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Mattarella

È raro leggere in poche righe un tale concentrato di affermazioni  lontane dalla realtà.
La prima di queste affermazioni è che una Costituzione giuridico-politica, una norma, una legge scritta possa avere come obiettivo «superare ed espellere» un sentimento, che si tratti dell’odio o di qualunque altra passione umana. Un decreto, di qualunque genere, può imporre o può proibire un agire e non un sentire che afferisce alla sfera interiore, psichica, esistenziale, che siano sentimenti individuali o impulsi collettivi. Ma non ci troviamo soltanto di fronte a un banale errore categoriale. Si tratta di una affermazione pericolosa. Sono esistite infatti nella storia del Novecento delle formazioni politiche e dei regimi che si sono posti l’obiettivo di suscitare o di proibire sentimenti e non soltanto comportamenti nei loro cittadini. Questi regimi sono il fascismo, il nazionalsocialismo, il regime sovietico sotto Stalin.
L’ambito della politica è e deve rimanere distinto da quello dei moti interiori. Gli stati, i governi e i tribunali devono rimanere separati dall’animo umano, pena la dissoluzione di ogni libertà personale e pubblica. La descrizione più esplicita di una simile distopia è 1984. Gli scopi del Partito sono infatti ancora più radicali di qualsiasi passata Inquisizione, di qualsiasi regime autoritario, poiché il Partito vuole l’anima di chi cerca di resistergli e non elimina il ribelle sino a che questi non sia totalmente e sinceramente convinto della propria colpa e non provi autentico amore per il Grande Fratello. A questo, infatti, sarà condotto il dissidente Winston in un finale tanto terribile quanto malinconico e chiuso a qualsiasi speranza. Dopo il trattamento subito nelle stanze del Ministero dell’Amore (dell’amore, appunto) Winston «amava il Grande Fratello» (Orwell, 1984, trad. di G. Baldini, Mondadori 1998, p. 312).
Un secondo errore nel discorso di Sergio Mattarella consiste nella visione assolutamente negativa, al limite della demonizzazione, dei conflitti, dei contrasti, delle lotte. Errore aggravato dall’attribuire una simile posizione ai Costituenti, tra i quali un buon numero erano comunisti.
La Costituzione della Repubblica italiana non è nata infatti da un trionfo disneyano di armonia e di sorrisi ma da una sanguinosa guerra civile, che come tutti i conflitti di questa natura vide scatenarsi odio, violenza, vendette reciproche, tripudio dei vincitori e disprezzo per gli sconfitti (su questo tema è sempre da tenere presente Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, di Claudio Pavone, Bollati Boringhieri 1991).
Tra i «contrasti» indicati da Mattarella come negativi uno riguarda le «contrapposizioni ideologiche», senza le quali tuttavia non si ha pace e armonia ma la semplice vittoria di una ideologia che mette a tacere tutte le altre, compresa l’ideologia (radicale e che meriterebbe un’ampia analisi) che guida simili dichiarazioni contro le ‘ideologie’.
L’altro conflitto stigmatizzato da Mattarella sono le «ingannevoli lotte di classe». Qui immagino il tripudio di uditori da sempre anticomunisti come i militanti di Comunione e Liberazione, ai quali tale discorso è stato rivolto. Ma stupisce che un importante esponente politico mostri una simile rozzezza antistorica. Ritengo invece che siano sempre plausibili e rispondenti all’effettivo divenire storico le parole con le quali Marx ed Engels aprono il primo capitolo del Manifesto del partito comunista:

La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente, ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta 
(trad. di E. Cantimori Mezzomonti, Laterza 1981, pp. 54-55).

Infine un’osservazione generale: l’allocuzione di Mattarella è non soltanto inadeguata alla complessità del presente ma è anche e soprattutto logicamente autocontraddittoria, come lo è ogni tipo di affermazione contro l’odio. La sostanza e l’esito di simili dichiarazioni consiste infatti nell’incitare all’odio contro quanti vengono etichettati come «odiatori». Difatti lo stesso oratore invita a «sanzionare severamente» gli odiatori.
Ma stabilire e sanzionare un’affermazione in quanto «incita all’odio» è questione assai delicata. Dove si fermano il dissenso e il disaccordo e dove comincia l’odio? Chi stabilisce il discrimine, il crinale, il momento nel quale dei sentimenti si trasformano? Una commissione? Un supremo censore? Un tribunale? Un gruppo di giornalisti? Le porte si aprono evidentemente all’arbitrio di chi comanda e agli organi che le autorità controllano.
Con la loro stessa censura gli inquisitori aprono all’esclusione, alla punizione, al risentimento verso gli inquisiti. Notavo anche questo in un mio intervento di qualche anno fa intitolato Elogio dell’odio. La storia umana insegna che quando il potere si presenta nelle vesti dell’ultramoralismo il corpo collettivo corre dei gravi pericoli.

