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L'inconsistenza dell'attore

Somewhere
di Sofia Coppola
USA, 2010
Con Stephen Dorff (Johnny Marco), Elle Fanning (Cleo Marco)
Trailer del film

Johnny è una stella del cinema. Ricchissimo, pigro ma diligente, vive in un residence di Los Angeles, passa la maggior parte del tempo a dormire, colleziona facili conquiste femminili, si fa guidare sul lavoro dalla sua agente, trascorre qualche giorno al mese con la figlia undicenne Cleo. Johnny come uomo non esiste. Non sa pronunciare una frase lunga più di dieci parole, non legge nulla, si diverte coi videogiochi, passa dalla California a Milano senza notare le differenze; gli alberghi, infatti, sono tutti uguali nella loro lussuosa solitudine. Quando l’ex moglie gli lascia la figlia per una decina di giorni, la vita sembra risvegliarsi. Tornato da solo, piange e dice a se stesso di «non essere niente».

Tutto il film (vincitore del Leone d’Oro 2010) è gettato sul corpo di Stephen Dorff, molto bravo a rendere questo nulla di malinconia e di finzione che è l’attore. L'(auto)critica dello star system hollywoodiano è tanto più dura quanto più è pacata. La costruzione della disperazione procede con la tranquilla inesorabilità di un piano inclinato. In una scena chiave, il volto di Johnny viene coperto dai truccatori con una maschera di gesso che lo lascia completamente solo dentro l’inconsistenza di un burattino. Non è facile vivere, ma forse è ancora più difficile non esistere. Anche quando si abitano dei non luoghi, si è sempre da qualche parte.

6 commenti

  • Campo Paolina

    Settembre 22, 2010

    Molto belli quei versi, professore Biuso.
    ” …si è sempre da qualche parte.” Mi viene in mente il protagonista de ” L’isola del giorno prima” di Umberto Eco. Roberto de la Grive, solo in mezzo all’oceano, dopo avere considerato il modo d’essere di una pietra, decide di buttare in acqua gli orologi stipati in una cabina della nave, che continuavano a segnare un tempo che non era più il suo. Decide allora di lasciare l’imbarcazione e dirigersi a nuoto verso quell’isola dove il sole sorge da una parte e tramonta dall’altra. Si trova sul 180°meridiano, punto della terra sul quale passa per convenzione la linea del cambiamento di data.

  • Anatol

    Settembre 22, 2010

    Si, il corpo è soprattutto altro e questi versi lo testimoniano puntualmente. Ma vorrei chiarire meglio il mio pensiero sul passo di Bene. Non credo sia rintracciabile il dualismo in quelle parole, credo che il corpo di cui parla Bene non è il corpo isotropo di pulsioni, esperienze, emozioni nello spazio e nel tempo ma è la maschera di gesso che riduce Johnny nel film all’inconsistenza del burattino, come lei puntualmente evidenzia. La maschera di gesso o il pinocchio di Bene sono simulacri dell’impredicabilità e inespressività del contemporaneo da parte di un individuo sempre più precipitato e non riconciliato nell’umano capace soltanto di una fisicità scialba, abbozzata ma soprattutto fittizia, incapace di ricondursi all’armonia di «un liquido profluvio dello scambio
    che fa di due nature un solo enigma
    “. Senza uscita è l’individuo che non sa vedere in se un dispositivo semantico ma solo un simulacro in una chiusa complessità irriducibile, nel senso che gli può dare Michael Behe, al mondo.

    Anatol

  • Biuso

    Settembre 21, 2010

    @Anatol
    Ah! Anche l’immenso Carmelo Bene precipita a volte nel dualismo.
    Il corpo è certamente anche quella sostanza umidiccia e putrescente ma non è soltanto questo ed è soprattutto altro.
    È, ad esempio, ciò che si può leggere nei versi seguenti:
    «un liquido profluvio dello scambio
    che fa di due nature un solo enigma,
    la stessa guerra, la pace e il silenzio».

  • Anatol

    Settembre 21, 2010

    Mi pare di percepire un filo sotterraneo in questo film al cui vertice si trovi Carmelo Bene ed il suo “precipitare nell’umano”: “È tutta la vita che tolgo di scena il burattino, l’incubo di un pezzo di legno che ci si ostina a voler farcire con carne marcia. Precipitare nell’umano – che parola schifosa – questa è la disavventura. Gli anatomisti gridano al miracolo quando parlano del corpo umano. Ma quale miracolo?! Un’accozzaglia orrenda, inutilmente complicata, piena di imperfezioni e di cose che si guastano.”

  • Laura Caponetto

    Settembre 20, 2010

    Nella vita di ogni uomo, ci sono dei momenti morti. Ma ce ne sono molti di più nella vita priva di interessi e arida di affetti di Johnny Marco. Sofia Coppola li ritrae per mezzo di lunghe inquadrature su scene spesso silenziose. La colonna sonora è ridotta ai minimi termini, più che altro si tratta di musica diegetica on-screen (la fonte sonora è all’interno della scena, ad esempio proveniente dallo stereo che le due ballerine di lap dance portano in camera di Johnny).
    Il tormento che deriva a Johnny dagli sms che riceve sul cellulare sembra essere il suo stesso tormento interiore, realizzato nell’affermazione finale (“non sono neanche un uomo, non sono niente”), che sintetizza ciò che gli sms dicevano a più riprese.
    Johnny non è in grado di formulare un discorso. Per di più, ogni qual volta si presenti l’occasione di pronunciarne uno, non gli è consentito farlo (in conferenza stampa, i giornalisti fanno domande a ruota non concedendogli l’opportunità di rispondere; quando vince il telegatto, le ballerine irrompono sul palco non appena prende il microfono in mano). Ciò denota la scarsa considerazione, per lo meno dal punto di vista intellettuale, che hanno di lui le altre persone ed, inoltre, è manifestazione esteriore della consapevolezza che matura in Johnny nel corso del film (la consapevolezza della nullità del suo io).
    Nonostante la bravura della regista nel conciliare tematica e realizzazione (colonna sonora minima, scene lunghe e scarsamente interconnesse), “Somewhere” non mi è piaciuto. O quanto meno, non lo rivedrei.
    Il film, completamente incentrato sul personaggio protagonista, tratta tutti gli altri come comparse, non approfondendone la psicologia, le motivazioni e le affermazioni. Trama inconsistente perché si narra di un’esistenza inconsistente, ma lo spettatore dopo la prima mezz’ora sbadiglia.

  • diego b

    Settembre 19, 2010

    ho sempre pensato che un attore deve esser vuoto, dentro, per meglio esser riempito dal personaggio che interpreta

    però di questi tempi, l’esser vuoti è divenuto in sè il valore, il modello di comportamento, per cui non si imita più l’eroe che l’attore impersonifica, ma proprio l’attore, tanto vuoto quanto famoso

    a volte l’autenticità è peggiore di una buona e volenterosa finzione

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