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La Prisonnière

La prigioniera
di Marcel Proust
(La Prisonnière, 1921-22)
Trad. di Paolo Serini
Einaudi, 1978 (1954)
Pagine XVIII – 460

Proust_La PrigionieraIl presentimento di sofferenza con il quale si era chiuso Sodoma e Gomorra si dispiega in una parte dell’affresco proustiano che forse meglio si sarebbe potuta intitolare “Il prigioniero”. Più che Albertine, infatti, è il Narratore a essere recluso nell’insaziabilità del desiderio, nell’illusione dell’amore dato e ricevuto, in una gelosia che quando sembra attenuarsi bastano una parola, un gesto, un’immagine a ricostituire. Tuttavia la dolorosa saggezza che dell’amore è sostanza prepara il Narratore alla rivelazione definitiva –non a caso Albertine viene definita «una grande dea del Tempo» (pag. 398)1 anche attraverso la musica e la letteratura, evocate dal “Settimino” di Vinteuil e dalla morte di Bergotte. È l’arte a farsi espressione dell’identità molteplice, che è capace di «riunire in sé più individualità diverse» (160)2.
La centralità di Albertine nell’itinerario della Recherche consiste nell’essere testimone della inevitabile crudeltà del sentimento amoroso, «come se tra due esseri esistesse fatalmente una certa quantità d’amore disponibile, di cui il troppo preso da uno venga sottratto all’altro» (353)3. Ed è per questo forse che in Sodome et Gomorrhe dell’amore si dice che è un «sentimento (qualunque ne sia la causa) sempre erroneo» (Einaudi 1978, p. 214)4. Il fatto è che Albertine «mi poteva procurare soltanto sofferenza, non mai gioia. E solo la sofferenza manteneva in vita il mio fastidioso attaccamento» (23)5.
L’impossibilità di conoscere e possedere l’Altro è un’allegoria –la fisicizzazione quasi- di una più vasta impossibilità, quella della verità, la quale si dissolve nell’intuizione che il mondo è identico per tutti e differente per ciascuno. L’impossibilità dell’amore e della verità fa sì che l’Altro non esista, che egli sia l’inafferrabile e mutevole risultato del cangiante moto dei nostri sentimenti, al di fuori dei quali egli è il niente. L’Altro c’è fino a quando il nostro amore perdura. Sparisce poi in quel nulla dal quale le nostre emozioni lo hanno tratto alla vita. Anche per questo «la vita vera, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita quindi realmente vissuta, è la letteratura» (Il tempo ritrovato, Einaudi 1978, p. 227)6, la vera vita è la parola in grado di dire a noi e agli altri la sostanza del mondo. Ed è per questo che durante la notte funebre dello scrittore Bergotte «i suoi libri disposti a tre a tre vegliarono come angeli dalle ali spiegate e sembravano, per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione» (190)7.

 

Note

1. «une grande déesse du Temps» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 1894)

2. «réunir diverses individualités» (1722)

3. «comme s’il y avait fatalement entre deux être une certaine quantité d’amour disponible, où le trop pris par l’un est retiré à l’autre» (1861)

4. «sentiment qui (quelle qu’en soit la cause) est toujours erroné» (Sodome et GomorrheÀ la recherche du temps perdu, 1358)

5. «était capable de me causer de la souffrance, nullement de la joie. Par la souffrance seule, subsistait mon ennuyeux attachement» (1623)

6. «la vraie vie, la vie enfin découverte et éclaircie, la seule vie par conséquent pleinement vécue, c’est la littérature» (Le temps retrouvéÀ la recherche du temps perdu, 2284)

7. «ses livres, disposé trois par trois, veillaient comme des anges aux ailes éployées et semblaient pour celui qui n’etait plus, le symbole de sa résurrection» (1623)

 

Sodome et Gomorrhe

Sodoma e Gomorra
di Marcel Proust
(Sodome et Gomorrhe, 1921-22)
Trad. di Elena Giolitti
Einaudi, 1978 (1949)
Pagine XVII – 631

 