Oligarchie

Un càveat, un avviso, la necessità di stare attenti e scrutare con cura il presente.
Apprezzo molto chi lo fa, permettendoci di riflettere ed eventualmente anche di dissentire. E non mi interessano il nome, la qualifica, la posizione politica, le preferenze ideologiche di chi avverte di un rischio che si avvicina. Mi interessa che il rischio sia reale. In questo caso lo è. E dunque consiglio la lettura integrale del breve testo di Roberto Pecchioli uscito su «Ide&Azione» il 13 gennaio 2023. Si intitola Teoria e prassi del collettivismo oligarchico.
Ne trascrivo qui alcuni brani (i link sono aggiunti da me e si riferiscono a pagine di questo sito nelle quali ho discusso di alcuni degli argomenti trattati da Pecchioli).

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Nell’intero corso del tempo sono esistiti al mondo tre tipi di persone: gli Alti, i Medi e i Bassi. Inizia così un libro nel libro, Teoria e prassi del collettivismo oligarchico, inserito da George Orwell nel suo capolavoro, 1984. Il testo è vietatissimo in quanto sarebbe l’opera ideologica di Emmanuel Goldstein, l’arcinemico del partito unico. Tuttavia Goldstein non esiste, è una creazione del potere, quindi Teoria e prassi del collettivismo oligarchico è un falso, una psyop (operazione psicologica) contro il popolo, una modalità per attirare, riconoscere e colpire i dissidenti. Non siamo distanti dal mondo di 1984. Siamo entrati davvero nel triste mondo del collettivismo oligarchico.

Il titolo del primo capitolo di Teoria e prassi del collettivismo oligarchico è “l’ignoranza è forza”, uno dei tre slogan che campeggiano sulla facciata del Ministero della Verità. Niente di più essenziale per il potere: maggiori sono le conoscenze tanto più si è preda di dubbi e contraddizioni.

Chi comanda conosce bene una riflessione di Arthur Schopenhauer: «ciò che il gregge odia di più è chi la pensa diversamente; non è tanto l’opinione in sé, ma l’audacia di pensare da sé, qualcosa che esso non sa fare». Siamo lieti di non avere/essere nulla, purché il Signore getti qualche briciola attraverso vassalli, valvassori e valvassini.

Presto verrà spalancata la finestra di Overton dello stravolgimento delle abitudini alimentari: pancia mia fatti capanna di larve, blatte e farine di insetti. I ragazzi reclameranno la pizza con i grilli e le cavallette. Non solo lo chiede il Grande Fratello con incessante propaganda, ma è per la solita, ottima causa: l’ambiente.

Sì, l’ignoranza è forza, specie se accompagnata da un’impressionante capacità di assorbire come spugne – senza mai porsi domande – tutto ciò che viene propagandato dal potere.

Lezioni di sostenibilità da chi ha ammorbato il mondo e sfruttato sfacciatamente popoli e risorse naturali; richiami di moralità da parte di oligarchie corrotte sino al midollo, nel corpo e nell’anima.

Un monito dell’autore di Arcipelago Gulag: «se ancora una volta saremo codardi, vorrà dire che siamo delle nullità, che per noi non c’è speranza, e che a noi si addice il disprezzo di Puskin: a che servono alle mandrie i doni della libertà? Il loro retaggio, di generazione in generazione, sono il giogo con i bubboli e la frusta».

Il collettivismo è per noi, l’oligarchia sono loro. Vogliono la fine della proprietà privata diffusa, a cominciare dalle case d’abitazione. Infatti l’UE – uno dei cagnolini fedeli del Forum – impone ristrutturazioni costosissime per scopi energetici (l’ossessione green degli inquinatori globali) che metteranno in crisi il mercato e costringeranno molti a vendere a prezzi stracciati il bene più prezioso. Chissà chi comprerà.

