Teatro Greco – Siracusa
Prometeo incatenato
di Eschilo
Traduzione di Roberto Vecchioni
Scene di Federica Parolini
Costumi di Silvia Aymonino
Con: Alessandro Albertin (Prometeo), Deniz Ozdogan (Io), Michele Cipriani (Efesto), Davide Paganini (Kratos), Silvia Valenti (Bia), Alfonso Veneroso (Oceano), Pasquale De Filippo (Ermes)
Regia di Leo Muscato
Sino al 4 giugno 2023
Un solo umano appare in questa tragedia. Una donna, una ragazza che però umana non è più. È stata infatti trasformata in vacca dalla gelosia di Era ed è costretta a vagare tra l’Europa e l’Asia, sospinta da un tafano che non le dà pace e sorvegliata da Argo, bovaro dai cento occhi. Vittima dunque dell’amore di Zeus, che distrugge i mortali (anche Semele, madre di Dioniso, ne è stata vittima). Ma gli umani stanno dappertutto, di loro si parla senza posa, sono una delle ragioni dell’inchiodatura del Titano alle montagne della Scizia. Anche gli umani sono infatti vittima di un dio, vittima dell’amore per loro, della filantropia, di Prometeo, senza i cui doni si sarebbero estinti: il fuoco, l’energia, la mente, la tecnica. E soprattutto il dono del futuro che si dischiude dall’ignorare la data della propria morte. Senza tutto questo, senza Prometeo, gli umani sarebbero finiti nella pace dei Trausi, sarebbero scomparsi. E invece gli ἐφήμεροι, efficacemente tradotto con «creature dalla breve luce» (vv. 83, 253, 547 e 945), sono ancora qui, a transitare effimeri nel fiume del tempo che siamo.
Giustamente dunque Zeus ha punito il Titano, al quale tuttavia deve molto della vittoria sua e degli altri dèi contro le antiche divinità della terra, del cosmo, della morte e del tempo. Prometeo viene punito senza possibilità che egli muoia; a lui, infatti, questo dono è precluso: «ὅτῳ θανεῖν μέν ἐστιν οὐ πεπρωμένον: αὕτη γὰρ ἦν ἂν πημάτων ἀπαλλαγή; perché a me dal destino non è dato di morire: perché, è vero, la morte è la fine di tutte le pene» (vv. 753-754; trad. di M. Centanni).
E invece Prometeo deve stare inchiodato lì, nelle lande più desolate del mondo, restituite sulla scena nella forma di un’archeologia industriale che produce soltanto ruggine, fuochi e stridore. Qui lo raggiungono le figlie di Oceano e Oceano stesso, tutti affranti per quanto al Titano sta accadendo.
Qui lo raggiunge Io, alla quale Prometeo predice il futuro di gloria, nonostante la penombra del male che dovrà ancora attraversare; qui lo raggiunge Ermes, che gli ordina in nome di Zeus di chiarire le inquietanti profezie dal Titano enunciate contro il dio. Ma Prometeo respinge sarcastico questa richiesta e il fuoco della Terra lo inghiotte, senza poterlo comunque distruggere.
Così si conclude Προμηθεὺς δεσμώτης; il Titano sarà poi liberato arrivando a un accordo con Zeus. Ma la sua abilità, per quanto immensa, pari a quella del sovrano del cielo, è anch’essa secondaria, è una «τέχνη δ᾽ ἀνάγκης ἀσθενεστέρα μακρῷι; un’arte di gran lunga meno potente della necessità» (v. 514); Necessità, Ἀνάγκη, è la vera signora, padrona e destino di tutto. I mortali, poi, come tutti i βίοι, come tutti i viventi, sono davvero il limite dell’essere, il confine del niente, una goccia del tempo, un riflesso di luce, il luogo dove la materia, gli atomi, le molecole, trovano velocemente la propria dissipatio, la μεταβολή, la trasformazione incessante nell’alterità della morte per tornare al carbonio primordiale, al residuo delle stelle dalla cui potenza anche i viventi sono stati generati.
Alla pretesa di Zeus di dominare l’intero, alla pretesa di Prometeo di salvare gli ἄνθρωποι, risponde con il suo fragoroso silenzio la ὕλη, la Materia, che del Tempo è l’altro nome. Prima degli ἐφήμεροι stanno le potenze gorgoglianti e senza fine, le «Μοῖραι τρίμορφοι μνήμονές τ᾽Ἐρινύες; le Moire dai tre volti e le Erinni, demoni della Memoria» (v. 516) e le «Φορκίδες ναίουσι δηναιαὶ κόραι / τρεῖς κυκνόμορφοι, κοινὸν ὄμμ᾽ ἐκτημέναι, / μονόδοντες, ἃς οὔθ᾽ ἥλιος προσδέρκεται / ἀκτῖσιν οὔθ᾽ ἡ νύκτερος μήνη ποτέ; Forcidi, le tre vecchissime fanciulle dall’aspetto di cigno, che hanno un occhio solo fra tutte e un dente per una; mai si espongono ai raggi del sole, mai alla luce della luna notturna» (vv. 794-797).
Eschilo è questo accenno all’indicibile, all’incomprensibile, all’unione di tenebra e luce, alla potenza che era, che è e che sarà. Eschilo è il fondamento.
[Le immagini sono di Davide Amato e Sarah Dierna]
1 commento
agbiuso
Stefano Piazzese, un mio allievo siracusano, mi ha segnalato i problemi che stanno investendo il Teatro Greco e che l’articolo che qui copio ben riassume.
