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Ate, il suo inno

Teatro Greco – Siracusa
Agamennone
di Eschilo
Traduzione di Walter Lapini
Scene di Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi
Video design: D-Wok
Musici: Diego Mingolla, Stefania Visalli
Con: Laura Marinoni (Clitennestra), Sax Nicosia (Agamennone), Linda Gennari (Cassandra), Stefano Santospago (Egisto), Spettro di Ifigenia (Carlotta Messina, Maria Chiara Signorello), Corifea (Gaia Aprea)
Regia di Davide Livermore
Sino al 5 luglio 2022

La cifra stilistica è naturalmente sempre quella che lo scorso anno caratterizzò Coefore / Eumenidi, anche se la declinazione è un poco diversa, più sobria. Sobria compatibilmente con le intenzioni di Livermore, che anche in questo caso travalica non soltanto Eschilo ma proprio l’idea greca del teatro. Nel preciso senso che la presenza del regista diventa preponderante e la formula registica potrebbe essere applicata a qualunque testo di qualsiasi epoca. Una notte, insomma, in cui tutti gli spettacoli sono uguali. Il coro è formato, tra gli altri, da generali più o meno paralitici e in ogni caso vecchissimi. I gesti sono meccanici, artificiosi, esagerati. Compaiono ovunque fantasmi, una figura evidentemente cara a Livermore. In questo caso nelle fattezze di due bambine che rappresentano il fantasma della Ifigenia sacrificata dal padre Agamennone e della cui morte la madre Clitemnestra appunto si vendica massacrando il marito e la nuova schiava/concubina Cassandra.
Coerente e interessante è invece l’idea di accompagnare l’intero spettacolo con la musica. Si parte da livelli alti, dai più alti, vale a dire da Bach ma si conclude con gli attori che eseguono una canzone accettabile ma che ancora una volta nulla c’entra. Se questo regista ama il musical perché non mette in scena dei musical?
Ma ancora una volta la parola di Eschilo sopravvive e vince.
Vince nel comprendere che «ἐγρηγορὸς τὸ πῆμα τῶν ὀλωλότων, si risveglia sempre il dolore dei morti» (v. 346, questo e gli altri versi vengono citati nella traduzione di Monica Centanni), che coloro che non sono più possiedono ancora la forza di legare a sé il destino dei vivi, nell’infinita serie di cause e legami che costituisce l’esistere.
Vince nel pieno splendore della Necessità, ben conscia che quanto sta accadendo è «μοῖρα μοῖραν ἐκ θεῶν, Moira contro Moira» (v. 1026), è l’inno originario di Ἄτη, «πρώταρχον ἄτην», le sue parole che -«ἐν μέρει δ᾽ ἀπέπτυσαν, cantano il canto della colpa originaria» (v. 1192).
Vince dicendo con chiarezza dall’inizio alla fine che la stirpe degli Atridi, «κεκόλληται γένος πρὸς ἄτᾳ, questa stirpe è legata con le catene di Ate» (v. 1566) e che pertanto tutto accadrà di ciò che deve accadere: infanticidio, matricidio, vendetta, giustizia. Nulla sfugge all’occhio gorgogliante di Erinni.

[Aggiungo queste poche parole stimolate dall’Agamennone di Livermore a quelle che la lettura del testo mi indusse a pensare: Distruzione a distruzione]