Nel paradiso della libertà è obbligatorio il linguaggio “inclusivo”. In Canada, laboratorio privilegiato della perfezione, si può essere costretti alla “rieducazione” (l’evidenza totalitaria sfugge per mancanza di neuroni) se si utilizzano pronomi personali errati. La legge C-16 protegge l’identità di genere punendo le violazioni con il carcere sino a due anni. Un celebre psicologo, Jordan Peterson, è stato condannato a seguire un corso di rieducazione verbale e mentale.

Quella che viviamo è una fulminea transizione neofeudale.

A che servono le elezioni, se una serie sterminata di vincoli esterni (BCE, UE, MES, FMI, NATO, OMS, ONU, WEF, infernali acronimi del Dominio) impediscono alla volontà popolare – se mai si manifestasse in termini antagonisti – di diventare norma? E, in Europa, come si possono cambiare le cose se gran parte delle leggi che scandiscono la nostra esistenza derivano da regolamenti (eufemismo da vita condominiale) emessi da una Commissione, un sinedrio non eletto, ratificati senza discussione – sono migliaia ogni anno – da un parlamento privo di potestà legislativa?

Il giurista nazionalsocialista Ernst Forsthoff spiegò il significato che per i dominanti ha la legalità «Chi ha lo Stato, fa le leggi e, cosa non meno importante, le interpreta. Egli stabilisce che cosa è legale. La legalità è qualcosa di puramente formale e non significa altro se non che la volontà di un partito è diventata disposizione di legge. La legalità è il mezzo con cui colpire il nemico politico: dichiarandolo illegale, ponendolo fuori dalla legge, squalificandolo dal punto di vista morale e consegnandolo all’eliminazione per mezzo dell’apparato statale». Teoria e prassi del collettivismo oligarchico.
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Una volta, nel 1929, a Davos si riunivano i filosofi (Cassirer e Heidegger) per dialogare e discutere con passione sulle modalità e gli scopi della conoscenza e su altre tematiche filosofiche. Dopo un secolo quella città è preda del World Economic Forum (WEF) di Klaus Schwab e di altri visionari e ingegneri delle distopie totalitarie, di coloro che dettano le regole e le forme ai parlamenti e ai governi di un Occidente diventato terra della tristezza.

 

Volontà di sapere

Teatro Greco – Siracusa
Edipo Re
di Sofocle
Traduzione di Francesco Morosi
Scene di Radu Boruzescu
Con: Giuseppe Sartori (Edipo), Rosario Tedesco (capo coro), Graziano Piazza (Tiresia), Paolo Mazzarelli (Creonte), Maddalena Crippa (Giocasta)
Regia di Robert Carsen
Sino all’1 luglio 2022

