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Risultati della ricerca per: edipo

Lentezza / Animali / Diritto

Mente & cervello 113 – maggio 2014

M&C_113_maggio_2014«Peggio ancora: il cervello si abitua alla velocità e ne vuole sempre di più» (S. Bohler, p. 27). A (quasi) tutto infatti si abitua il cervello. E specialmente alle caratteristiche che riguardano la sostanza temporale del corpomente. E pertanto via via che il nostro vivere si fa trafelato, via via che diventa pieno di stimoli elettronici -quelli veicolati dai computer, dai cellulari, dalle tavolette-, il cervello si adatta e anzi ne vuole di più. Un tempo breve ma vuoto di tale pungolo ci sembra non passare mai e soprattutto ci appare vuoto di sostanza oltre che di eventi. Gli studi sempre più numerosi sulla struttura temporale dell’umano ci dicono però che sarebbe meglio abituarsi anche «a premere il freno per recuperare la lentezza» (Ibidem). L’accellerite cronica, coniugata all’utilizzo pervasivo degli strumenti di comunicazione personale, sembra produrre un vero e proprio tecnostress poiché per un ente del tutto temporale qual è l’essere umano «la sensazione di non avere abbastanza tempo è già in sé fattore di stress», in quanto «molti compiti, professionali o domestici, sarebbero gradevoli se disponessimo di abbastanza tempo per eseguirli. Ciò presupporrebbe però che limitassimo molte attività annesse: che trascorressimo meno tempo su Internet o davanti alla televisione, che perdessimo meno tempo sui mezzi di trasporto e così via» (C. André, 38). È una conferma del fatto che l’equilibrio psicosomatico (la salute mentale) consiste  in gran parte in un rapporto armonioso con il tempo che siamo.
Tempo che in un malato di Alzheimer sembra progressivamente dissolversi nell’oblio di ciò che si è stati, nella chiusura dei sentieri dell’ha da essere e quindi nell’inconsistenza dell’istante che si è. Una struggente documentazione fotografica di Fausto Podavini lo conferma nei gesti colmi di dinamismo di Mirella e nella reazione immobile e spenta di suo marito Luigi (pp. 60 sgg).
Tempo che sembra improvvisamente rallentare nei pochi secondi che trascorriamo all’interno di un ascensore in compagnia di sconosciuti. Ci comportiamo esattamente come delle scimmie chiuse in una piccola gabbia. Per noi umani come per loro «l’obiettivo è evitare in ogni modo lo scontro, che in spazi così ristretti e soprattutto con un individuo mai incontrato prima, potrebbe avere esiti imprevedibili». Questa e moltissime altre esperienze dimostrano «che allo specchio guardiamo una scimmia nuda» (M. Motta nella recensione a A che gioco giochiamo noi primati, di Dario Maestripieri, pp. 104-105).
Anche questo nostro legame assoluto con gli altri animali spiega perché moltissimi dei soggetti che scatenano la loro violenza sui conspecifici hanno da bambini e adolescenti torturato e ucciso animali di altre specie. È ormai accertata l’esistenza di «un legame statisticamente significativo tra le condotte crudeli contro gli animali e la delinquenza grave», un legame tra «la maniera in cui trattiamo gli animali e quella in cui trattiamo le persone non sono più separabili» (L. Bègue, 90 e 93). Non a caso gli adulti crudeli nei confronti di bambini, donne, anziani sono assai spesso crudeli anche verso gli altri animali. Si tratta infatti di infierire su soggetti più deboli e poco difesi.
Il criminologo Massimo Picozzi nella sua rubrica analizza il caso di Desirée Polverini, che nel 2002 venne aggredita e uccisa senza alcun motivo da un gruppo di adolescenti guidati da un adulto. Durante i processi che seguirono questo efferato delitto, in nessuno dei colpevoli venne trovato «un vizio di mente che ne limitasse la responsabilità» (15). Tutti ‘capaci di intendere e di volere’, tutti in grado di decidere. Non è vero, naturalmente. È infatti nella natura stessa di tali soggetti che sta la causa delle loro azioni. Il diritto cristiano moderno -non quello greco/pagano- è molto lontano dalla comprensione profonda dell’umano. Non bisogna cercare responsabilità, che non esistono. Basta limitarsi ai comportamenti e al danno che producono. E quelli punire. Come Edipo, che non sapeva ciò che faceva. Ma che viene punito lo stesso per ciò che aveva fatto. È questo la giustizia.

