Marcel Proust
(Le Temps retrouvé, 1922; Gallimard, 1954)
Trad. di Giorgio Caproni
Einaudi, 1978
Pagine XVIII- 437
I nuclei narrativi che concludono il grande affresco sono tre: la guerra, l’opera, il tempo.
Parigi durante la guerra, coi suoi misteriosi e grotteschi personaggi, i suoi segreti di città orientale, il suo volto raffinato e decadente, costituisce l’ultima grande aggiunta -suggerita e quasi imposta dagli avvenimenti stessi- all’originario progetto della Recherche. Qui è ancora una volta protagonista il personaggio più grande, forse il più amato dall’Autore: il barone di Charlus.
Il trionfo del Tempo si esprime attraverso tre intense immagini: la maschera che si posa sui volti, rendendoli negli anni irriconoscibili; il «teatrino di marionette immerse nei colori immateriali degli anni, di marionette che esteriorizzavano il Tempo: il Tempo che, d’ordinario, non è visibile, che per diventar tale va in cerca di corpi e che, dovunque li incontra, se ne impossessa per mostrar su di loro la propria lanterna magica» (p. 258); «i vivi trampoli crescenti senza posa» (391) sui quali gli umani si muovono fino a che non riescono più a reggere la distanza tra il mondo da cui sono germinati e il tempo al quale sono pervenuti.
La meditazione conclusiva sul Tempo viene introdotta mediante l’ultimo personaggio che appare nel romanzo: la figlia di Gilberte Swann e Robert de Saint-Loup. Personaggio senza nome essendo in effetti una metafora nella quale convergono le due strade di Méséglise e di Guermantes, apparse all’inizio dell’opera inconciliabili. In questa ragazza la cui bellezza è segno della giovinezza perduta del Narratore si celebra il trionfo della vita, del tempo e della dissoluzione: «così muta l’aspetto delle cose di questo mondo; così il centro degli imperi e il catasto dei patrimoni e la mappa delle situazioni sociali, tutto ciò che sembrava definitivo viene incessantemente rimaneggiato, e gli occhi d’un uomo che ha vissuto possono contemplare il più completo sconvolgimento proprio là dove gli sembrava più impossibile» (360).
Tempo e Opera sono inseparabili poiché essa «è il solo mezzo per ritrovare il Tempo perduto» (231). L’arte riconcilia con il dolore e con la morte. L’uno è l’ispiratore, l’altra è la ragione stessa per la quale l’opera esiste. L’ «Adorazione perpetua» fa dell’opera e della vita una sola realtà: «la vita vera, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita quindi realmente vissuta, è la letteratura», «l’arte è il fatto più reale, la più austera scuola di vita, e il vero Giudizio finale» (227 e 211). Di notte, poiché di essa e del silenzio i libri sono figli, il Narratore costruirà la sua cattedrale di parole.
La gioia per l’Opera conclusa si coniuga alla modestia che induce il Narratore a rivolgersi a chi lo ha letto non come a un semplice fruitore di pensieri altrui ma come a un lettore di se stesso «essendo il mio libro qualcosa di simile a quelle lenti d’ingrandimento che l’ottico di Combray porgeva al cliente; il mio libro grazie al quale avrei fornito loro il mezzo di leggere in loro stessi. Dimodoché io non avrei domandato loro né di lodarmi né di biasimarmi, ma soltanto di dirmi se è proprio così, se le parole che essi leggono dentro di sé son proprio quelle che io ho scritte» (375). Sì, sono le stesse.
[Le mie riflessioni sugli altri sei volumi della Recherche si possono leggere qui: La strada di Swann, All’ombra delle fanciulle in fiore, I Guermantes, Sodoma e Gomorra, La prigioniera, La fuggitiva ]
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8 commenti
agbiuso
Esattamente un secolo fa, il 18 novembre 1922, moriva Marcel Proust.
Moriva? Quest’uomo è vivo e lo rimarrà sino a quando gli umani saranno immersi nelle loro passioni e cercheranno di comprenderle.
«Ses livres, disposé trois par trois, veillaient comme des anges aux ailes éployées et semblaient pour celui qui n’etait plus, le symbole de sa résurrection» “«i suoi libri disposti a tre a tre vegliarono come angeli dalle ali spiegate e sembravano, per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione»
(La Prisonnière, in À la recherche du temps perdu, Gallimard, 1999, p. 1623).
Alberto G. Biuso
Ha ragione, Sabina. Più in generale, la Recherche è romanzo ed è critica, è letteratura ed è filosofia. È invenzione e insieme è analisi -quasi in vitro– del processo creativo.
