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Confessioni di un malandrino

Confessioni di un malandrino

Confessioni di un malandrino
Angelo Branduardi
(Da La Luna, 1975)

Исповедь хулигана, Confessioni di un teppista è il titolo della poesia che Sergéj Aleksándrovič Esénin scrisse nel 1920 e che Branduardi adattò dalla bella traduzione in italiano di Renato Poggioli. Ogni verso del poeta russo è intessuto di memoria, di metafore, di malinconia e di serenità. Si tratta di una composizione potente nel dire l’esistenza e il suo fluire.

Mi piace spettinato camminare
col capo sulle spalle come un lume,
così mi diverto a rischiarare
il vostro autunno senza piume.

Mi piace che mi grandini sul viso
la fitta sassaiola dell’ingiuria.
Mi agguanto solo per sentirmi vivo
al guscio della mia capigliatura.

Ed in mente mi torna quello stagno
che le canne e il muschio hanno sommerso
ed i miei che non sanno di avere
un figlio che compone versi.

Ma mi vogliono bene come ai campi
alla pelle, ed alla pioggia di stagione.
Raro sarà che chi mi offende scampi
dalle punte del forcone.

Poveri genitori contadini
certo siete invecchiati e ancor temete
il signore del cielo e gli acquitrini,
genitori che mai non capirete
che oggi il vostro figliolo è diventato
il primo tra i poeti del paese,
ed ora in scarpe verniciate
e col cilindro in testa egli cammina.

Ma sopravvive in lui la frenesia
di un vecchio mariuolo di campagna,
e ad ogni insegna di macelleria
alla vacca s’inchina, sua compagna.

E quando incontra un vetturino
gli torna in mente il suo concio natale.
E vorrebbe la coda del ronzino
regger come strascico nuziale.

Voglio bene alla Patria,
benché afflitta di tronchi rugginosi;
m’è caro il grugno sporco dei suini
e i rospi all’ombra sospirosi.

Son malato d’infanzia e di ricordi
e di freschi crepuscoli d’aprile,
sembra quasi che l’acero si curvi
per riscaldarsi e poi dormire.

Dal nido di quell’albero le uova
per rubare salivo fino in cima,
ma sarà la sua chioma sempre nuova
e dura la sua scorza come prima;
e tu mio caro amico vecchio cane
fioco e cieco ti ha reso la vecchiaia,
e giri a coda bassa nel cortile,
ignaro delle porte dei granai.

Mi son cari i miei furti di monello
quando rubavo in casa un po’ di pane,
e si mangiava come due fratelli,
una briciola l’uomo ed una il cane.

Io non sono cambiato,
il cuore ed i pensieri son gli stessi
sul tappeto magnifico dei versi
voglio dirvi qualcosa che vi tocchi.

Buona notte! La falce della luna,
sì cheta mentre l’aria si fa bruna
Dalla finestra mia voglio gridare
contro il disco della luna.

La notte è così tersa,
qui forse anche morire non fa male.
Che importa se il mio spirito è perverso
e dal mio dorso penzola un fanale.

O Pegaso decrepito e bonario
il tuo galoppo è ora senza scopo.
Giunsi come un maestro solitario
e non canto e non celebro che i topi.
Dalla mia testa come uva matura
gocciola il folle vino delle chiome…
Voglio essere una gialla velatura
gonfia verso un paese senza nome.

***********************

A nove/dieci anni tornavo da scuola – nessuno ci accompagnava, nessuno veniva a prelevarci, eravamo bambini liberi – ed ebbi un litigio con un coetaneo vicino di casa. La zuffa fu violenta, non ricordo chi prevalse ma rammento in modo netto che rivolgendomi al collega gridai: «Ti distruggo!» e giù botte.
Poi nei pomeriggi con lo stesso bambino e con altri giocavamo a calcio nella ruga, evidente francesismo per dire ‘via, strada’. Una strada in pendenza ma il pallone andava lo stesso su e giù dalle nostre gambe. Non passavano quasi mai, ovviamente, delle automobili. Più frequenti erano i contadini che tornavano in paese a dorso della besta, del loro mulo.
Ed era tra di noi un pullulare di altre attività, giochi, avventure, anche lontani dal quartiere; lungo le strade, nelle piazzette, nei crocicchi.
Autonomi, fisici, sociali. Questa è la condizione affinché un cucciolo di umano cresca. È triste vedere persone che oggi hanno nove-dieci anni stare sempre sotto la protezione della mamma, attaccati ai cellulari, sostanzialmente alienati. Ed è invece una gioia avere avuto la fortuna di crescere come un piccolo malandrino. Ciò che sono lo devo in gran parte a quegli anni di aggressività, di comunanza, di libertà.