Proust-Sodoma_e_GomorraDalla lucida descrizione della “stirpe” di Sodoma e Gomorra alla sofferenza di vederne discendere Albertine, si compie la fase di vita del Narratore prima della drammatica rivelazione che muterà  la sua esistenza. Dentro questo tempo la mondanità si rivela sempre più superficiale e insulsa decadendo, tra l’altro, dai Guermantes di Parigi alla «setta» dei Verdurin alla Raspelière.
Se la protagonista dei timori del Narratore è Albertine, dall’altro lato della stirpe maledetta trionfa nel suo fascino complesso e profondo la figura del Barone di Charlus, il capolavoro di Proust, una scultura fatta di intelligenza e di lussuria, di smisurato orgoglio e di affettuosa umiltà, di malvagità e di cortesia.
Il Desiderio mostra come l’Altro sia sempre un essere di fuga, poiché il destino di chi ama è «quello d’inseguire solo fantasmi, esseri la cui realtà per buona parte dimorava nella mia fantasia; vi sono infatti esseri [che] rinunciano a tutto il resto, mettono tutto in opera, si servono d’ogni cosa per incontrare un fantasma»1, desiderio che è parte e forma della potenza stessa della Natura, dell’energia eternamente ritornante del «querulo avo della terra», il mare, «che proseguiva ancora, come nel tempo in cui non esistevano esseri viventi, il suo demente e immemore tumulto»2 (pag. 439).
Il quarto volume della Recherche si chiude con il presentimento tragico e fatale di inaudite sofferenze future ma anche con la percezione di una nuova vita, che sarà dedicata all’Adoration perpétuelle, al Tempo. Il giorno in cui ha scoperto l’omosessualità e quindi la distanza della sua donna, precipitato nel gorgo della peggiore forma di gelosia, quella retrospettiva, il Narratore scrive:

Com’è ingannevole il senso della vista! Un corpo umano, anche amato, com’era quello di Albertine, ci sembra, a pochi metri, a pochi centimetri di distanza, lontano da noi. Ed egualmente l’anima che gli appartiene […]. Mai non avevo veduto cominciare una mattina così bella, né così dolorosa. Pensando a tutti i paesaggi indifferenti che si sarebbero illuminati tra poco, e che il giorno prima ancora non mi avrebbero colmato che del desiderio di visitarli, non potei trattenere un singhiozzo quando, in un gesto d’offertorio meccanicamente compiuto e che mi parve simboleggiare il sacrificio sanguinante ch’io stesso stavo per fare d’ogni gioia, ogni mattina, fino al termine della mia vita, rinnovellamento celebrato solennemente ad ogni aurora del mio dolore quotidiano e del sangue della mia piaga, l’uovo d’oro del sole, come propulsato dalla rottura d’equilibrio determinata al momento della coagulazione da un cambiamento di densità, dentato di fiamme come nei quadri, squarciò d’un balzo la cortina dietro la quale lo si sentiva, da un minuto, fremente e pronto ad entrare in scena e a slanciarsi avanti, e di cui si dissolse sotto fiotti di luce la porpora misteriosa e rappresa.3 (561-562)

È qui, nel nucleo geometrico dell’opera, che Proust disvela in modo impareggiabile ed esatto l’essenza dell’amore, la struttura del desiderio, la natura sacra e ironica delle passioni, l’illusione suprema che ci spinge verso l’Altro:

Del resto, le amanti che più ho amate non hanno mai coinciso con il mio amore per loro. […] Quando le vedevo, quando le udivo, non trovavo nulla in loro che somigliasse al mio amore e potesse spiegarlo. Eppure, la mia sola gioia era di vederle, la mia sola ansia di aspettarle. […] Sono incline a credere che in questi amori (lascio in disparte il piacere fisico che d’altronde s’unisce abitualmente a essi ma non basta a costituirli), sotto l’apparenza della donna, ci rivolgiamo in realtà alle forze invisibili accessoriamente unite a lei, come a oscure divinità. È la loro benevolenza a esserci necessaria, è il loro contatto quello che cerchiamo, senza trovarvi nessun piacere vero. 4 (560-561)