Da qui scaturisce la particolare -e secondo me del tutto plausibile- concezione che Proust ha del leggere. Anche contro il suo amato Ruskin, e prima ancora contro Descartes, egli pensa «che la lettura non può esser assomigliata a una conversazione, foss’anche con il più saggio degli uomini (…) in quanto la lettura, al contrario della conversazione, consiste per ciascuno di noi nel ricever comunicazione del pensiero di un altro, ma restando pur sempre solo, ossia continuando a godere della potenza intellettuale che si possiede nella solitudine e che la conversazione dissipa immediatamente» (Giornate di lettura, Il Saggiatore 1979, p. 134).
Forse anche per questo il vecchio professore protagonista di Gruppo di famiglia in un interno afferma che ha dovuto isolarsi dagli umani per poter apprezzare davvero le loro opere. E sappiamo quanto Luchino Visconti amasse Proust, fino a coltivare il progetto -mai realizzato, ahimè- di trarre un film dalla Recherche.
Sabina Corsaro
Lo sguardo sulla critica e sulla ricezione delle opere di Proust apre la discussione su quanto una critica, talvolta anche errata ma potente, possa stroncare autori e opere di notevole valore, declassando il meritevole tra le mere appendici o tra gli scantinati dei programmi ripetitivi e logori.
La sperimentazione su autori come Proust dovrebbe avere il solo scopo di trovare nuove vie, nuovi approcci, senza creare effetti distruttivi su tutto ciò che è stato operato precedentemente; su questo sono d’accordo con France, ma lo sperimentalismo, a mio avviso, è sempre meglio del già detto (pur se banale o riduttivo). I grandi Critici e Lettori proustiani restano sempre quelli, nella loro alcova insostituibile e immortale: dobbiamo però decidere se continuare ad emularli per sempre o rischiare di operare anche mostruosità decidendo di tentare di vedere altre cose, attraverso altri metodi.
Il tempo ritrovato, ci dice Proust, è il momento in cui ogni uomo diviene consapevole del libro che si cela in lui; il momento in cui viene svelata la storia intima di ogni individuo. E’, in modo più esatto, il tempo di ogni uomo contenuto nell’animo ma non ancora scovato, poiché la foschia delle apparenze, delle convenzioni, la mania della ricerca portano lontano da quel qualcosa che invece è già dentro noi.
Il libro della propria esistenza è il fine ultimo allora e Proust più volte si paragona ad un aspirante scrittore, che rincorre con avidità e disperazione l’ispirazione, come ogni uomo rincorre il significato ultimo della sua esistenza.
In tutto ciò cosa che posto ha allora la lettura?
Per Proust la lettura è l’atto primo della scrittura, senza essa non esiste scrittura: così fecero i Maestri, così faranno gli allievi e i proseliti. La lettura svela dei misteri ma può anche aprire le porte infernali del vizio ed ecco perché Proust si allontana poco per volta dal suo Maestro (Ruskin), poiché essa non sempre conduce alla saggezza. A quella spiritualità (saggia o meno) si accede scavando dentro le tane delle resistenze del nostro pensiero razionale, dentro l’antro più buio presente in ciascuno di noi.
Trovo meravigliose le parole di Pietro Citati:
“Proust non era un io, ma un luogo – e questo luogo era un’immensa arnia ronzante, un profondo e scuro pozzo vuoto, un mostruoso apparato ricettivo… Proust non cessò mai di essere un luogo … Col tempo avrebbe scoperto che quel punto isolato era il centro della terra: si allargava, si estendeva, ampliava il proprio orizzonte”.
(Pietro Citati, La colomba pugnalata, Mondadori, 1995).
Sabina Corsaro
Caro prof. Biuso, grazie per il termine ‘specialista’ datomi, ne sono lusingata ma preferisco definirmi un’appassionata, una conoscitrice appena avviata ed una buona lettrice di Proust.
L’idea di aprire un argomento su Proust è una cosa che mi alletta moltissimo e continueremo con queste digressioni e spero che interverranno tutti gli estimatori e conoscitori (in particolare attendo l’intervento di France, che conosce persino i ‘luoghi’ proustiani (mi sono giocata la mia amicizia con lei ormai, lo so!) 😕
Per quanto riguarda la lettura, ci sarebbe un bel dibattito da riprendere, su quella che è la funzione che lui attribuisce ad essa. Proust ritiene che può persino divenire un vizio, è vero, e come tale può portare ad una sorta di perdizione, poiché estranea l’uomo dal mondo, lo fa sprofondare nella parte più interiore di sé, quella parte che comprende anche la zona più oscura.
P.S. Vado di fretta ma riprenderò e approfondirò questo discorso.
Alberto G. Biuso
Certo, cara Sabina. La madre/nonna del Narratore è una figura essenziale. Ma a me interessa quella, appunto, del Narratore; una presenza esplicitamente fondamentale. La madre di Marcel Proust mi interessa meno proprio (anche) sulla base di quanto lo scrittore afferma nell’opera da lei ricordata: «è assurdo voler giudicare, come Sainte-Beuve, il poeta in base all’uomo o alle testimonianze dei suoi amici». Proust accusa in modo assai diretto l’opera di Sainte-Beuve di non essere «profonda» anche perché il suo metodo «disconosce quel che c’insegna una frequentazione un po’ approfondita di noi stessi. Ossia, che un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi» (Contro Sainte-Beuve, in “Giornate di lettura”, Il Saggiatore 1979, pp. 253 e 188-189).
