Skip to content

I Greci, il Liceo Classico e noi

I Greci, il Liceo Classico e noi

Questo articolo è stato pubblicato su Nuova Secondaria, anno XIV, numero 4 – dicembre 1996, pagine 28-29.

===============

Perché il Liceo Classico? Questa domanda -con tutto ciò che la presuppone e con le possibili sue conseguenze- merita una risposta che non sia polemica o contingente e neppure soltanto didattica ma culturale. Si tratta di un interrogativo che può essere formulato anche così: come presentare i Greci e i Romani alle nuove generazioni? Molte sono le civiltà trascorse, le culture e i popoli che hanno edificato strutture significative e hanno lasciato cospicue tracce di sé. Fra tutti questi mondi, perché soltanto i Greci-Romani e gli Ebrei rimangono in diverso modo vivi, presenti, familiari agli Europei?

La vicenda della ricezione dell’antica cultura greca in Occidente è davvero feconda e contraddittoria. Ogni epoca, gente, temperie ha recepito in maniera diversa quanto trasmesso da quell’antico popolo mediterraneo. “Necessità di mettere a distanza il mondo greco e sentimento di un legame forte con esso, visioni anticlassicistiche e classicismi si sono alternati e intrecciati e perdurano ancor’oggi”. È quindi necessario tentare di dare una risposta alla questione attraverso la conoscenza della stratificazione storica sulla quale tale domanda è lungamente cresciuta. Nella consapevolezza, quindi, che la Grecità è anche una immensa Wirkungsgeschichte, una complessa storia degli effetti, in ogni caso determinante -lo si voglia o no- per la nostra identità di Europei. Il confronto con essa rappresenta un crocevia, alla confluenza di identità e alterità. In ogni caso i Greci non ci sono mai indifferenti, non sono mai neutrali e proprio per questo è bene partire dall’assunto che comprendere è cogliere la diversità, non affermare l’identità.

Le radici storiografiche più recenti della questione stanno nel confronto fra il continuismo di Arnaldo Momigliano e il primitivismo di Moses Finley. Fra chi ritiene che gli elementi di somiglianza coi Greci siano superiori rispetto a quelli che da loro ci separano e chi è convinto del contrario, fra chi pensa che noi possiamo comprendere e rivivere alcune esperienze intellettuali con la stessa intensità con cui i Greci le vissero e chi ribadisce in primo luogo la totale alterità della società antica rispetto alla società medievale e di Ancien régime, per non parlare del mondo attuale. In ogni caso, “l’antichità greca, ironicamente distinta, radicalmente straniata oppure inserita in modo veemente e diretto, rimane una cifra cultuale, un contrassegno di ciò che è “elevato”, di distinzione e, insieme, di limpidezza, di ordine e di lucidità” (Aa. Vv. I Greci. Storia, cultura, arte, società, Einaudi 1996, vol.I, Noi e i Greci, p. 738), avvertendo però -come già scriveva von Humboldt a Goethe- che “sarebbe soltanto un inganno se noi desiderassimo di essere cittadini di Atene o di Roma antiche…l’Antichità deve apparirci come cosa distante, scevra di volgarità, quale mero passato”. L’imitazione creatrice dei Tedeschi, l’utopia spartana di Rousseau e dei Giacobini, la distanza posta da B. Constant fra la libertà degli antichi e la nostra, la politicizzazione del pensiero classico operata da H.Arendt in funzione antitotalitaria e quella opposta di K. Popper sono solo alcune delle tante maniere in cui i Greci sono stati presenti e vivi nel corso del tempo.

Forme contraddittorie che non sono dovute esclusivamente all’arbitrio degli interpreti bensì al fatto solo apparentemente ovvio ma spesso dimenticato che i primi a essere contraddittori sono gli stessi Greci. Essi inventarono la democrazia e rimasero irriducibilmente aristocratici. La loro volontà fu sempre quella di primeggiare: dall’oratoria alla virtù, dalla politica all’atletica. Costruttori dell’immagine europea dell’uomo, hanno dovuto -in tempi recenti- difendersi dall’accusa di essere razzisti e perfino totalitari (accusa e difesa entrambe naturalmente assurde) e se razzisti certo non furono perché esserlo non potevano, istituirono una netta differenziazione fra gli uomini che sanno e quelli che ignorano, ponendo i primi su un livello qualitativamente diverso dell’umano: “sono tre, secondo Finley, i motivi che hanno reso impossibile agli antichi di pensare l’eguaglianza: la scarsità di risorse e l’assenza dell’idea di progresso; l’idea secondo cui l’ineguaglianza era un fatto naturale; la piccolezza delle comunità al cui interno pensare l’utopia” (Ivi, pp. 893-894).