Pervaso dalla volontà di sapere, intriso della passione dell’indagare, ossessionato dal bisogno di fare luce. Così Edipo rovina se stesso e la propria casa. C’è qualcosa di estremo e arrogante in questa necessità di portare a evidenza ogni anfratto degli eventi. Un’esigenza di comprensione che si volge contro chi la nutre. Ma che è greca, profondamente greca. Uomini furono che vollero conoscere. E conobbero. E che di fronte a ciò che avevano appreso dissero parole talmente  chiare da essere sempre e ancora nostre, sempre e ancora vere nell’affermare che nessun umano potrà essere detto sereno sino a quando in lui pulserà ancora la vita (ὥστε θνητὸν ὄντα κείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν᾽ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου περάσῃ  μηδὲν ἀλγεινὸν παθών, vv. 1528-1530).
Il Tempo che vede tutto apre infine gli occhi a Edipo; Apollo, dio crudele, lo invade della propria luce di conoscenza; Necessità fa sì che ciò che deve accadere accada al di là anche del silenzio e delle parole di Tiresia. Convocare il quale è stato il primo gesto del lento processo di agnizione di Edipo. Tiresia gli consiglia di rinunciare a sapere, Giocasta gli consiglia di rinunciare a sapere, il vecchio servo che lo aveva tenuto in fasce gli consiglia di rinunciare a sapere. Ma Edipo, no. Edipo indaga. Si dichiara persona estranea ai fatti che condussero alla morte di Laio. Estraneo, lui. Si dice alleato del dio Apollo e del morto Laio. E fa luce. Una luce trionfale che gli regala un ultimo atto di gloria da parte della città che una volta ha salvato, un attimo intriso non a caso di Evoè, il canto vittorioso di Dioniso (è questo il momento colto nell’immagine in alto). Una luce straziante che lo farà tornare in scena completamente nudo, intriso del sangue dei propri occhi e di quello di Giocasta suicida.
Appaiono e scompaiono i sovrani -Edipo, Creonte, Giocasta- lungo l’alta scalinata che dalla piazza di Tebe ascende all’alto della reggia e degli dèi. Piazza dentro la quale appaiono nella scena iniziale i cittadini durante una processione luttuosa e fatta di nero. Processione scandita da una cadenza dell’oltre, l’oltre della morte e della vita.
Una scenografia essenziale e suggestiva, dunque. Nient’altro che la piazza e la grande scala. Per dare spazio alla voce di Sofocle, ai corpi degli attori, alla meditazione su quanto sia preferibile non essere nati e, una volta nati, morire bambini, come Edipo afferma e desidera al culmine del proprio destino.
Quest’uomo, questo re, non ha alcuna colpa, perché non sapeva di essere l’omicida di Laio e lo sposo di sua madre. Ma l’intenzione è un concetto che per i Greci conta ben poco. A pesare è il danno oggettivo che l’agire di Edipo ha inferto alla città, il danno oggettivo che chiunque può infliggere. È a motivo del danno che si deve essere neutralizzati, non della volontà di far male o far bene. La volontà è semplice e insindacabile psicologia, il danno è una realtà oggettiva.
Questo, alla fine, la luce portata da Edipo ci fa vedere. Nella volontà di sapere, per quanto dolorosi risultino i suoi esiti, splende in ogni caso la libertà dei Greci, la loro intelligenza rispetto alla bêtise contemporanea, alla stupidità di ogni sistema etico-linguistico che assurga a valore assoluto, che proibisca le parole e i loro significati a volte terribili. Stupidità dall’esito fatale: «Non ti accorgi che il principale intento della neolingua consiste proprio nel semplificare al massimo la possibilità del pensiero? Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno parole per esprimerlo. […] Ortodossia significa non pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è non-conoscenza» (Orwell, 1984, trad. di G. Baldini, Mondadori 1989, pp.  56–57). Un’ortodossia che per i Greci è soltanto tenebra.