Distruzione a distruzione

La colpa canta, sussurra, grida, latra, decide, in una vicenda che è il trionfo di Erinni. Una «πρώταρχον ἄτην; colpa originaria»1 generata molto tempo prima, quando Atreo imbandì al fratello Tieste la carne dei suoi figli, per vendicarsi dell’adulterio di costui con la propria moglie. La maledizione di Tieste all’accorgersi del fiero pasto scende adesso sull’intera stirpe, sull’intera «casa imbrattata di sangue; αἵματι δ᾽ οἶκος ἐφύρθη» (v. 732; p. 442).
Il figlio di Atreo, Agamennone, ha dovuto sacrificare ad Artemide la propria figlia Ifigenia. Un evento che lungo i dieci anni di guerra sotto Ilio ha trasformato Clitemnestra in una macchina di vendetta. Quando il marito torna ad Argo, lei lo accoglie come un sovrano assoluto, un re dell’Oriente, facendolo entrare nella reggia su tappeti di porpora e preparandogli il bagno. Ma nella vasca lo colpisce tre volte. Non è lei sola che lo uccide – proclama – ma è Ἄτη, la signora degli umani, colei che porta distruzione, follia, azioni irreparabili ed estreme. Clitemnestra è diventata Ate, è diventata l’Erinni, e lo sa.
Al di sopra degli antichi Titani, al di là dello stesso Zeus e dei suoi fratelli che dominano il mare e la terra, i veri signori del mondo hanno nome Ἐρινύες, Mῆνις, Ἄτη, Μοῖραι, Ἀνάγκη. Sono queste le forze che involvono distruzione a distruzione; che trasformano le vite, gli imperi, le passioni umane; che gorgogliano dalla materia e non lasciano scampo al suo stare, al permanere, alla fissità dell’istante, del potere, della gioia e del dolore. Il vero signore del cosmo è Χρόνος, il divenire infinito, che assume le sembianze narrative e mitologiche di Κρόνος, figlio del Cielo e della Terra, padre di Zeus.
C’è qui una sapienza antropologica stupefacente e sicura. C’è la lucida e dolorosa consapevolezza che  tutti gli enti sono frammenti del tempo e del suo destino, sono espressione della necessità e delle sue forme, sono il frutto effimero e cangiante dell’intero.
«Πάθει μάθος; con il dolore si impara» (v. 177; p. 406). Che cosa si impara con il dolore? Si apprende quello che l’ambiguo Apollo, il Λοξίας, fa anche in questa tragedia:  «παιᾶνα τόνδ᾽ Ἐρινύων; un peana alle Erinni» (v. 645; p. 438), in questo caso elevato per bocca di Ares, un altro dio della distruzione infinita. In Apollo, davvero, «una pericolosa combinazione di salvezza-distruzione connette il canto salvifico con gli dèi della morte» (Monica Centanni, p. 989). Quegli dèi che vincono sempre poiché ««noi non possiamo fare a meno di cercare una conciliazione tra l’intelligibilità e il tempo, pur sapendo che prima che si riesca a darne ragione, sarà esso, per gioco, ad avere ragione di noi»2.
Anche per questo «τὰ δ᾽ αὖτε κἀπίμομφα τίς δὲ πλὴν θεῶν / ἅπαντ᾽ ἀπήμων τὸν δι᾽ αἰῶνος χρόνον; chi, a parte gli dèi, è immune dal dolore per tutto il tempo della sua vita?» (vv. 553-554; p. 433).
L’animale umano cerca, inventa, vive le soluzioni più diverse al frutto di Ἀνάγκη, al dolore d’esserci e alle sue molteplici manifestazioni: l’abbandono, la nostalgia, l’esilio, la violenza, l’inganno. Il Coro di Agamennone accenna a una delle soluzioni più intime e più profonde: «πάλαι τὸ σιγᾶν φάρμακον βλάβης ἔχω; da tempo ho trovato nel silenzio un rimedio al dolore» (v. 548; p. 430).
Le passioni sono ragione di esaltazione e di pianto. La passione fondamentale è ἔρως, è per gli uomini la donna. Elena percorre in modo sottile ma costante questa tragedia. Elena che tradì il fratello di Agamennone, per riportare la quale in Grecia anche Ifigenia dovette morire e poi tanti tanti guerrieri. Elena che nella casa di Menelao e poi in quella di Paride appariva come «ἀκασκαῖον δ᾽ ἄγαλμα πλούτου; una splendida statua divina, muta e preziosa» (v. 741; p. 442), Elena che è «pura epifania della bellezza e della potenza della seduzione, perfettamente amorale e irresponsabile delle sue azioni» (Centanni, p. 995).
A Elena si contrappone sua sorella, Clitemnestra dal cuore che non trema, che appare forte e decisa come un maschio, che colpisce per tre volte con gioia Agamennone spingendolo verso l’Ade, che è diventata alla fine Re, proprio Re non Regina. Accanto a lei Egisto sembra «κόμπασον θαρσῶν, ἀλέκτωρ ὥστε θηλείας πέλας; vanitoso, tronfio come un galletto vicino alla sua femmina» (v. 1671; p. 510), disprezzato dal Coro dei vecchi argivi, per i quali si prospetta la tirannide di costui, di un vigliacco, un destino inaccettabile poiché per  i Greci «πεπαιτέρα γὰρ μοῖρα τῆς τυραννίδος; la morte è un destino più dolce della tirannide» (v. 1365; p. 488).
Insieme e al di là di Elena e di Clitemnestra, una terza donna appare come potenza di pensiero, di delirio, di lucidità e di pianto: Cassandra. Questa ragazza è Apollo, è la sua parola, è la sua ironia, è la sua ferocia. Uccisa accanto ad Agamennone, la sua morte diventa richiamo della morte che afferrerà la sua assassina.
In attesa che Δίκη ritorni a sancire altre colpe, è Cassandra a descrivere nel suo intimo e nella sua evidenza la vita del mortali, il loro essere ombre, segni vani, nulla:

ἰὼ βρότεια πράγματ᾽: εὐτυχοῦντα μὲν
σκιά τις ἂν τρέψειεν: εἰ δὲ δυστυχῇ,
βολαῖς ὑγρώσσων σπόγγος ὤλεσεν γραφήν.
καὶ ταῦτ᾽ ἐκείνων μᾶλλον οἰκτίρω πολύ.

«Ah, le vicende dei mortali! Se c’è buona fortuna basta un’ombra a farla svanire! E se la fortuna è cattiva, un colpo di spugna e si cancella il disegno! E tra le due, questa è la sorte che compiango di più» (vv. 1327-1330; p. 484).


Note
1. Eschilo, Agamennone (Ἀγαμέμνων, 459 a.e.v.), verso 1192, p. 474, in Le tragedie, traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori 20133, pagine LXXXII-1245. Le successive citazioni saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti dal numero di pagina dell’edizione Meridiani.
2. K. Pomian, «Tempo /Temporalità», in Enciclopedia Einaudi, vol. XIV, Einaudi 1981, p. 94.