 

Tragedia / Luce

Il mondo greco, gli uomini che lo hanno costituito, le opere che esso ha prodotto sono oggetto di un racconto infinito, il racconto del sapere europeo. Sempre nuovi, infatti, sono gli approcci alle parole e ai manufatti che da quel mondo continuano a parlarci. Un’ermeneutica inesauribile narra i Greci e in questo modo chiarisce meglio a noi stessi ciò che siamo.
Tutto in questo mondo appare legato, se è vero che persino la furia di Dioniso -signore delle donne tebane nelle Baccanti di Euripide- si ritrova in qualche modo nel disincanto del sofista Gorgia, il quale nell’Encomio di Elena mostra sino in fondo e con grande maestria argomentativa la forza che le potenze disumane e sovrumane esercitano su ciascuna delle nostre decisioni e azioni. Lo spazio della tragedia si apre nella duplicità della decisione umana e della potenza divina.
Secondo Vernant la tragedia è un’invenzione della πόλιϛ greca, iniziata e conclusa in un momento assai preciso della sua storia -nei due secoli che vanno da Solone ad Aristotele- ed è frutto di pochi autori, di una ben precisa struttura storica, di un intreccio peculiare di tecniche espressive, di credenze religiose, di vicende politiche. Per quale ragione allora la tragedia greca è apparsa e ancor oggi ci sembra esemplare di qualcosa che supera i suoi limiti storici? Perché la tragedia è di noi che parla, della condizione che accomuna i Greci del V secolo a ogni altro tempo e forma.
La potenza di ogni azione e produzione umana è inseparabile dalla coscienza della nostra finitudine. La nostra durata è sempre vanità rispetto al volgere senza fine degli evi. Le intenzioni, le consapevolezze, i progetti e le risposte che diamo conservano sempre una dimensione enigmatica che apre lo spazio della riflessione e impedisce risposte definitive. Pensare che, invece, tale risposta la si possa trovare è una delle forme più insidiose di ὕβριϛ, la ὕβριϛ di Edipo. È lui il simbolo più compiuto della tragedia, l’uomo nel quale la risposta che salva è nello stesso tempo quella che perde, in cui l’apice della luce è il fondo della tenebra, l’enigma svelato è la mente che svela. Lui stesso infatti è l’arcano insoluto e insolubile, metafora infinita della nostra finitudine, del nostro accecamento quando vogliamo non vedere il limite e costruire il perfetto.
Tuttavia il bisogno di pienezza è pur esso parte della natura umana. E i Greci hanno trovato un nome anche per questo: Dioniso. Il dio incarna «la nostalgia di un altrove assoluto […], l’evasione verso un orizzonte diverso» (J.P. Vernant, P. Viddal-Naquet, Saggi su mito e tragedia [1986], a cura di G. Vatta, Einaudi, 1998, pp. 5-6). Se, di fronte alla varietà delle leggende, dei fatti e degli eroi messi in scena nei loro teatri, i Greci si chiedevano che cosa tutto ciò avesse a che fare con Dioniso -il dio della tragedia- la risposta è che tutto e niente avesse a che fare con lui. Niente, perché di rado egli è protagonista -forse solo nelle Baccanti– o compare sulla scena. Persino il suo nome viene pronunciato assai poco. Tutto, perché nel raccontare i desideri e la morte, le passioni e il loro superamento, l’ebbrezza e la distruzione, Dioniso è lì a sorridere e, ancora una volta, a vincere; perché i personaggi principali della tragedia sono in qualche modo maschere di Dioniso: «È tradizione incontestabile che la tragedia greca, nella sua forma più antica, aveva per oggetto solo i dolori di Dioniso e che per molto tempo l’unico eroe presente in scena fu appunto Dioniso. Con la stessa sicurezza peraltro si può affermare che fino a Euripide Dioniso non cessò mai di essere l’eroe tragico, e che tutte le figure più famose della scena greca, Prometeo, Edipo, eccetera, sono soltanto maschere di quell’eroe originario» (F. Nietzsche, La nascita della tragedia ovvero Grecità e pessimismo, trad. di S. Giametta, in «Opere», vol. 3, tomo 1, Adelphi 1972, § 10, p. 71). Egli dispensa momenti di pura felicità a chi lo onora e scaglia nella follia chi ne respinge la divinità. Ma, in ogni caso, «perfino nell’Olimpo Dioniso incarna la figura dell’Altro. […] Non ci stacca dalla vita terrena con una tecnica di ascesi e di rinuncia. Confonde le frontiere tra il divino e l’umano, l’umano e il ferino, il qui e l’aldilà. Fa comunicare ciò che era isolato, separato» (Saggi su mito e tragedia, p. 127).

