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Il potere, il suo segreto

Il potere, il suo segreto

BREVIARIO DEI POLITICI secondo il Cardinale Mazzarino
A cura di Giovanni Macchia
Rizzoli, Milano 1989
Pagine XXXV – 160

Il teatro, il simulare e il dissimulare, il tacere e l’osservare, il conservare segreti propri e l’apprendere quelli altrui. Anche dalle pagine di questo sobrio manuale del potere il Seicento si delinea come un’età di vertigine. Il vortice della finzione afferra nel suo gorgo ogni attimo e tutte le azioni, sino a coinvolgere il Sé profondo.
Chi intenda, in qualunque ambito e a ogni livello, governare gli umani e le situazioni deve prima di tutto volgere lo sguardo su di sé per conoscere il limite che lo costituisce. Da questa amara ma serena consapevolezza di ciò che non si è si deve partire per diventare ciò che si vuole. Lo strumento principe è il segreto, quasi una metafisica ossessione di non apparire se non quando ogni rischio è cessato. Per conservare il segreto, l’Autore individua tre mezzi. Innanzitutto tacere: «Per lo più passatela in silenzio» (pag. 66), «parla pochissimo, perché è agevole a sdrucciolare in trascorsi di lingua, quando molto si discorre» (73). Poi simulare, fingere in ogni occasione «umanità e cortesia» (11), acquisire con ogni mezzo fama di uomo virtuoso e magnanimo, perché «se una volta hai guadagnato grado di grand’uomo, anche fallando, i falli stessi ti saranno attribuiti a gloria» (32). Infine e soprattutto dissimulare. In questo verbo prediletto dai trattatisti secenteschi si condensano il silenzio e la finzione. Non un’apologia della menzogna ma solo del nascondimento, poiché non è bene apparire sempre ciò che davvero si è. In tal modo, infatti, si offrirebbero troppi appigli ai nostri nemici per conquistare la nostra persona. E dunque «nell’apparenza esteriore vestiti di tutti contrarj affetti, a quei che nascondi nell’animo» (71).

Da tale gioco quasi geometrico di affetti, delusioni, illusioni e controlli si delinea, forse paradossalmente, una particolare forma di virtù. Quella per cui «bisogna nell’encomiare, o biasimare altrui, non isfogare in troppe esaggerazioni» (38); trattare «riverentemente con ognuno, come appunto egli fosse tuo Superiore» (76); «non far insulto a’ perditori» né ad alcun rivale, appagandosi «solo della vera vittoria» (55); non imbrattarsi «mai le mani dell’altrui sangue, per non alzar grido di sanguinario e crudele» (107) e piuttosto esser «mite, o fatti apprender tale da’ sudditi, che stretto, e rigoroso» (63). Una moderazione, un equilibrio, una magnanimità e prudenza direttamente commisurate alla potenza, anzi prova e indice chiarissimo di una potenza vera. Sta qui, in questo rispetto dell’avversario, anche quando lo si sta per rovinare, il realismo di Mazzarino, il suo segreto: «Prenda pur volentieri per se altri tutta la stima; tu va in traccia per te d’una ferma, e robusta potenza» (123).

Le vicende editoriali di questo testo, edito nel 1684 in latino, tradotto in italiano nel 1698; la questione del suo vero autore -forse non Mazzarino ma certo qualcuno che lo costruì «sulla sua ombra, sul fascino che essa esercitò» (p. XI); la ricchezza e la bellezza delle sue pagine, vengono chiarite nella splendida introduzione di Giovanni Macchia (già apparsa come testo a sé in Tra Don Giovanni e Don Rodrigo, Adelphi 1989, pp. 59-92), che di questo libro costituisce la vera, intima recensione.

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