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Mente & cervello 73 – Gennaio 2011

«La nostra esperienza del mondo, e la capacità di interagire con esso, passa interamente per il nostro corpo», esso «è l’oggetto di gran lunga più familiare al mondo», tanto che gli strumenti -l’artificio– costruiti per estendere le capacità delle mani diventano per il cervello esattamente come le mani, una loro parte naturale (P.Haggard e M.R.Longo, pp. 102-103).

L’insieme di strutture e funzioni che è il corpo è capace di individuare prima di tutto i volti di altri umani, poiché è attraverso loro che transitano le intenzioni amichevoli oppure ostili, affettuose o indifferenti, in una parola transita la relazionalità. E poiché la visione è un insieme di «processi probabilistici con cui il cervello costruisce la realtà» (G.Sabato, 105), i volti sono in gran parte il risultato di una costruzione del tutto mentale, sul fondamento anche di pochissimi e scarni dati empirici. Si osservi la locandina del film Premonition e se ne avrà un esempio, uno soltanto tra le migliaia che è possibile indicare. A pag. 71 di questo numero di Mente & cervello, infatti, alcune efficaci immagini impongono al lettore la percezione di un viso anche là dove ci sono soltanto «una sala sbarrata da un cordone, una penna USB, un rubinetto, un vecchio telefono, una palla da bowling e un ciocco di legno» (S.Martinez-Conde e S.L.Macknik). «Ciò che vedo è un significato», afferma Wittgenstein (Osservazioni sulla filosofia della psicologia, I, § 869, Adelphi 1990, p. 246) e ha perfettamente ragione, anche perché «gran parte della nostra esperienza quotidiana è data da analoghi processi di riempimento degli spazi vuoti tra un’informazione e l’altra, in cui prendiamo ciò che sappiamo del mondo e lo usiamo per immaginare quel che non sappiamo» (S.Martinez-Conde e S.L.Macknik, 81). La visione, insomma, è un complesso processo predittivo e inferenziale, nel quale le strutture empiriche, i dati forniti dai cinque sensi e dall’intera superficie del corpo, vengono continuamente decifrati, in un vero e proprio lavoro volto a sciogliere la complessità dell’ambiente, degli altri umani, dello spaziotempo. L’obiettivo è vivere ancora, vivere per sempre. Lo strumento più realistico per raggiungere tale scopo è il generare. Anche per questo è per noi così potente l’amore, un sentimento che consiste in gran parte in una «illusione cognitiva» e che crea una tale dipendenza da far sì che «il legame di coppia monogamo si basa sui medesimi circuiti cerebrali della ricompensa che sono responsabili della dipendenza dalle droghe […] perdere la persona amata è un po’ come dover affrontare una sindrome d’astinenza»  (Id., 80; ne avevamo discusso anche qui).

Ma se il nostro desiderio di sopravvivenza è tanto grande da affrontare per esso le fatiche più grandi e i dolori più intensi, come si spiega il suicidio? Si spiega in modo multicausale. Nessun motivo isolato può condurre un umano a togliersi la vita ma un insieme di fattori ci riesce senz’altro. Uno dei più importanti è quello ereditario: «avere casi di suicidio in famiglia aumenta di due volte e mezza la probabilità di cadere vittima dello stesso destino» (K.Springen, 88); lo conferma Leonardo Tondo discutendo del caso Monicelli, il cui padre «morì suicida, e questo è in accordo col dato che il suicidio ha una componente ereditaria che passa attraverso la presenza di un disturbo depressivo» (p. 7). Concorrono poi tanti elementi ambientali, le più diverse vicende dolorose, un’indole più o meno coraggiosa, la ricorrenza di pensieri di morte, le difficoltà relazionali, l’autolesionismo, l’abitudine a farsi del male progressivamente più intenso, una situazione/circostanza favorevole alla messa in atto dell’intenzione suicida. Tutto questo contribuisce alla recente scoperta di «un segnale di allarme anatomico della depressione grave, e quindi di un futuro desiderio di morire, […] un assottigliamento medio del 28 per cento della corteccia cerebrale nell’emisfero destro in 66 persone appartenenti a famiglie con casi di depressione grave, messe a confronto con 65 soggetti di famiglie senza casi riportati. Più della metà dei figli di persone colpite da depressione grave presentava questa caratteristica strutturale, fin dai sei anni» (K.Springen, 88). Al di là, comunque, del fattore neurologico/quantitativo, una delle condizioni dell’atto suicida è forse uno sguardo sul mondo al confine tra follia e lucidità, dove il secondo elemento è importante quanto il primo.

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