In ogni caso l’amore è «un sentimento che (qualunque ne sia la causa) è sempre erroneo».5 (214)


Note

1.«de ne poursuivre que des fantômes, des êtres dont la réalité pour une bonne part était dans mon imagination»» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 1517)

2. «plaintive aïeule de la terre, poursuivante comme au temps qu’il n’existait pas encore d’êtres vivants sa démente et immémoriale agitation» (Ivi)

3. «Comme la vue est un sense trompeur! Un corps humain, même aimé comme était celui d’Albertine, nous semble à quelques mètres, à quelques centimètres distant de nous. Et l’âme qui est à lui de même. […] Je n’avais jamais vu commencer une matinée si belle ni si douloureuse. En pensant à tous les paysages indifférents qui allaient s’illuminer et qui la veille encore ne m’eussent rempli que du désir de les visiter, je ne pus retenir un sanglot quand, dans un geste d’offertoire mécaniquement accompli et qui me parut symboliser le sanglant sacrifice que j’allais avoir à faire de toute joie, chaque matin, jusqu’à la fin de ma vie, renouvellement solennellemente célébré à chaque aurore de mon chagrin quotidien et du sang de ma plaie, l’œuf d’or du soleil, comme propulsé par la rupture d’équilibre qu’amènerait au moment de la coagulation un changement de densité, barbelé de flammes comme dans le tableaux, creva d’un bond le rideau derrière lequel on le sentait depuis un moment frémissant et prêt à entrer en scène et à s’elancer, et dont il effaça sous des flots de lumière la pourpre mystérieuse er figée» (1602-1603)

4. «J’incline même à croire que dans ces amours (je mets de côté le plaisir physique qui les accompagne d’ailleurs habituellement, mais ne suffit pas à les constituer), sous l’apparence de la femme, c’est à ces forces invisible dont elle est accessoirement accompagnée que nous nous adressons comme à d’obscures divinités. C’est elles dont la bienveillance nous est nécessaire, dont nous recherchons le contact sans y trouver de plaisir positif» (1602)

5. «L’amour, sentiment qui (quelle qu’en soit la cause) est toujours erroné» (1358)

 

Le côté de Guermantes

I Guermantes
di Marcel Proust
(Le côté de Guermantes, 1920-21)
Trad. di Mario Bonfantini
Einaudi, 1978 (1949)
Pagine XVII – 686

Nella Recherche il mondo aristocratico è vissuto dapprima nella esaltazione poetica di antichi nomi, di storie nascoste, di mitologiche origini, di sogni e vite inarrivabili. Poi viene penetrato dal calmo e implacabile disincanto del Narratore: «Così l’aristocrazia, in quella sua costruzione pesante, dalle rade finestre che lasciano entrar poca luce, mostra la stessa mancanza di slancio, ma anche la stessa potenza cieca e massiccia, dell’architettura romanica: rinchiude tutta la storia, la mura in sé, la mortifica» (pag. 581) 1 . Il duca di Guermantes, «uomo di gentilezza commovente e di durezza ripugnante, schiavo dei più piccoli obblighi mondani e indifferente ai più sacri doveri morali» (473) 2, dà molta più importanza a una serata in società che alla malattia e alla morte dei suoi amici.
Anche il barone di Charlus –il personaggio più riuscito dell’Opera, una scultura- nonostante il suo «immenso orgoglio» (603) 3 vive un bisogno struggente degli altri, dello stare con loro, «aveva l’aria di temere il momento in cui l’avrei lasciato solo: quella sorta di timore un po’ ansioso cui la sua cognata e cugina Guermantes m’era sembrata in preda un’ora prima, quando aveva voluto obbligarmi a restare ancora un po’, quasi con la stessa passeggera inclinazione per me, con lo stesso sforzo per far durare di più l’attimo» (606) 4. E la duchessa Oriane de Guermantes, la “dea” dall’esistenza misteriosa e inaccessibile, è oggetto di una parabola che parte dalla devota ammirazione e dall’amore del Narratore e giunge a una limpida condanna: «Fui disgustato dalla vera malvagità della signora di Guermantes» (556) 5. Questi individui vengono descritti come un bestiario favoloso e variegato dentro il quale spira gelido il vento della menzogna e, infine, della delusione più fonda: «Per risvegliare la mia vita interiore durante quelle ore mondane, in cui io abitavo la mia epidermide […] quanto dire che ero incapace di provare ciò che era per me il vero piacere della vita» 6 (570).
Molto altro si legge nei Guermantes. L’identità tra l’amare e il soffrire, la fecondità dei superamenti, la pervasività del sentimento, la totalità della mente, che è in qualche modo l’intero: «Gli sciocchi si immaginano che le vaste dimensioni dei fenomeni sociali siano un’ottima occasione per penetrare più addentro nell’animo umano: dovrebbero invece comprendere che solo discendendo in profondità nell’interno di un individuo abbiamo qualche probabilità di capire la natura di quei fenomeni» (357) 7.
E, infine e come sempre nell’Opera, la bellezza, la bellezza assoluta di una sera veneziana dipinta come solo un Signore della parola –quale è Proust- sa fare: «Così più tardi a Venezia, molto dopo il tramonto del sole, quando sembra che sia notte completa, vidi, grazie all’eco in sé invisibile d’una ultima nota di luce indefinitamente tenuta sui canali come per effetto di qualche pedale ottico, il riflesso dei palazzi stampato come per sempre in un velluto più nero, sul grigio crepuscolare delle acque» (154) 8.