Non corpo estraneo -come voleva Rohde- ma elemento enigmatico e fondamentale della Grecità, il dionisiaco rappresenta ciò che Nietzsche gli attribuisce nel legame con Apollo: «Prodotti necessari di uno sguardo gettato nell’intimità e terribilità della natura, per così dire macchie luminose per sanare l’occhio offeso dall’orrenda notte» (La nascita della tragedia, § 9, p. 64).

Nazisti ad Atene

Appartamento ad Atene
di Ruggero Dipaola
Con: Gerasimos Skiadaressis (Nikolas Helianos), Laura Morante (Zoe Helianos), Richard Sammel (Il capitano Kalter), Vincenzo Crea (Alex Helianos), Alba De Torrebruna (Leda),
Italia, 2011
Trailer del film

Atene è occupata dalle truppe tedesche. Il capitano Kalter sceglie come propria dimora l’appartamento di Nikolas Helianos, un editore di ottimi libri scolastici, un uomo colto e mite che si mette al servizio del capitano per evitare guai alla moglie e ai suoi due figli. Un terzo, il maggiore, è morto in guerra. Nonostante la sua patina di cortesia, il soldato è arrogante e violento. Quando però ritorna dopo un breve soggiorno in Germania sembra mutato. Un dolore profondo lo intride. Ma, come dice Nikolas dialogando con lui, il dolore non migliora nessuno. Può soltanto rendere più ciechi, come accadde a Edipo.
Il dramma di questa famiglia viene narrato con sobria lucidità. La luce intride gli spazi e le cose, contraltare evidente al buio della storia. Le vittime conservano la loro dignità, nonostante ciascuno lo faccia in modo assai diverso. Il dodicenne Alex con una evidente insofferenza e ribellione verso l’intruso; la sorella con il fascino infantile che la divisa esercita su di lei; la madre con una gentilezza che non diventa mai familiarità. E il padre con un moto di solidarietà che lo perderà ma che ne mostra tutta la nobiltà rispetto alla sostanziale viltà del più forte. «È la guerra. Vince uno solo. Se avessimo vinto noi, saremmo andati a occupare le case degli altri», questo dice Nikolas ai propri cari per tranquillizzarli.
Un elogio merita la recitazione in presa diretta, senza doppiaggio, che finalmente restituisce agli attori la voce del corpo.