Ministero della Verità

In una mattina di aprile dell’anno che forse è il 1984, Winston Smith torna a casa e comincia a scrivere i propri pensieri in un quaderno che ha da poco acquistato. Questa è la sua colpa, lo psicoreato che aveva già cominciato a commettere e che adesso è dimostrato dalla sua stessa scrittura. Winston Smith vive, infatti, in Oceania, uno dei tre stati sovracontinentali nati dalla guerra atomica degli anni ’50. Winston lavora presso il Ministero della Verità, il cui compito è la falsificazione sistematica e la creazione di documenti che modifichino il passato. Infatti, «chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato» (Orwell, 1984, Mondadori 1998, p.  260).
Lo psicoreato esiste negli anni Dieci del XXI secolo e si chiama politically correct. Esso è l’impossibilità di criticare dogmi etico-politici più o meno sensati, pena conseguenze anche sulle carriere. Esso è la disinformazione della quale parla il § XVI dei Commentari alla Società dello Spettacolo di Debord: una mescolanza di vero e di falso sempre funzionale agli interessi di chi governa. Non dimentichiamo, infatti, «che i grandi media che oggi si vantano di ‘decodificare’ le fake news degli altri, sono sempre stati i primi a rilanciare le menzogne di Stato, dalle ‘armi di distruzione di massa’ di Saddam Hussein al presunto ‘carnaio’ di Timisoara» (De Benoist, Diorama Letterario 340, p. 11).
Il politicamente corretto è l’altro nome dell’ideologicamente conforme, il quale diventa esplicita e ignorante censura in iniziative come quelle che hanno impedito lo svolgimento nello scorso febbraio di un dibattito su destra e sinistra promosso dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano con la partecipazione, tra gli altri, di Alain de Benoist. Attribuendo a questo filosofo tesi da lui mai sostenute, alcuni intellettuali (?) e giornalisti italiani hanno ottenuto la provvisoria cancellazione dell’iniziativa. «Affermano di voler difendere la democrazia e ne smantellano le fondamenta» (Tarchi, DL, p. 3). Costoro utilizzano anche «l’ingenuità, la rozzezza e la stupidità politica degli sparuti apologeti di dittature passate che non hanno conosciuto per rafforzare le premesse della dittatura del futuro, che si sforzano di trapiantare nel presente a suon di divieti, discriminazioni e punizioni» (Ibidem). La stupidità è per definizione stupida. Il risultato di quella improvvida richiesta di censura è stata infatti la sala strapiena della Fondazione Feltrinelli quando il dibattito si è poi svolto, lo scorso 6 aprile 2018.
Durante la recente campagna elettorale italiana, gruppi di miserabili e ininfluenti nostalgici come CasaPound e Forza Nuova sono stati gli alleati di una sinistra perduta che si sente viva quando agita «uno spauracchio che si pensa possa farle riguadagnare consenso e sostegni fra un certo numero di simpatizzanti e militanti ormai caduti in preda alla delusione» (Tarchi, DL, p. 19).
Contro il vero fascismo contemporaneo, che è l’ultraliberismo il quale moltiplica le guerre, strangola le economie  e cancella i diritti sociali, non si attua una mobilitazione neppure lontanamente paragonabile alle manifestazioni che hanno regalato per qualche giorno audience e dignità politica agli esigui nostalgici di Mussolini. E invece è contro gli Stati Uniti d’America che bisognerebbe mobilitarsi senza tregua, contro un sistema che -secondo l’analisi del giornalista francese di TF1 Michel Floquet- è inguaribilmente razzista, ferocemente diseguale, fanaticamente bellicista, mortalmente inquinante. Una nazione che è «la più grande prigione al mondo. In America, un adulto su cento si trova in carcere. E un prigioniero su quattro, nel mondo, è americano» (Virgilio, DL, p. 27); secondo Floquet «la democrazia e la libertà delle quali godrebbero tutti i cittadini statunitensi senza distinzione di razza, di sesso, di religione, non sono altro che una finzione, ‘un meraviglioso esempio di doppiezza e di ipocrisia’» (Id. DL, p. 26), come conferma una documentata e dolente analisi di Santo Barezini sul numero 422 di A Rivista anarchica: «Schiavi del XXI secolo».
Rispetto all’uniformismo dei padroni del mondo, sarebbe opportuno applicare la difesa della biodiversità anche alla «diversità dei popoli, nonché a quella delle lingue e delle culture che sono ad esse associate» (De Benoist, DL, p. 5; sulla questione linguistica si vedano anche i testi miei e di Dario Generali: Parola) cercando almeno di rallentare la distruzione della Terra e delle sue fonti di vita, attuata da una forma politico-economica del tutto indifferente alle leggi della natura e alla limitatezza delle risorse. Questo infatti «dimostra il secondo principio della termodinamica e la legge dell’entropia nell’assoluta indifferenza da parte di sociologi, economisti e scienziati della politica, nonostante la messa in guardia fornita dalla teoria della complessità di Edgar Morin e dalle acquisizioni di Ilya Prigogine sulle ‘strutture dissipative’» (Zarelli, DL, p. 22).
Come dimostra Orwell, il Ministero della Verità è anche sede della menzogna più profonda.

James Bond, l’anarchico

007 Spectre
di Sam Mendes
USA – 2015
Con: Daniel Craig (James Bond), Léa Seydoux (Madeleine Swann), Ralph Flennes (M), Christoph Waltz (Oberhauser), Ben Whishaw (Q), Andrew Scott (Denbigh)
Trailer del film

«I morti sono vivi». La prima inquadratura del film è questa frase, la quale introduce un efficace piano sequenza sulla festa dei morti a Città del Messico. Ci si sposta poi a Londra, Roma, Tangeri, Tokyo e altrove. Non manca nulla degli elementi classici della saga bondiana: lunghi e spettacolari inseguimenti, mezzi di trasporto di tutti i tipi, tecnologie miniaturizzate, complotti mondiali, ironia.
E James Bond conferma sempre la propria natura di immortale, identica agli eroi di tutte le saghe, che non possono morire qualunque cosa accada.
Ma in questo film ci sono almeno due elementi di novità, uno abbastanza ovvio, l’altro meno.
Il primo è che il potere si è spostato dal danaro e dalle armi alle informazioni, la raccolta delle quali costituisce l’obiettivo della Spectre, una sorta di fusione di facebook, google, apple/microsoft, che ha l’obiettivo di controllare sin nei minimi dettagli la vita di tutti, proprio di tutti. È sempre la profezia di 1984 che va realizzandosi. Non nei film di James Bond ma nella realtà.
Il secondo elemento è che la Spectre è composta dai nove stati più potenti del mondo. Non sembra quindi esserci più differenza tra gli stati e i criminali, gli stati sono criminali. Notevole.
Lascio quindi la parola a Dario Sammartino, che mi ha suggerito di vedere 007 Spectre dando delle indicazioni che corrispondono perfettamente ai suoi contenuti.