Note

1.«Telle l’aristocratie en sa construction lourde, percée de rares fenêtres, laissante entrer peu de jour, montrant le même manque d’envolée, mais aussi la même puissance massive et aveuglée que l’architecture romane, enferme toute l’histoire, l’emmure, la renfrogne» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 1158)

2. «homme attendrissant de gentillesse et révoltant de dureté, esclave des plus petites obligations et délié des pactes les plus sacrés» (1082)

3. «immense orgueil» (1173)

4. «Il avait même l’air de redouter l’instant de me quitter et de se retrouver seul, cette espèce de crainte un peu anxieuse que sa belle-sœur et cousine Guermantes m’avait paru éprouver, il y avait une heure, quand elle avait voulu me forcer à rester encore un peu, avec une espèce de même goût passager pour moi, de même effort pour faire prolonger une minute» (1175-1176)

5. «Mais ce fut par la véritable méchanceté de Mme de Guermantes que je fus révolté» (1141)

6. «Pour que ma vie intérieure pût se réveiller durant ces heures mondaines où j’habitais mon épiderme […] c’est-à-dire où je ne pouvais rien éprouver de ce qui était pour moi, dans la vie, le plaisir» (1150)

7. «Les niais s’imaginent que les grosses dimensions des phénomènes sociaux sont une excellente occasion de pénétrer plus avant dans l’âme humaine; ils devraient au contraire comprendre que c’est en descendant en profondeur dans une individualité qu’ils auraient chance de comprendre ces phénomenès» (1002)

8. «Ainsi plus tard, à Venise, bien après le coucher du soleil, quand il semble qu’il fasse tout à fait nuit, j’ai vu, grâce à l’écho invisible pourtant d’une dernière note de lumière indéfiniment tenue sur les canaux comme par l’effet de quelque pédale optique, les reflets des palais déroulés comme à tout jamais en velours plus noir sur les gris crépusculaire des eaux» (857)

Diversa, diffusa, molteplice

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Un amore di Swann
di Marcel Proust
Traduzione di Giovanni Raboni
Drammaturgia di Sandro Lombardi
Con: Sandro Lombardi (Charles Swann), Elena Ghiaurov (Odette de Crécy), Iaia Forte (Madame Verdurin)
Regia di Federico Tiezzi
Sino al 19 maggio 2013