 

Desiderio e risentimento

Il risentimento.
Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo
(Pour un nouveau procés de l’étranger; Système du délire, Éditions Grasset 1976; Eating disorders and Mimetic Desire, 1996)
di René Girard
Trad. di Alberto Signorini
Introduzione di Stefano Tomelleri
Raffaello Cortina Editore, 1999
Pagine XI-188

Il risentimento, smascherato anche da Nietzsche, non sarebbe secondo Girard un sentimento opposto alla volontà di potenza ma consisterebbe nella stessa volontà che vuole raggiungere il proprio modello e non riuscendoci lo condanna. «Desiderio di essere secondo l’altro» (p. 2), secondo un modello ammirato, amato e odiato poiché «l’altro è anche il nostro maggior rivale, perché sarà sempre laddove vorremmo essere e non siamo» (3). L’io e l’altro, l’imitatore e l’imitato, convergono sul medesimo oggetto entrando quindi in una rivalità mimetica che per il primo è sempre esiziale. Dato che è proprio tale convergenza dei desideri a definire l’oggetto terzo, «la mimesi costituisce una fonte inesauribile di rivalità di cui non è mai veramente possibile fissare l’origine e la responsabilità» (96). Questo è il desiderio mimetico che Girard pone a fondamento del Moderno e delle tre sue manifestazioni analizzate in questo libro: l’apparente indifferenza dello Straniero verso la società; le macchine desideranti di Deleuze e Guattari; le pratiche anoressiche.

«Posseduto dall’assurdo come certuni […] sono posseduti dalla grazia» (29-30), Mersault -il protagonista del romanzo di Camus- incarnerebbe la malafede del suo creatore, il quale «ha finito prima di tutto per ingannare se stesso» (52) sulla possibilità che si dia un uomo allo stesso tempo colpevole e innocente. Colpevole agli occhi di chi non gli perdona non di aver assassinato uno sconosciuto ma di nutrire una sovrana indifferenza verso la collettività, innocente quindi dell’assassinio del quale lo si accusa. Lo stesso Camus ammetterebbe tale (auto)inganno nel successivo romanzo La caduta, che costituirebbe una vera e propria autocritica nella quale lo scrittore riconosce per bocca di Clamence che «i “buoni criminali” hanno ucciso non per le ragioni abituali, questo salta agli occhi, ma perché volevano essere giudicati e condannati. Clamence ci dice che in fin dei conti i loro moventi erano identici ai suoi: come molti dei nostri simili in questo mondo anonimo, volevano un po’ di notorietà» (50).
La stessa notorietà/competizione/rivalità che anima la bulimia nervosa e l’anoressia. Un vero e proprio imperativo di magrezza domina infatti l’immaginario collettivo della contemporaneità. Un ordine assai più implacabile di quello delle vecchie religioni e del defunto Dio. Pervenuti finalmente alla terra della nostra autonomia senza divieti e senza leggi, «le divinità che diamo a noi stessi sono autoprodotte nel senso che dipendono interamente dal nostro desiderio mimetico» (167) e i loro comandi sono assoluti perché anch’essi autoprodotti. Nessuno può dunque convincere l’anoressica della sua malattia; lei «è orgogliosa di adempiere a quello ch’è forse il solo e unico ideale ancora condiviso da tutta la nostra società: la magrezza» (160). Notevole ed esemplificativa dello stile dell’Autore è l’immagine che chiude l’analisi dei disturbi alimentari:

Se i nostri avi vedessero i cadaveri gesticolanti delle riviste di moda contemporanea, li interpreterebbero probabilmente come un memento mori, un promemoria di morte, equivalente forse alle danze macabre dipinte sui muri delle chiese del tardo Medioevo; se dicessimo loro che, per noi, questi scheletri disarticolati significano piacere, felicità, lusso, successo, è probabile che fuggirebbero in preda al panico, pensando che siamo posseduti da un demone particolarmente ripugnante. (188)