«Ti segnalo tre punti sagaci del soggetto dell’ultimo Bond, che forse ti incuriosiranno.
1) Lo scopo delle fatiche dell’eroe è di impedire l’avvio di un sistema di controllo mondiale di comunicazioni e dati. In apparenza il sistema è promosso da nove potenze, ma di fatto è asservito ad un’organizzazione criminale. Non so se rientrava nelle intenzioni dei soggettisti ma la conclusione è che potere e crimine coincidono. Inoltre il dirigente “cattivo” dei servizi segreti giustifica la scelta con la considerazione che il potere va attribuito a coloro che possono davvero esercitarlo, cioè in assoluta solitudine e senza gli impedimenti formali della democrazia: lo scopo finale del capitalismo finanziario attualmente al potere. Che J Bond stia diventando anarchico?
2) Sulle nove potenze, una è contraria al sistema (il Sudafrica). Prontamente l’organizzazione criminale esegue un attentato gravissimo, ed anche il Sudafrica si adegua. È la vecchia ma sempre efficace strategia della tensione: forse i soggettisti avranno studiano la storia italiana degli anni ’60/’70.
3) L’eroina si chiama Madeleine Swann, e di fatto aiuta proustianamente Bond a ricordare il suo passato».

Aggiungo che il film è un grande divertimento.

Brazil. Terrorismo e burocrazia

Brazil
di Terry Gilliam
USA, 1985
Con: Jonathan Pryce (Sam Lory), Kim Greist (Jill Ayton), Michael Palin (Jack Lint), Ian Holm (Kurtzmann), Robert De Niro (Archibald Tuttle), Katherine Helmond (Ida Lowry). Bob Hoskins (Spoor), Ian Richardson (Warren), Jim Broadbent (Il Dottor Jaff)

Uno degli oppositori -definito naturalmente terrorista viene investito da fogli su fogli che mulinano al vento e che lo coprono interamente. Forse viene proprio ucciso dalle carte. Moduli su moduli, uffici su uffici, commi su commi, code su code. Un delirio burocratico minuzioso e bizzarro cerca di rendere razionale, organizzato ed efficiente l’arbitrio più feroce e la violenza più cruda del sistema totalitario, vale a dire del potere finalmente svelato a se stesso, nella sua effigie, sostanza, scopo ed essenza. Il potere di 1984, al quale il film molto liberamente si ispira.
La burocrazia come lifting, dunque. Lo stesso lifting che cerca di nascondere la decadenza di alcune vecchie signore amiche del regime e che invece le riduce alla fine a maschere orrende e a cadaveri liquefatti. Ma a loro si dice che devono stare tranquille, il problema avrà presto soluzione. Il Natale disneyano nel quale il film è immerso è la conferma delle tesi di Adorno sulla complicità tra ottimismo e barbarie. La citazione della scena/scalinata della Corazzata Potëmkin è un altro tassello ancora di questo doloroso itinerario nell’assurdo della iperrazionalizzazione.
Grottesco, postmoderno e visionario, Brazil è un incubo. Alla lettera.

1984

di George Orwell
(Nineteen Eighty-Four, 1949)
Trad. di Gabriele Baldini
Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998
Pagine XI – 327

In una mattina di aprile dell’anno che forse è il 1984 Winston Smith torna a casa e comincia a scrivere i propri pensieri in un quaderno che ha da poco acquistato. Ecco: questa è la sua colpa, lo psicoreato che aveva già cominciato a commettere e che adesso è provato dalla sua stessa scrittura. Winston Smith vive, infatti, in Oceania, uno dei tre stati sovracontinentali nati dalla guerra atomica degli anni ’50.
In ciascuno di essi

«LA GUERRA È PACE
LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ
L’IGNORANZA È FORZA»
( p. 8 )

Winston lavora presso il Ministero della Verità, il cui compito è la falsificazione sistematica e la creazione di documenti che modifichino il passato. Infatti, «chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato» (260). In questo luogo, Smith lavora 60 ore alla settimana in quanto membro del Partito esterno. Su quest’ultimo domina il Partito interno il cui braccio operativo è la Psicopolizia e su tutti sta il Grande Fratello. Alla base della scala sociale, infine, vi sono i cosiddetti prolet, masse ignoranti e povere di milioni di persone alle quali è permessa una maggiore libertà di azione e di pensiero poiché esse pensare non sanno. In ogni caso, anche le masse vengono esaltate e controllate tramite la propaganda incessante contro il nemico interno ed esterno.