Il sangue / la luce

Architetture, sculture -e non soltanto parole- sono i versi di Eschilo. Nell’Orestea essi delineano un’ipotesi mitica, e quindi reale, sull’origine della città umana. Origine dal sangue, nel duplice senso del legame e del delitto. Le forze indicibili protagoniste della trilogia -le Erinni- perseguitano infatti non coloro che hanno ucciso e basta ma coloro che hanno ucciso i consanguinei. Per questo non toccano Clitennestra -Agamennone era soltanto suo marito- e perseguitano invece Oreste, il figlio che vendicando il padre l’ha uccisa.
Le Erinni sono «mákares chtónioi», potenze ctonie, figlie della Notte e germinate dalla terra (Coefore, v. 476; le opere sono citate nella traduzione di Ezio Savino, Orestea, Garzanti 2009). Sono le antichissime, che dominavano il mondo già prima di Zeus. Sono le stanghe del fato alle quali gli umani sono aggiogati e che Cassandra -unita ad Agamennone dallo stesso destino di morte- può vedere ma non distogliere da sé. A questa impresa, deviare e trasformare la volontà della Notte che avvolge gli umani, possono aspirare soltanto Apollo e Atena, giovani divinità della luce. L’occasione per farlo è il destino di Oreste, la sua azione di matricida voluta da Apollo e difesa da Atena. Le due divinità sono ben consapevoli delle entità che hanno sfidato. Così, infatti, le descrive Apollo rivolto a Oreste: «Guarda le creature rabbiose: eccole vinte! Crollate nel sonno: vergini -sputi, nient’altro per loro- decrepite figlie dei secoli. Nessuno ama toccarle in eterno: né celeste, né umano, né bestia selvaggia. Tormento, ecco la radice del loro esistere, per questo la dimora assegnata è il tormento del buio, il Tartaro fondo d’abisso. Incarnano il disgusto del mondo e dei numi, su nell’Olimpo» (Eumenidi, 64-73).
Esse, per loro stessa ammissione, perseguitano l’assassino sino a condurlo «dove non c’è neppure parola per dire: sono felice» (Ivi, 423). E che cosa questo significhi è ben spiegato nelle parole con le quali angosciano Oreste: «Così ti macero vivo, ti strascino sotterra / dove ripaghi soffrendo / lo strazio della madre sgozzata» (Ivi, 267-268).
Atena sa che enorme è la loro influenza sulle cose e sugli eventi, che esse sono e rimangono sovrane, qualunque cosa accada: «nel mondo umano esse destinano tutto, con chiara esattezza. Assegnano a uno canti di gioia, a un altro una vita opaca di pianto» (Ivi, 952-955). E dopo averle finalmente persuase a trasformare in benedizione la loro funesta e implacabile furia, la dea giustamente si gloria.
I Greci, che tutto questo hanno pensato, sanno che nell’uomo -nel suo sangue- dorme e parla una «fame implacabile di felicità» (Agamennone, 1331-1332), la quale si scontra istante dopo istante non soltanto con la follia umana ma anche e soprattutto con l’angoscia che ai mortali sembra essere stata fornita quale dote alla nascita. Essa rende instabile ogni serenità e offre, senza che nessuno la assoldi, come scorta lo strazio. Perché? Per quale colpa o caduta? Per quale decisione? Molto più a fondo rispetto al mito monoteistico, per i Greci la colpa ha poco a che fare con i comportamenti; non riguarda l’agire ma l’essere. È colpa ontologica, non etica. «Quale uomo, che sappia la storia, / può dire di essere nato / all’ombra di un destino innocente?» (Ivi, 1341-1342).
È per infrangere, per tentare di farlo, l’ancestrale catena di colpa e di pena che le divinità del pensiero e della luce diventano divinità politiche fondanti il diritto e con esso la città. Il carattere anche e totalmente politico dell’Orestea intesse l’intera vicenda della casa d’Argo. Nel passaggio da Delfi ad Atene, dalle Erinni alle Eumenidi, non viene dunque smarrito uno dei fondamenti antropologici del mondo greco: la miseria dell’umano di fronte alle potenze del mondo e alla potenza che esso stesso è.
Infine, alla fine e all’inizio di tutto, l’elemento pagano scorre puro in questi versi. Scorre nella molteplicità degli dèi, la quale fa sì che nessuno di essi sia onnipotente, che tutti siano costretti a dialogare tra loro e a sottoporsi a giudizio. Persino Apollo. E scorre nel dialogo fra Elettra e il suo coro. All’interrogativo della ragazza se sia azione degna supplicare gli dèi affinché arrivi qualcuno a dare la morte -«Che preghiera, la mia, agli dèi! Sarà religiosa?»-, il coro risponde, sicuro: «Di compensare chi ti odia col male? Dubiti?» (Coe., 122-123).
«Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo” e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori […] E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt., 5, 43-47). I pagani, appunto.

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