La volgarità è uno dei temi della Recherche du temps perdu.
Volgarità dei salotti, di una società che vive di snobismo, di pettegolezzi, di meschinità elevate al rango di significati. Madame Verdurin ne costituisce l’emblema. Charles Swann la descrive come un uccello le cui piume sono state bagnate nel vino caldo. Questa donna spregevole articola con i suoni appunto di un uccello il proprio odio per tutto ciò che non riesce a comprendere e che la supera.
Volgarità della seduzione. Della finzione d’amore volta soltanto al dominio sull’altro. Di dolci parole vibrate come pietre a colpire il cuore di chi le ascolta. E sottometterlo. Per poi -una volta ottenuto l’obiettivo di farsi sposare o mantenere- volgere la seduzione in insulto, tradimento, ironia. Odette de Crécy -prostituta d’alto bordo, ignorantella e fasulla- conquista in questo modo il tempo e il rango di Charles Swann.
Volgarità del desiderio. Che non si accorge di come stiano arrivando tempeste di sabbia nella vita, onde di polvere, a intasare la lucidità dei neuroni e la calma dei sentimenti. Charles Swann in verità se ne accorge, tanto da rispondere ai primi gesti seduttivi di Odette dicendole che non vuole conoscerla meglio “per non diventare infelice”. Ma cede poi alla menzogna di una donna della quale, molti anni dopo, dirà «j’ai gâché des années de ma vie, j’ai voulu mourir, j’ai eu mon plus grand amour, pour une femme qui ne me plaisait pas, qui n’était pas mon genre!» (À la recherche du temps perdu, “Du côté de chez Swann”, Gallimard 1999, p. 305).
I tre attori che danno vita a questa fenomenologia della ferocia alternano la voce del Narratore con quella dei personaggi, riuscendo in tal modo a trasmettere almeno un’idea della magnifica ricchezza del testo proustiano. Esso ci mostra che L’Altro è un pericolo, l’Altro è un concorrente, l’Altro è un fastidio, l’Altro è anche “l’enfer” (Sartre) ma questa differenza dell’Altro è così drammatica perché l’Altro è la nostra identità, l’Altro siamo noi. L’alterità è costitutiva della vita mentale. Un’alterità che nella vita amorosa diventa  identità. Il soggetto amoroso è un soggetto nichilistico in quanto vorrebbe eliminare la differenza duale a favore dell’identità unica. Ma l’altro rimane irriducibile. È altro perché non è io, è un io che non è me e che non potrà mai diventare me come io non potrò diventare lui. Se lo diventassi, lo annullerei. Se lo diventassimo, ci annulleremmo come alterità. Se infatti l’Altro fosse raggiunto, esso sarebbe negato in quanto Altro. Anche per questo, dato che la ripetizione amorosa è una ripetizione seriale (Deleuze), l’innamorato è un serial killer che opera in base ai due principi della ripetizione e della differenza.
Insignificanza, volgarità, nullità costituiscono la condizione naturale dell’Altro. È soltanto il desiderio di possedere il suo corpotempo -fatto di eventi e di memorie, assai più che il corpo fatto di organi e tessuti- a trasfigurare l’oggetto amoroso nella favolosa e asintotica meta della nostra passione. L’oggetto amoroso è dunque un segno. Un segno dell’intero al quale vogliamo pervenire, là dove la scissione tra il tempo che siamo e il tempo che è possa finalmente annullarsi nella totalità. «Di per sé lei è meno di niente, ma nel suo essere niente c’è, attiva, misteriosa e  invisibile, una corrente che lo costringe a inginocchiarsi e ad adorare una oscura e implacabile Dea, e a fare sacrificio davanti a lei. E la Dea che esige questo sacrificio e questa umiliazione, la cui unica condizione di patrocinio è la corruttibilità, e nella cui fede e adorazione è nata tutta l’umanità, è la Dea del Tempo» (Beckett, Proust, SE 2004, p. 41).
La dea del tempo innamorato è una sorta di Madonna del Desiderio. Appare con volti diversi, abita istanti diffusi, occupa luoghi molteplici. Swann la incontra sotto le specie di una cortigiana bella e feroce. È per Swann e tramite Swann che Odette assume la figura di una Dea sotto il cui incedere “si volgono i mondi”: «Tout d’un coup, sur la sable de l’allée, tardive, alentie et luxuriant comme la plus belle fleur et qui ne s’ouvrirait qu’à midi, Mme Swann apparaissait. […] Or, autant que du faîte de sa noble richesse, c’était du comble glorieux de son été mûr et si savoureux encore, que Mme Swann, majestueuse, souriant et bonne, s’avançant dans l’avenue du Bois, voyait comme Hypatie, sous la lente marche de ses pieds, rouler les mondes» (À la recherche du temps perdu, “À l’ombre des jeunes filles en fleurs”, Gallimard 1999, pp. 503 e 506).