Il demone del desiderio, della volontà di potenza, del delirio intesse per Girard anche L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari. Un delirio teoretico e analitico che rimane impregnato di Freud e dal quale Edipo esce in realtà intatto, soprattutto perché distrugge il desiderio stesso che pure proclama di installare come autorità maiestatica, come fondamento molecolare delle strutture molari liberate. Il desiderio concreto e quotidiano, con il suo inevitabile attrito, sembra infatti in quest’opera dissolto a favore di una “schizoanalisi” che lascia intatta la Legge che pur si illude di avere oltrepassato:

I divieti sono sempre lì; bisogna convincersi che attorno a essi vigila un’armata potente di psicoanalisti e di curati, mentre dappertutto ci sono solo uomini smarriti. Dietro i rancori guasti contro le vecchie lune dei divieti si nasconde il vero ostacolo, quello che si è giurato di non confessare mai: il rivale mimetico, il doppio schizofrenico. (149-150)

Dove sbaglia Girard?
L’esatta critica al romanticismo, alla sua hybris che invece di liberare il soggetto lo ha catturato in un’infrangibile rete di elefantiasi dell’io -«il romantico non vuole veramente essere solo, vuole che lo si veda scegliere la solitudine» (59)-, assume Lo straniero come paradigma romantico, sbagliando però del tutto lettura. Il romanzo di Camus non è infatti espressione e specchio «del mondo del giovane delinquente» (74), della sua esistenza vuota, della sua crudeltà solipsistica. È questa un’interpretazione sociologica che si preclude per intero non soltanto e non tanto la ricchezza stilistica ed estetica del libro -senza la quale esso sarebbe impensabile- ma anche e soprattutto il nucleo generatore del romanzo, che è la Gnosi. Leggiamo Camus: «si près de la mort, maman devait s’y sentir libérée et prêtre à tout revivre. Personne, personne n’avait le droit de pleurer sur elle. Et moi aussi, je me suis senti prêt à tout revivre» (L’étranger, Gallimard, Paris 2011, p. 183); è tale volontà di eterno ritorno a meritare eventualmente la condanna, poiché «tout le monde sait que la vie ne vaut pas la peine d’être vécue» (ivi, p. 171). Lo sanno tutti, e in primo luogo lo sanno gli gnostici, e tuttavia Mersault ama vivere. Il titolo della successiva presunta autocritica dello scrittore, La caduta, è anch’esso un titolo gnostico.
Nietzsche rappresenta per Girard un vero e proprio doppio mimetico, se vogliamo applicare allo stesso studioso il linguaggio da lui adottato. Il concetto di ressentiment è infatti nietzscheano ma per Girard la critica radicale di Nietzsche alla Legge ebraico-cristiana sarebbe anch’essa intrisa di risentimento. Questo desiderio di distanziarsi da Nietzsche fa sì che Girard confonda la volontà di potenza con il desiderio. È eventualmente quest’ultimo a costituire il «colosso dai piedi d’argilla» che crolla davanti alla fuga dell’alterità tanto bramata:

Ci sono certamente delle ritirate tattiche che il desiderio non fatica a scoprire e che lo riconfortano, ma c’è anche la sincera e assoluta indifferenza degli altri esseri: nemmeno invulnerabili, semplicemente affascinati da qualcos’altro. La volontà di potenza porrà sempre al centro del mondo tutto ciò che non riconosce in essa il centro del mondo, e le riserverà un culto segreto. Non mancherà mai, insomma, di volgersi in risentimento. (99)