2 commenti

  • Dario Generali

    Gennaio 30, 2025

    Caro Alberto,
    capisco benissimo quello che intendi. Le nostre sono generazioni cresciute in modo molto più autonomo delle attuali.
    A Milano, a sei anni, avevo le chiavi di casa (cosa per cui oggi toglierebbero l’affido alla famiglia) perché i miei genitori lavoravano entrambi. Andavo e tornavo da scuola da solo e, dopo aver pranzato con mio padre, che lavorava in un ufficio del centro e che quindi poteva tornare a casa per la pausa pranzo, rimanevo a casa da solo tutto il pomeriggio, facendo i compiti e studiando senza che nessuno dovesse controllarmi o sostenermi.
    Quando poi, durante le vacanze, andavo a Silvera con i miei nonni, mi trasformavo in un parziale selvaggio. Alla mattina facevo i compiti delle vacanze, ma nel pomeriggio mi univo agli altri bambini del luogo facendo di tutto, dalle capanne costruite sulle piante nei boschi, alle battaglie fra bande rivali a fiondate a ogni altro genere di monelleria, come, per esempio, stuzzicare nidi di vespe e calabroni nei muri a secco accanto alle strade, stando poi ad aspettare, a debita distanza, qualche passante ignaro costretto a darsi velocemente alla fuga per evitare le punture delle vespe inferocite.
    Naturalmente mia nonna vigilava al possibile sui miei comportamenti e tutto questo lo facevo di nascosto, solidale con i miei amici del paese. Per esempio mi era proibito tenere una fionda, per cui ne avevo costruita una di nascosto, che celavo nel pianoforte che era stato di mia madre ragazza e che si trovava a piano terra, in una posizione che mi permetteva di non farmi scoprire da mia nonna quando la prendevo prima di uscire, perché senza non si poteva stare, dato che era la principale arma di difesa e di offesa.
    Tutto questo ha naturalmente contribuito a forgiare il nostro carattere, come hanno contribuito diversi insegnanti liceali con atteggiamenti ben poco comprensivi, ma sicuramente formativi.
    Noi siamo cresciuti sapendo che ogni cosa doveva essere duramente conquistata, che la nostra sopravvivenza nel mondo dipendeva dalle nostre capacità di difesa, che ogni nostra azione aveva una conseguenza e che per poterla sfuggire si dovevano avere particolari cautele e che, comunque, il rischio di avere ritorsioni era sempre presente.
    In breve, con questo addestramento, ci siamo addestrati alla vita, alla sua durezza e quindi alla capacità di affrontare ogni avversità.
    Non posso quindi che comprendere sino in fondo quello che dici e condividerlo totalmente.
    Un caro saluto.
    Dario

    • agbiuso

      Gennaio 30, 2025

      “Tutto questo ha naturalmente contribuito a forgiare il nostro carattere, come hanno contribuito diversi insegnanti liceali con atteggiamenti ben poco comprensivi, ma sicuramente formativi.
      Noi siamo cresciuti sapendo che ogni cosa doveva essere duramente conquistata, che la nostra sopravvivenza nel mondo dipendeva dalle nostre capacità di difesa, che ogni nostra azione aveva una conseguenza e che per poterla sfuggire si dovevano avere particolari cautele e che, comunque, il rischio di avere ritorsioni era sempre presente”.

      Ecco, caro Dario, una sintesi perfetta della pedagogia che ci ha plasmati, dell’essere bambini e ragazzi in una società e in un tempo, gli anni Cinquanta-Settanta, enormemente più liberi di quelli del XXI secolo.
      Siamo stati fortunati, molto fortunati, a crescere permeati di durezza e libertà; ho pietà, sincera pietà, nei confronti di bambini, ragazzi, giovani universitari che sono invece cresciuti nella schiavitù della bambagia, nella paura di ogni possibile trauma.
      E provo disprezzo, un disprezzo totale, per i pedagogisti e i docenti di ogni ordine e grado che hanno privato queste persone del travaglio del negativo, del rischio, del profumo mirabile della libertà, della vera libertà.

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