Fondatori di tante cose a noi familiari -a partire dalla stessa filosofia-, i Greci rimangono strani e stranieri anche perché del tutto pre-cristiani in una civiltà che del cristianesimo ha fatto uno dei suoi più forti elementi connettivi. Anche se “all’ellenismo il cristianesimo deve, in gran parte, il suo trionfo nel mondo antico […]..], il Vangelo si contrappone radicalmente alla “saggezza” greca. Atene e Gerusalemme saranno sempre le capitali di due regni, due regni che quaggiù non si concilieranno mai del tutto. Nietzsche l’aveva visto chiaramente”. E infatti la svolta da quest’ultimo impressa alla concezione della Grecità si colloca certamente al di là di ogni classicismo o anticlassicismo, di qualsiasi imitazione o rifiuto e cerca di cogliere -pur nelle sue contraddizioni- la specificità e il senso dei Greci: “anziché argomentare in favore dell’ “attualità della cultura greca”, ci chiederemo piuttosto se avesse ragione Nietzsche di dire che “Se davvero comprendiamo la cultura greca, ci rendiamo conto che essa è finita, e per sempre” (Noi e i Greci, p. XXXVI). Finita come è finita ogni esperienza che non si esprime più per bocca di uomini viventi e lascia che a parlare sia la messe -sterminata- delle sue tracce, finita perché in altro inglobata e assimilata, finita perché irriducibilmente enigmatica.

E tuttavia anche oggi come spesso è accaduto nel passato emerge un’evidenza: i Greci ci sono ancora maestri. Se in gran parte è vero che “la componente dinamica della generazione giovanile, sensibile ai problemi del nostro tempo, naturalmente e semplicemente non si cura dell’antichità” (Ivi, p. 714), ciò testimonia non della sua creatività e autonomia ma esattamente del contrario. Della dipendenza, cioè, da agenzie di formazione tanto superficiali quanto violente, politicamente connotate al disimpegno e quindi alla servitù. Affrancarsi dai Greci e dai Romani non vuol dire per ciò stesso diventare liberi se a essi si sostituisce una spenta apparenza di pensiero e non la forza di incominciare con coraggio da capo. Più forte delle mode del momento e anche più resistente delle indagini -giustamente- demistificatrici è la realtà di una radice di fatto inestirpabile: “I Greci sono la personificazione di un inizio. L’Europa moderna non può rifiutare questa eredità” (Ivi, p. 938). Ché non solo di radici e di eredità si tratta ma di futuro. Ecco perché nessuna ipotesi di riforma della Secondaria dovrebbe ignorare la specificità dell’istruzione classica. Identità che non si conserva rimanendo fermi a un insegnamento esteriore -per intenderci, soltanto grammaticale- della cultura greco-romana ma neppure annegando tale specificità nella liceizzazione di tutta la Secondaria, prospettiva che costituisce uno dei punti deboli dell’ipotesi Brocca. Il sapere è uno ma i modi di articolarlo e trasmetterlo sono differenti. Non è con l’insegnare a tutti un simulacro di Platone che si arricchisce il bagaglio culturale dei ragazzi. La Grecità è anche una tecnica, ha un suo linguaggio e degli strumenti propri ed è necessario salvaguardare uno spazio nel quale la sua complessità non vada del tutto smarrita. Un nuovo Liceo Classico, quindi, consapevole delle sfide sempre nuove che l’attualità culturale e civile pone all’Istituzione scolastica (ad esempio, con l’ovvia prosecuzione al triennio della lingua straniera). Proprio in vista di esse, è opportuno ribadire il significato e il valore che gli studi classici conservano di fronte alla complessità dei saperi e delle economie. Insegnare a pensare e agire in maniera critica e autonoma rimane infatti l’indispensabile presupposto di ogni società che non voglia essere solo avanzata ma anche libera. Le componenti più avvertite e aggiornate della cultura contemporanea sanno bene quale importanza rivesta a tale scopo un’adeguata conoscenza della civiltà greco-romana e della sua attualità.

Ci auguriamo che la riforma ormai urgente degli indirizzi e dei piani di studio della Secondaria sappia tenerne conto. Ciò che manca, infatti, alla cultura contemporanea è fra le altre cose l’umiltà intellettuale, la disponibilità ad apprendere dal passato senza credersi -hegelianamente- il punto d’arrivo d’ogni itinerario. Apprendere e non imitare. Questa seconda attitudine è perfino eccessiva, come dimostra l’affermarsi del post-moderno e dei suoi usi dell’antico. Apprendere implica infatti non la citazione ma il render vivo quanto dal passato più o meno lontano giunge sino a noi, reinventandolo per noi, in maniera quindi non antiquaria o ironica o classicheggiante. Ma questa è sempre la cosa più difficile. “In realtà la cultura contemporanea, bianca e nera, non ha nulla da perdere, e molto da guadagnare, se, riconoscendo […] il suo debito nei confronti dell’esperienza greca, si sforza di riappropriarsi in modo costruttivo del valore che gliene appare più autentico” (Ivi, p. 1013). Termini come ‘miracolo’, ‘perfezione’, ‘modello’, ‘sublime’ o anche ‘classico’ hanno probabilmente fatto il loro tempo e il disincanto sul sapere e sugli uomini è parte fondamentale del sapere e dell’umano. Nel desacralizzare ciò che siamo e produciamo -passato o presente che sia- risiede in gran parte la fecondità del moderno. Greci senza miracolo, quindi. Essi, “si scopre, sono molto più interessanti dei Greci del “miracolo”” (Ivi, p. XXX), ma non è forse questo il miracolo? Sarebbe imperdonabile -oltre che infinitamente sciocco- rinunciare ai suoi effetti nella nostra scuola, nella nostra società.

Vai alla barra degli strumenti