Ma la volontà di potenza è altro. È un’ontologia e una epistemologia dell’altrove, che in quanto tale non può concepire alcun risentimento: «Io sono troppo pieno e così dimentico me stesso, tutte le cose sono dentro di me e non vi è null’altro che tutte le cose. Dove sono finito io?» (Così parlò Zarathustra, variante al § 4 della Prefazione, p. 423, dell’edizione Adelphi delle opere). L’io non vuole più imitare né dominare il mondo poiché è diventato una cosa sola con esso.
Né solipsistico, né anticonformista, né minimalistico, l’io/mondo di Nietzsche è libero dalle contraddizioni e dalle strette di un «pensiero della differenza pura, senza identità» (145). La totalità pagana di corpo/mente/mondo -totalità che rappresenta il vero bersaglio dell’opera, di tutta l’opera, di Girard- non è il modello delle sindromi contemporanee. Girard sostiene che «i nostri disturbi alimentari non hanno alcuna continuità con la nostra religione: nascono nel neopaganesimo del nostro tempo, nel culto del corpo, nella mistica dionisiaca di Nietzsche, che fra parentesi è stato il primo dei nostri grandi digiunatori. I nostri disturbi alimentari sono causati dalla distruzione della famiglia e delle altre reti protettive che fanno fronte alle forze della frammentazione mimetica e della competizione, scatenate dalla fine dei divieti» (168). Ma la corporeità pagana è forma ed espressione dell’ironica serenità che nasce dalla misura e dall’accettazione della finitudine. Porla all’origine delle manifestazioni contemporanee dell’industria culturale e dell’ordine imitativo delle star spettacolari -dalla principessa Sissi alle attrici hollywoodiane- è semplicemente errato. Il doppio nietzscheano, il risentimento «che l’imitatore prova nei confronti del suo modello allorché questi ostacola i suoi sforzi per impossessarsi dell’oggetto sul quale entrambi convergono» (X), fa cadere anche Girard nella sindrome che egli denuncia.

Mente & cervello 89 – Maggio 2012

Partiamo da una questione che ho più volte affrontato: il rapporto tra determinismo neuronale e libero arbitrio. Se ne parla in una delle recensioni di questo numero di Mente & cervello. Sempre più, infatti, diventa chiara l’importanza dei fattori cerebrali che rendono inevitabili dei comportamenti che di solito riteniamo liberi. Quando tali comportamenti sono criminali si pone il problema della punizione dei colpevoli di fronte alla loro “incapacità di intendere e di volere”. È così pervicace la psicologia della colpa da nascondere il fatto che la punizione dovrebbe essere relativa al danno che si produce -che è un fatto più oggettivo- e non, appunto, alla colpa che rappresenta invece un dato più ideologico, frutto di una specifica e relativa visione del mondo. Edipo era naturalmente innocente dal punto di vista della colpa -ignorava che Giocasta fosse sua madre e Laio fosse suo padre- ma viene giustamente punito per il danno arrecato alla città. Se non si abbandona il paradigma ebraico-cristiano della colpa il problema della punibilità giuridica diventerà sempre più spinoso e, di fatto, irrisolvibile.
Anche sulle questioni cosiddette “morali” dovremmo imparare da altre specie. È quanto suggeriscono i risultati della ricerca del primatologo Frans de Waal, il quale sostiene giustamente che non è corretto dire di una persona che si comporta male che ‘è un animale’, «e che dovremmo usare questa espressione per descrivere qualcuno che si comporta bene» (Intervista di D. Ovadia, p. 58). In generale questo etologo ha dimostrato che altre specie -quali gli scimpanzé, ma non solo- sono capaci di comportamenti pianificati e intelligenti, che nutrono un assai spiccato senso della giustizia distributiva, che provano «le stesse emozioni che proviamo noi, almeno quelli più vicini a noi. Ma anche i ratti, quando si stimolano con elettrodi le aree cerebrali che negli esseri umani sono attive in condizioni di paura, mostrano espressioni facciali congruenti con questo sentimento. I neuroscienziati non hanno alcun problema ad ammettere questo dato, mentre per alcuni psicologi comportamentisti è ancora un tabù. Per loro le emozioni animali non esistono. Eppure sappiamo che le femmine di babbuino emettono gemiti strazianti per settimane dopo la perdita della prole, e che nelle feci delle scimmie che hanno perso un congiunto si trovano elevati livelli di cortisolo, l’ormone dello stress» (60).