 

À l’ombre des jeunes filles en fleurs

All’ombra delle fanciulle in fiore
di Marcel Proust
(À l’ombre des jeunes filles en fleurs, 1919)
Trad. di Franco Calamandrei e Nicoletta Neri
Einaudi, 1978 (1949)
Pagine XX- 604

L’adolescenza, «quell’adolescenza che –come scrive Proust in una variante- pur restringendosi, riducendosi ad un esile filo d’acqua spesso asciutto, si prolunga tuttavia talvolta per tutto il corso della vita» (pag. 563), è uno dei temi che percorre il secondo volume della Recherche.
Il Narratore adolescente si introduce alla vita di società, ai salotti mondani, ai “bagni di mare”, ai primi amori, alla solitudine profonda della sua natura, una solitudine tanto naturale quanto necessaria:

Nello stare in sua compagnia, nel conversare con lui non provavo –e, certo, sarebbe stato lo stesso con chiunque altro- nulla di quella felicità che mi era invece possibile raggiungere quando ero senza compagno (336) 1

Ma, in mancanza di una compagnia sopportabile, [Elstir] viveva nell’isolamento, con una selvatichezza che le persone della società chiamavano posa e cattiva educazione, i poteri pubblici spirito di contraddizione, i suoi vicini follia, la sua famiglia egoismo ed orgoglio (431) 2

Noi non siamo simili a costruzioni cui si possano aggiungere pietre dall’esterno, ma a piante che traggono dalla loro propria linfa il nodo successivo del loro fusto, il piano superiore del loro fogliame (512) 3

E, sempre a proposito del pittore Elstir, «la pratica della solitudine gliene aveva dato l’amore» (431) 4 . Anche l’apertura al mondo misterioso, dolce e terribile dei sentimenti è pervasa di un profondo costruzionismo gnoseologico ed esistenziale: «Quell’Albertine era soltanto una sagoma; tutto quel che vi si era sovrapposto era opera mia» (462) 5 ; «Certamente pochi capiscono il carattere puramente soggettivo di quel fenomeno che è l’amore, e com’esso sia una specie di creazione d’una persona supplementare, distinta da quella che porta lo stesso nome in società, una persona di cui la maggior parte degli elementi sono opera nostra» (45) 6

Quando siamo innamorati di una donna proiettiamo semplicemente in lei uno stato della nostra anima; di conseguenza, l’importante non è il valore della donna, ma la profondità dello stato d’animo; e le emozioni che una ragazza mediocre ci dà possono permetterci di far risalire alla nostra coscienza parti più intime di noi stessi, più personali, più lontane, più essenziali, di quanto non farebbe il piacere che ci dà la conversazione di un uomo superiore o anche la contemplazione ammirata delle sue opere (436) 7

Quando si ama, l’amore è troppo grande perché possa trovar posto tutto quanto in noi; s’irradia verso la persona amata, incontra in lei una superficie che lo arresta, lo costringe a tornare verso il punto di partenza, e questo rimbalzo della nostra stessa tenerezza noi lo chiamiamo i sentimenti dell’altro, lo troviamo tanto più dolce di quanto fosse all’andata, perché non sappiamo che proviene da noi (196) 8

In Proust una saggezza immensa svela gli enigmi, le meschinità, lo splendore della società umana, i suoi meccanismi più nascosti, i dolori e le speranze più potenti.
E mentre Odette de Crécy, ormai diventata Madame Swann, così incede nello spazio della pagina e del mondo: «Non meno che dall’apice della sua nobile ricchezza, era dal glorioso colmo della sua estate matura ed ancora così saporita che la signora Swann, maestosa, sorridente e buona, inoltrandosi lungo l’avenue del Bois, vedeva, come Ipazia, sotto il lento incedere dei suoi piedi, volgersi i mondi» (229) 9,  “la petit brigade des jeunes filles en fleurs” sboccia di una vita indeterminata e collettiva, voluttuosa e sorridente, sensuale e candida.

