La permanenza dei significati e delle intenzionalità è la memoria. Essa costituisce il nucleo più profondo della mente, quello in cui convergono la dimensione fisico-neuronale e quella coscienzialistico-immateriale. A questo tema sono dedicati alcuni degli articoli del numero di novembre 2008 di M&C. Anche il ricordare conferma che la mente non è una res ma è un fieri, non una sostanza ma una funzione. I ricordi, infatti, non vengono “depositati” in nessun cassetto ma «vengono creati modificando la forza delle connessioni tra centinaia, migliaia, se non milioni di neuroni, che facilitano la ricomparsa di schemi di attività specifici» (R.Stickgold e J.M.Ellenbogen, pag. 36); il sonno serve a consolidare -alla lettera- tali connessioni e quindi sembra finalmente chiarita la ragione per cui abbiamo bisogno di dormire: per fissare i ricordi e quindi per essere ancora noi stessi.
Anche altri animali e non solo mammiferi -i corvi, ad esempio- «hanno una memoria straordinaria, tanto da ricordarsi con precisione un volto umano, anche dopo parecchio tempo» (F.Sgarbossa, 21) e questo apre all’importante argomento della mente animale, affrontato da J.Vlahos dal punto di vista del disagio mentale, delle cure e dei farmaci che vengono erogati agli animali non umani. Il pregiudizio cartesiano è stato completamene smentito: gli animali «sviluppano malattie mentali che somigliano in maniera inquietante a quelle umane, e rispondono agli stessi farmaci» (52); e anche le ragioni sembrano analoghe, visto che molto del disagio mentale nasce «dalle vite innaturali che i proprietari li costringono a condurre» (56), vite, spazi e tempi innaturali anche per noi. Il sistema limbico, che controlla le emozioni, funziona infatti in modo assai simile in tutti i mammiferi. Darwin affermò giustamente che «la differenza tra la mente dell’uomo e quelle degli animali superiori, per grande che sia, certamente è una differenza di grado e non di genere» (cit. a p. 56).
L’animalità dell’Homo sapiens sapiens spiega anche la particolare attrazione dei maschi di questa specie -come anche di alcune scimmie- per la pornografia. La ragione è persino banale: «per i maschi è adattativo, cioè vantaggioso in termini evoluzionistici, essere reattivi di fronte alle possibilità di accoppiarsi, anche velocemente e senza troppo impegno, per diffondere i propri geni sul pianeta (…) E ai mammiferi maschi generalmente conviene tentare di fecondare il più alto numero di donne possibile e quindi essere veloce e ricettivo di fronte alla visione di una donna disponibile» (S.Bencivelli, 26-27).
Un argomento diverso e didatticamente assai utile è quello che concerne l’imperversare di psicologi e «neuromiti nelle scuole», come se presentarsi con un camice bianco o utilizzare un linguaggio neurobiologico attribuisse per ciò stesso una qualche verità ed efficacia alle affermazioni di molti sedicenti esperti dell’educare. E invece «gli insegnanti non devono abdicare la loro responsabilità di educatori delegando in modo acritico la loro competenza alle fandonie di divulgatori senza scrupoli» (R.Cubelli – S. Della Sala, 84). I due studiosi sostengono anche -e giustamente- che alla base di molti interventi inopportuni o dannosi delle neuroscienze in ambito didattico starebbe «la commistione tra mente e cervello diffusa anche tra gli addetti ai lavori, ossia l’idea che lo studio del funzionamento fisiologico e biologico del cervello sia sufficiente a comprendere i processi mentali e i meccanismi di acquisizione della conoscenza. Lo studio del cervello e lo studio dei processi cognitivi non sono sinonimi, non si pongono i medesimi obiettivi e rappresentano livelli di conoscenza diversi» (82).
Osservazioni critiche che ci riportano alla necessità di un approccio filosofico per la comprensione della mente e della memoria, come sostiene anche Nelson Cowan dell’Università del Missouri: «per determinare la verità sarà quindi necessario affiancare alle moderne tecniche di brain imaging i vecchi metodi comportamentali e il ragionamento filosofico sul funzionamento della mente. In un articolo del 1971 intitolato Art in Bits and Chunks, lo psicologo della percezione Rudolf Arnheim affermava che lo strumento più importante per uno psicologo è la sua poltrona. E questo sembra valido anche per le ricerche sul cervello» (49).
Segnalo, infine, una intrigante intervista di Loredana Lipperini a Francesco Dimitri, uno dei maggiori scrittori italiani di fantasy -che non è un genere per ragazzini o per sognatori…- autore di un romanzo dal titolo Pan ambientato in una Roma contemporanea attraversata dalla crudeltà orgiastica del dio greco. Dimitri sostiene che «i sogni scientifici stiano mostrando la corda e che siamo in tempi di risveglio: in questo senso l’arrivo di Pan è davvero imminente. Il che non significa diventare luddisti. Una parte degli avanzamenti scientifici sono stati non semplicemente anticipati dalla letteratura, ma condizionati. Penso a Verne. Al cyberpunk. E penso a Mark Pesce, l’inventore del Vrml (Virtual Reality Modeling Language), che è un occultista: e ha realizzato l’estensione tecnologica di una propria idea esoterica» (45). E comunque Pan non è mai morto, come ci ricorda Hillman, poiché egli è l’unità psicosomatica che siamo. È nel trionfo del corpo che -nonostante il grido riferito da Plutarco che pose fine al mondo antico- Pan è vivo e sempre lo rimarrà. Sempre, finché un corpo umano e animale pulserà del desiderio di vita e del suo terrore.
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