In questo mondo senza luce, Winston incontra Julia. Membro anche lei del Partito esterno, non crede ai suoi dogmi e cerca di godere della propria vitalità sessuale, atteggiamento che costituisce una forma di disobbedienza al Partito, il quale ha fra i suoi scopi quello di «abolire lo stesso piacere sessuale» (280). I due si incontrano quando possono, cercando di sottrarsi ai teleschermi che controllano ogni gesto quotidiano. Un giorno, O’Brien, membro del Partito interno, invita Winston a casa propria e gli rivela l’esistenza di un’opposizione al Regime guidata da Goldstein, vecchio fondatore del Partito e ora suo principale nemico e autore di un testo clandestino dal titolo La teoria e la pratica del collettivismo oligarchico. Winston e Julia decidono di entrare nella Fratellanza ma dopo qualche tempo vengono arrestati. Da qui comincia l’ultima intensissima parte del romanzo. A interrogare e torturare Winston è O’Brien che gli rivela come gli scopi del Partito siano ben più radicali di qualsiasi passata Inquisizione, di qualsiasi Regime totalitario del ventesimo secolo poiché il Partito vuole l’anima di chi ha pensato di resistergli e non uccide il colpevole finché questi non sia totalmente e sinceramente convinto della propria colpa e non provi autentico Amore per il Grande Fratello. A questo limite, infatti, sarà condotto Winston in un finale tanto terribile quanto malinconico e chiuso a qualsiasi speranza.

Si tratta di un libro chiave. E non solo per la potente forza visionaria, non solo per la scrittura lucida ed essenziale. È un libro che smaschera l’essenza del Potere il cui fine è lo stesso Potere. Orwell compie una singolare fusione di machiavellismo e anarchismo, il cui risultato è l’estrema, esaltata felicità con la quale O’Brien descrive il vero significato del Partito:

«I nazisti tedeschi e i comunisti russi si avvicinarono molto ai nostri metodi, ma non ebbero mai il coraggio di dichiarare apertamente i loro motivi, le loro ragioni. (…) Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere» (276).

La dottrina posta a fondamento di tale obiettivo consiste in una sorta di solipsismo antropocentrico, convinto che «non esiste nulla se non nella mente dell’uomo (…) non c’è niente al di fuori e oltre l’uomo. (…) La terra è il centro dell’universo. Il sole e le stelle ci girano attorno» (278-279). Un solipsismo collettivo che intende eliminare alla radice qualsiasi dimensione individuale, pensiero soggettivo, ambito privato. I teleschermi presenti ovunque, l’elaborazione della neolingua che riduce all’essenziale il numero delle parole, la vita in grandi alveari umani, la trasformazione dei figli nei primi nemici dei loro genitori -bambini trasformati in «una sottosezione della Psicopolizia» (142)-, la partecipazione obbligatoria alle iniziative serali dei Centri sociali, fanno sì che «nulla si possedesse di proprio se non pochi centimetri cubi dentro il cranio» (31) ma anche questo spazio alla fine sarà perduto. Lo stare da soli è già ragione di grave sospetto, così come il possesso o il desiderio di «qualsiasi oggetto antico o anche soltanto bello» (101) e dei libri, i quali vengono sistematicamente distrutti e sostituiti dalle opere collettive del Partito o da romanzi per i prolet elaborati con strumenti meccanici. L’ortodossia, quindi, consiste nel «non pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è non-conoscenza» (57). E solo questo, infatti, interessa al Partito. Non le azioni compiute ma i pensieri che quelle azioni hanno prodotto
Nessuno ha mai visto il Grande Fratello poiché egli è la personificazione del Partito, è «la mente del Partito, che è collettiva e immortale» (261). 1984 è un libro molteplice, dai significati diversi e complessi. Un testo che descrive come lentamente si spegne l’ultimo uomo in Europa, che mostra la necessità del pensiero ribelle attraverso un incubo politico e televisivo nel quale individui e collettività vengono letteralmente cancellati dal servilismo assoluto verso il potere, verso la sua immagine.

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