Note

1. «Je n’éprouvais à me trouver, à causer avec lui -et sans doute c’eût été de même avec tout autre- rien de ce bonheur qu’il m’était au contraire possible de ressentir quand j’étais sans compagnon» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 582).

2. «Mais faute d’une société supportable, il vivait dans un isolement, avec une sauvagerie que les gens du monde appellaient de la pose et de la mauvaise éducation, les pouvoirs publics un mauvais esprit, ses voisins de la folie, sa famille de l’égoïsme et de l’orgueil» (p. 651).

3. «Nous ne sommes pas comme des bâtiments â qui on peut ajouter des pierres du dehors, mais comme des arbres qui tirent de leur propre sève le nœud suivant de leur tige, l’étage supérieur de leur frondaison» (p. 710).

4. «La pratique de la solitude lui en avait donné l’amour» (p. 651)

5. «Cette Albertine-là n’était guère qu’une silhouette, tout ce qui s’y était superposé était de mon cru» (p. 674)

6. «Sans doute peu de personnes comprennent le caractère purement subjectif du phénomène qu’est l’amour, et la sort de création que c’est d’une personne supplémentaire, distincte de celle qui porte le même nom dans le monde, et dont la plupart des élements sont tirés de nous-même» (p. 375)

7. «Je m’étais mieux rendu compte depuis, qu’en étant amoureux d’une femme nous projetons simplement en elle un état de notre âme; que par conséquent l’important n’est pas la valeur de la femme mais la profondeur de l’état; et que les émotions qu’une jeune fille médiocre nous donne peuvent nous permettre de faire monter à notre conscience des parties plus intimes de nous-même, plus personelles, plus lointaines, plus essentielles, que ne ferait le plaisir que nous donne la conversation d’un hommes supérieur ou même la contemplation admirative de ses œuvres» (p. 655).

8. «Quand on aime, l’amour est trop grand pour pouvoir être contenu tout entier en nous; il irradie vers la personne aimée, rencontre en elle une surface qui l’arrête, le force à revenir vers son point de départ et c’est ce choc en retour de notre propre tendresse que nous appelons les sentiments de l’autre et qui nous charme plus qu’à l’aller, parce que nous ne reconnaissons pas qu’elle vient de nous» (pp. 482-483).

9. «Or, autant que du faîte de sa noble richesse, c’était du comble glorieux de son été mûr et si savoureux encore, que Mme Swann, majestueuse, souriant et bonne, s’avançant dans l’avenue du Bois, voyait comme Hypatie, sous la lente marche de ses pieds, rouler les mondes» (p. 506).

Du côté de chez Swann

La strada di Swann
di Marcel Proust
(Du côté de chez Swann, 1913)
Trad. di Natalia Ginzburg
Einaudi, 1978 (1964)
Pagine LXXIX- 491

Il massiccio edificio del reale si sgretola nella luce di una prosa, di un linguaggio, di un ritmo narrativo che è aurora e insieme è l’imbrunire. Ricchezza sempre eguale e sempre nuova di paesaggi, sfumature, ombre, amori, infanzie, viaggi. L’affresco di un’aristocrazia che è tale non soltanto per il ceto. Dipinti, scritti, sonate che diventano il tessuto dei giorni. La passione di Charles Swann per Odette de Crécy come archetipo di ogni innamorarsi.

