche, ferme e sempre uguali a se stesse. No, i ricordi sono continuamente cangianti, riletti e riscritti alla luce delle urgenze presenti e delle aspirazioni future. Questo vuol dire Husserl quando sostiene -come prima di lui aveva fatto Agostino- che il presente della mente si distende e si estende in ogni altra dimensione del tempo, sino a creare quei ricordi di fantasia che sono generati «dalla capacità della coscienza intenzionale di ricollocarsi in ogni punto del flusso e di produrlo ‘ancora una volta’» (Pio Colonnello, Fenomenologia e patografia del ricordo, Mimesis 2017, p. 21).

Heidegger / Ricoeur

in_circolo
Identità e differenze temporali. Su Heidegger e Ricoeur

in «In Circolo – Rivista di filosofia e culture»
Numero 2 – Dicembre 2016
Pagine 277-290

Abstract del saggio
«The paper analyzes and compares two fundamental works to understand temporality: Sein und Zeit by Martin Heidegger and Paul Ricoeur’s Temps et récit. Heidegger’s onthological analysis becomes theoretical narrative in Ricoeur, without losing anything of the complexity of the matter, rather getting enriched with a series of strong links to history, literature, phenomenology».

Il fuoco dell'universo

L’obiettivo di Plotino è il medesimo di tutta la filosofia ellenistica e romana: l’autarchia dell’uomo divenuto finalmente saggio, di colui che nel geroglifico degli innumerevoli segni sa intravedere un percorso di salvezza per sé, «tutto è pieno di segni ed è sapiente chi da una cosa ne conosce un’altra» (II, 3, 7); di colui che «vive bastando a se stesso, tò oùtos zoé échonti» (Enneadi, trad. di G.Faggin, I, 4, 4); di colui che vorrebbe certamente che ogni umano fosse felice ma che rimane ugualmente felice anche se questo non accade; di colui che «per la stoltezza degli altri o dei parenti, non si renderà infelice né si legherà alla fortuna buona o cattiva degli altri» (I, 4, 7); di colui che è del tutto consapevole della transitorietà sia degli uomini sia delle collettività. Il saggio

potrà considerare grande cosa la caduta di un regno e la rovina della sua città? E se stimasse ciò un gran male o semplicemente un male, ridicola sarebbe la sua opinione, né egli sarebbe saggio, ove considerasse grandi cose del legno, dei marmi e, per Zeus, la morte di esseri mortali. (I, 4, 7)

Racconta Possidio che furono queste le parole pronunciate da Agostino sul letto di morte (Vita, 28.11). Il vescovo di Ippona non ricordò, morendo, un testo della Bibbia o dei teologi suoi colleghi ma quello dell’ultimo grande pensatore pagano. Scelta comprensibile e significativa ma anche contraddittoria poiché per Plotino la somiglianza con il dio non è la partecipazione alla sua sofferenza su una croce -concetto inaudito e totalmente insensato per il paganesimo- ma consiste in uno stato di «Intelligenza impassibile, immobile e pura, aeì phronousin en apathei tò nò kaì stasìmo kaì katharò» (V, 8, 3), in un esistere quindi «duskìneton kaì duspathè», immutabile e impassibile (I, 4, 8). Il saggio sa l’essenziale, sa che «se il fuoco che è in te si spegne, non si spegne tuttavia il fuoco dell’universo» (II, 9, 7).

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