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L'arte, il gioco, il desiderio

Mario Persico NO
MADRE – Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina – Napoli
A cura di Mario Franco
Sino al 19 marzo 2012

Esponente della Patafisica, Mario Persico ne dispiega tutta la carica distruttiva del potere e dei dogmi, coniuga impegno civile e accesi cromatismi, eros e politica. Perché l’opera d’arte non è una rappresentazione conclusa ma la sua disseminazione in una pluralità di significati. Al MADRE di Napoli si possono così gustare sedici opere divise in quattro sezioni: Scultura, Oggetti praticabili, Teatro, Erotismo. Il visitatore è spesso chiamato a diventare parte attiva attraverso le Opere estensibili, che possono mutare aspetto e forma mediante uno spostamento delle loro parti. L’opera si dispiega in questo modo non soltanto nello spazio ma anche nel tempo. Il tempo di chi ha guardato, oltre il tempo di chi ha ideato. Le Gru erotogaie mostrano la forza desiderante, la pulsione fisica dalla quale l’opera di Persico scaturisce. Sembra di vedere L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari farsi scultura, diventare la plastica manifestazione del desiderio animale che siamo. Quel desiderio senza il quale nessuna arte sarebbe mai nata. Il No che dà titolo alla mostra è un no alla riduzione dell’economia libidinale all’economia mercantile, un no alla miseria senza colori del presente. 

 

La malinconia delle labbra

This Must Be the Place
di Paolo Sorrentino
Con: Sean Penn (Cheyenne), Frances McDormand (Jane), Eve Hewson (Mary), Kerry Condon (Rachel), Harry Dean Stanton (Robert Plath), Olwen Fouere (la madre di Mary), Joyce Van Patten (Dorothy Shore), Judd Hirsch (Mordecai Midler), Heinz Lieven (Alois Lange), David Byrne (Se stesso)
Italia, Francia, Irlanda 2011
Trailer del film

Cheyenne è un cinquantenne che vive in un magnifico palazzo irlandese. Lo ha acquistato con i proventi della sua attività di rockstar. Attività che ha abbandonato da vent’anni ma che lo induce ancora a vestirsi e a truccarsi come faceva una volta. La sua vita procede tranquilla, annoiata, gravata da pesi e fantasmi che lo accompagnano discreti. Il padre, un vecchio ebreo di New York, sta molto male. Cheyenne parte con la nave  -teme infatti il volo- e arriva troppo tardi. Dai documenti lasciati dal padre scopre che questi ha cercato per tutta la vita un ufficiale nazionalsocialista che lo aveva umiliato ad Auschwitz. Comincia dunque a percorrere gli States per proseguire l’opera del genitore e la conduce a compimento. Può tornare in Irlanda ormai cresciuto, senza trucco e -per la prima volta- sorridendo.

Al di là della vicenda narrata, il film è molto bello per la capacità di Sorrentino di saper coniugare ancora una volta malinconia e grottesco. Cifra che era già esplicita ne Il divo e che qui si incarna perfettamente in un Sean Penn semplicemente straordinario, che non disegna un personaggio ma costruisce una vera scultura fatta di psiche, soma, sguardi, movenze, labbra, silenzi, voce (ho avuto la fortuna di sentire il film in lingua originale). Cheyenne era sempre rimasto un bambino ma attraversa in pochi giorni la vita e diventa un adulto finalmente liberato dal dover portare sempre con sé un trolley per la spesa o per il viaggio, chiaro simbolo di memorie irrisolte. Anche gli altri personaggi, situazioni, dialoghi sono simbolici, compreso l’incontro con il vecchio ufficiale delle SS e il contrappasso. Nonostante il pregiudizio freudiano (Edipo) al quale troppo si ispira, il film risulta miracolosamente lieve, puro cinema, intatto sogno.

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