Ci sono molti modi di essere barbari: uno di questi è pensare che siccome un edificio unico e prezioso come il teatro della Neapoli si trova nel territorio del comune di Siracusa e in Sicilia, i siracusani e i siciliani ssono suoi padroni e possono farne ciò che vogliono.
No, il Teatro di Siracusa appartiene a tutti coloro che amano i Greci, ovunque si trovino, appartiene alla nostra identità di europei, appartiene a tutti gli individui civilizzati e che non siano, appunto, dei barbari.
Sembra che, dopo l’intervento collettivo degli archeologi, il Teatro Greco non ospiterà più concerti, i quali però sono stati spostati nella vicina Ara di Ierone, sempre all’interno del Parco Archeologico. Siracusa possiede uno stadio; si svolgano in quella sede i concerti che attirano migliaia di persone a ballare e a saltellare…
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«Così uccidete il Teatro Greco di Siracusa», il j’accuse dell’archeologo
«E’ una situazione surreale: mentre gli archeologi mettono in evidenza la sua fragilità, fisici e geometri replicano che sta benissimo. E’ come se ad un paziente la diagnosi la facesse un ingegnere»
di Francesco Nania | La Sicilia, 22.2.2023
«Quella del Teatro Greco è una situazione surreale: mentre gli archeologi e gli studiosi mettono in evidenza la sua fragilità, fisici e geometri replicano che sta benissimo. E’ come se ad un paziente, con una grave patologia, non fosse il medico a fare la diagnosi ma un ingegnere».
L’archeologo Fabio Caruso non usa mezzi termini per spiegare quale sia il senso del dibattito che da più di un anno è vivo in città sull’utilizzo del teatro antico del Parco archeologico della Neapolis in vista della prossima stagione in cui, sulla scorta della partecipazione di pubblico, l’offerta concertistica è aumentata.«Stiamo assistendo a un dibattito – dice Caruso – spesso strumentalizzato dalla politica per interessi che non collidono con la salute del bene archeologico e con l’interesse generale a tutelarlo. Ho sempre detto che per affrontare la questione occorra, innanzitutto, il buonsenso, non foss’altro per l’unicità del nostro teatro».
Fabio Caruso, archeologo
Caruso ricorda che il teatro sul colle Temenite ha 2500 anni e che, al contrario degli altri, è stato costruito sulla pietra calcarea. «Sbaglia di grosso chi paragona il nostro teatro a quello di Taormina – dice l’archeologo – per il quale sono stati eseguiti importanti interventi alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso e periodicamente necessita di un maquillage come avvenuto di recente per alcune sedute rovinate. Si dirà, anche l’Arena di Verona ospita spettacoli e concerti di musica rock e pop, ma anche quell’anfiteatro romano ha subito numerose trasformazioni e restauri come quello avvenuto nel Cinquecento. Al contrario, quello siracusano è rimasto originale proprio perché scavato nella roccia. Le uniche mutilazioni subite hanno riguardato la parte superiore della cavea per l’utilizzo delle pietre per la costruzione di nuovi edifici».
Caruso ricorda che la pietra del Teatro Greco è fragile. «E’ giusto che i monumenti vivano e non siano super protetti come il teatro di Dioniso ad Atene ma è altrettanto vero che bisogna utilizzarli cum grano salis». Altro aspetto importante è relativo alla gestione dei beni culturali.
«E’ consolidato da più parti che nelle Sovrintendenze ci siano sempre meno archeologi e ciò incide molto sulle scelte da operare per la tutela dei monumenti. Basta ricordare illustri archeologi del passato come Brea, Pelagatti, Voza e tanti altri per comprendere come avveniva la gestione dei beni, a cominciare dal teatro antico. Le Rappresentazioni Classiche, ad esempio, si svolgevano ogni due anni e il lasso di tempo ricorrente fra i due cicli di spettacoli classici, facevano eseguire la manutenzione. Oggi, invece, sembra esserci una sorta di ostracismo nei confronti degli archeologici e i risultati sono quelli che commentiamo».
Per entrare nello specifico dei concerti programmati al Teatro Dreco, Caruso è lapidario: «Gli effetti roboanti del sistema di amplificazione, al pari delle migliaia di spettatori che ballano sui gradoni al ritmo della musica sfrenata, provocano un danno alla pietra del teatro e non mi si venga a dire che la copertura di legno sia la soluzione ideale per salvaguardarlo perché si tratta pur sempre di un’opera di carpenteria che da qualche parte deve poggiare».
Insomma, per Caruso, che da quarant’anni studia e fa l’archeologo, quello che è in atto a Siracusa è «un triste dialogo tra sordi e chi si azzarda a fare affermazioni contrarie all’utilizzo del teatro per i concerti, è ricoperto di insulti. Eppure oggi non c’è un archeologo o un geologo disposto ad affermare che queste scelte siano corrette. Adesso che il dibattito coinvolge l’intera nazione, forse qualcosa può cambiare ma serve la consapevolezza che il Teatro Greco sia patrimonio di tutto il mondo, tutelato dall’Unesco. Il teatro è una scultura e come tale va salvaguardato anche indossando le pantofole come soleva dire un sovrintendente. Sappiamo che la sua pietra sia alveolata e ha bisogno di un importante restauro e allora ci si concentri su come intercettare i fondi necessari anziché esporla a ulteriori sollecitazioni che accelerano la morte del monumento».
Poi, l’ultima considerazione: «Noi studiosi, viviamo con dolore l’indifferenza attorno a un problema importante che è la vigilanza sul teatro e sulle nostre radici».
«E’ giusto che i monumenti vivano e non siano super protetti come il teatro di Dioniso ad Atene ma è anche vero che bisogna utilizzarli… cum grano salis»