Gli esseri ci sono di consueto così indifferenti che, quando collochiamo in uno di essi simili possibilità di sofferenza e di gioia, esso ci sembra appartenere a un altro universo, si aureola di poesia, fa della nostra vita come una commovente distesa in cui sarà più o meno vicino a noi. (p. 251)
[Les êtres nous sont d’habitude si indifférents que, quand nous avons mis dans l’un d’eux de telles possibilités de souffrance et de joie pour nous, il nous semble appartenir à un autre univers, il s’entoure de poésie, il fait de notre vie comme un étendue émouvante où il sera plus ou moins rapproché de nous. (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 194) ]

Innamorarsi significa vivere una meraviglia e un incanto senza pari, che hanno poco a che fare con la natura reale dell’Altro. Reale? Tutto avviene nella mente e quindi tutto è in qualche modo vero. È ben poco esperto di umanità chi, come la signora di Saint-Euverte, compatisce Swann -uomo molto intelligente- per essere tanto preso da «una persona di quel genere e che non è nemmeno interessante, poiché dicono sia idiota, -soggiunse con la saggezza di chi non è innamorato, che pensa che un uomo d’ingegno non dovrebbe essere infelice se non per una persona che ne mettesse conto; all’incirca è come stupire che ci si degni di soffrire del colera per opera d’un essere così piccolo come il bacillo virgola» (p. 363) [« “Je trouve ridicule au fond qu’un homme de son intelligence souffre pour une personne de ce genre et qui n’est même pas intéressante, car on la dit idiote”, ajouta-t-elle avec la sagesse des gens non amoureux qui trouvent qu’un homme d’esprit ne devrait être malheureux que pour une personne qui en valût la peine; c’est à peu près comme s’étonner qu’on daigne souffrir du choléra par le fait d’un être aussi petit que le bacille virgule» (Gallimard, pp. 275-276) ]

Germinazione, nascita, declino di vite e di storie, di eventi e di sogni, in uno sforzo immane di evocazione che ricrea il mondo. La Recherche, questa grande fenomenologia della vita, ha il suo nucleo pulsante nella dinamica di identità e differenza tra il passato e il presente, fra ciò che non è più e ciò che rimane ancora poiché tutto in realtà accade dentro di noi. Un umano è vivo sino a che altri restituiscono linfa alla sua persona, la linfa potente del ricordo.

Mi sembra molto ragionevole la credenza celtica secondo cui le anime di quelli che abbiamo perduto son prigioniere entro qualche essere inferiore, una bestia, un vegetale, una cosa inanimata, perdute di fatto per noi fino al giorno, che per molti non giunge mai, che ci troviamo a passare accanto all’albero, che veniamo in possesso dell’oggetto che le tiene prigioniere. Esse trasaliscono allora, ci chiamano e non appena le abbiamo riconosciute, l’incanto è rotto. Liberate da noi, hanno vinto la morte e ritornano a vivere con noi. (p. 49)
[Je trouve très raisonnable la croyance celtique que les âmes de ceux que nous avons perdus sont captives dans quelque être inférieur, dans une bête, un végétal, une chose inanimée, perdues en effet pour nous jusqu’au jour, qui pour beaucoup ne vient jamais, où nous nous trouvons passer près de l’arbre, entrer en possession de l’objet qui est leur prison. Alors elles tressaillent, nous appellent, et sitôt que nous les avons reconnues, l’enchantement est brisé. Délivrées par nous, elles ont vaincu la mort et reviennent vivre avec nous. (Gallimard, p. 44) ]

La memoria, immensa, ricostruisce la vita, la parola, il senso enigmatico della favola umana, in una fisicità intrisa di luce:

Ma, quando niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo. (p. 52)
[Mais, quand d’un passé ancien rien ne subsiste, après la mort des êtres, après la destruction des choses, seules, plus frêles mais plus vivaces, plus immatérielles, plus persistantes, plus fidèles, l’odeur et la saveur restent encore longtemps, comme des âmes, à se rappeler, à attendre, à espérer, sur la ruine de toute le reste, à porter sans fléchir, sur leur gouttelette presque impalpable, l’édifice immense du souvenir. (Gallimard, p. 46) ]

La realtà non è il pratico e banale susseguirsi di istanti smarriti nel momento stesso in cui la vita fugge. La realtà è la scrittura che nell’infinito intrattenimento della memoria fonda l’esistere e il suo significato.

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