Visto che lei di Proust è una specialista, sono contento di questo comune riferimento critico.
Sabina Corsaro
Non potevo non intervenire su Proust, è un autore che ‘mi appartiene’ in un certo senso, come ‘appartiene’ a molti altri che scrivono su questo forum. Non solo Jaspers afferma che «un’opera deve essere valutata esclusivamente sulla base del suo contenuto spirituale: la causalità sotto il cui influsso qualcosa è creato, non dice nulla sul valore della creazione stessa» ma è lo stesso Proust ad affermarlo e per giunta in un’opera che sarà una sorta di raccolta di considerazioni che faranno da lavoro preparatorio alla stessa Recherche: Contre Sainte-Beuve. Del critico Proust non accetta il metodo positivista secondo il quale Flaubert ed altri autori vengono conosciuti e valutati secondo lo studio delle loro biografie. Cioè la ricerca di osmosi tra intenzione poetica e biografia, personalità.
Anch’io ritengo che gli autori sono prima di tutto le loro opere e solo conoscendo tutte le opere di quell’autore è possibile trarne dei giudizi critici, come sosteneva Proust . Penso che la critica psicoanalitica sia però talvolta interessante anche se forse non sempre utile e tuttavia la figura della madre nell’opera proustiana, e ‘quindi’ nella vita, è sotto qualsiasi prospettiva essenziale no?
Alberto G. Biuso
Sono sempre felice di incontrare altri lettori della Recherche. Grazie quindi, cara Sabina, per questa risposta così densa e competente.
Aggiungo che le letture psicoanalitiche delle opere letterarie non mi convincono molto -anche se negli scorsi decenni sono state dominanti- per diverse ragioni, una delle quali è l’applicazione dello stesso stampo a libri diversissimi tra di loro.
Più in generale, diffido dei riferimenti alle personalità e alle biografie degli Autori. Concordo con Jaspers quando afferma che «un’opera deve essere valutata esclusivamente sulla base del suo contenuto spirituale: la causalità sotto il cui influsso qualcosa è creato, non dice nulla sul valore della creazione stessa» (Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia 1996, p. 104).
Nel corso di Filosofia della mente dell’a.a. 2005-2006 (dedicato al tema della memoria) ho tentato quindi una lettura teoretica del Temps retrouvé.
Al di là del Proust ripudiato e osannato sta, come lei giustamente rileva, la stupefacente melodia della scrittura, nell’originale certo ma anche nelle ottime traduzioni che per fortuna sono disponibili in italiano.
Spero di leggerla ancora a proposito di Proust!
Sabina Corsaro
Incantevole questa prospettiva, prof. Biuso,che amplia la grandezza di un’opera come quella della Recherche considerata tra i grandi capolavori del Novecento letterario.
Su Proust e la Recherche è stato scritto di tutto. La critica ha estratto virtù inimitabili dell’artista, vizi impenitenti di un uomo considerato pederasta, sadico, onanista. Un Proust ripudiato, per le sue patologie; un Proust osannato, per l’invenzione di un linguaggio ricco di verità interiori. La critica nel tempo ha presentato una personalità schizofrenica. Trovo interessante, tra le altre cose, un aspetto rilevato dalla critica di orientamento psicanalitico che paragona la Recherche ad un vero e proprio procedimento psicanalitico che riconduce il paziente verso il suo passato ( J. Y. Tadié cita il lavoro compiuto in tal senso dal Dott. Milton L. Miller ad esempio).
In questa prospettiva l’episodio della Madeleine, ad esempio, assume un significato ben preciso che riconduce all’atto del nutrimento, della suzione e quindi, ancora una volta, alla figura della madre. Lejeune invece si sofferma sul discorso della reminiscenza intesa nella Recherche come un’allusione esclusivamente sessuale: il tempo ritrovato non sarebbe altro che il tempo in pieno sviluppo, il tempo che esplode “il tempo dell’orgasmo” scrive J. Y. Tadié nella sua opera critica su Proust; tempo che viene espresso dietro la metafora dell’ispirazione estetica.
E poi la melodia della scrittura proustiana ne Il tempo ritrovato:
“In arte… in ogni momento l’artista deve ascoltare il proprio istinto… Soltanto l’impressione… è un criterio di verità e perciò soltanto essa merita d’essere appresa dallo spirito, come la sola capace… di condurlo a maggior perfezione e di offrirgli un godimento puro” (Il tempo ritrovato, Mondadori, 1970, p. 181)