Dune
di Denis Villeneuve
USA, 2021
Con: Timothée Chalamet (Paul Atreides), Rebecca Ferguson (Lady Jessica), Oscar Isaac (Il duca Leto Atreides), Stellan Skarsgård (il barone Harkonnen), Charlotte Rampling (La reverenda madre Mohiam), Chen Chang (il Dottor Wellington Yueh), Jason Momoa (Duncan Idaho), Javier Bardem (Stilgar), Zendaya (Chani)
Trailer del film
Le aride colline libanesi, il cerchio del tempo, le potenti strutture che si sbriciolano e il pesante rumore dell’acciaio erano alcuni degli elementi di precedenti film di Denis Villeneuve.
Essi convergono in Dune e si aprono alla forma che sempre sottende l’opera di questo regista: il mito. Che qui trova una vertiginosa condensazione di modi e narrazioni. La casa regnante si chiama Atridi; il giovane protagonista appare spesso una sorta di Amleto; la forza fisica si coniuga a possanza interiore; gli animali non umani vengono continuamente evocati: dai topi ai mezzi di trasporto che sono chiaramente delle libellule meccaniche, da piccoli insetti artificiali e velenosi agli enormi, enigmatici e inquietanti vermi del deserto che scavano le dune al suono ritmato dei corpi o di altre macchine; le potenze malvagie gorgogliano da liquidi e liquami e si sollevano nello spazio in tutto il loro orrore, come ben sanno le più arcaiche fiabe di ogni epoca; le potenze complici dell’Imperatore hanno un nome simile a quello dei collaboratori del funesto Demiurgo gnostico: Harkonnen; le antiche Madri continuano a tessere il destino di ogni cosa.
E su tutto il duplice mito dal quale è nata la letteratura in Europa: la guerra (Iliade) e il viaggio, il ritorno (Odissea). In questa sorta di antologia dei poemi fondativi, i pianeti si moltiplicano e gli umani -o altre entità antropomorfe e consapevoli- appaiono sempre più insignificanti e schiacciati dalla forza immensa degli spazi e delle macchine.
Sono queste ultime, le macchine, l’elemento peculiare di Dune, ancor più del deserto immane, ospitale e ostile. Macchine gigantesche, ciclopiche e massicce, che tuttavia si alzano in volo, sfrecciano nello spazio, poggiano lievi sulle superfici. Autentici palazzi galattici azionati da leve e strutture del tutto e pesantemente meccaniche, che non possiedono niente di virtuale, nulla di algoritmico, non sono dei software e sono composti invece di pietra, di cemento, di acciaio. O di qualcosa che alla pietra, al cemento e all’acciaio rimanda.
È questa realtà solida, imponente e poderosa che permette non soltanto alle coscienze di essere composte «della materia di cui son fatti i sogni» (Shakespeare, La Tempesta) ma anche ai sogni, come Dune, di essere composti della materia di cui son fatti i macigni, della materia delle rocce, del fuoco e delle galassie. Di materia è intessuta la realtà e non di formule interiori e digitali nelle quali l’umanità vagheggia e anela il proprio sopravvivere. Tranne poi, e come sempre, morire.
4 commenti
Davide Amato
Caro professore,sono rimasto molto colpito dalla sua recensione su questo film, e ciò mi ha indotto sia a guardarlo che ad approfondire l’universo fondato da Frank Herbert, quello di Dune. Non posso che confermare il suo giudizio e apprezzare le sue osservazioni sul film e sul regista. Questa prima parte (nel 2023 uscirà la seconda) è senz’altro una profonda introspezione del personaggio principale, Paul, e del suo rapporto con la madre; ma è anche, in piena coerenza con il primo libro (che sto finendo in questi giorni), un’introduzione di quel mondo ostile e per certi versi infernale che è Arrakis.
Sono due gli aspetti che mi hanno colpito più di questa storia: 1) il fatto che, nell’anno 10.000, l’essere umano viene descritto da Frank Herbert come un essere capace di sviluppare le proprie capacità a tal punto da essere superiore all’intelligenza artificiale, per questo del tutto assente dalla storia. Lo dimostrano le capacità delle Bene Gesserit di controllare non solo la volontà altrui tramite la Voce, ma anche ogni singola azione, emozione, processo interno al proprio corpo (ad esempio la capacità di annullare tramite la volontà l’effetto di un veleno ingerito).
2) Il fatto che Herbert abbia saputo descrivere un essere umano che pur a distanza di millenni non è cambiato nei suoi istinti più congeniti: la volontà di prevaricazione, il desiderio di arricchimento, l’innata violenza insita nel suo essere. Ma Herbert con i Fremen prospetta anche qualcosa di diverso: un popolo che, essendosi abituato a vivere nelle più aspre avversità, ha appreso non solo a essere più letale dei soldati Sardaukar (l’élite privata dell’Imperatore), ma anche a trasformare un pianeta infernale in un paradiso abitabile. Per la prima volta, come dice l’autore del libro, gli umani modificano la natura non per distruggerla a proprio vantaggio ma per renderla abitabile e prospera.
Grazie dunque anche per questo suo contributo.
Un caro saluto
agbiuso
Grazie a lei, caro Davide, per delle osservazioni così intense e profonde.
Esse arricchiscono la recensione mettendo in evidenza aspetti da me non toccati e che confermano la valenza antropologica di Dune.
Elvia
Grazie Alberto, sembra molto bello , ma ho il sospetto che sia la tua scrittura a rendere tutto molto bello!
agbiuso
Grazie a te, Elvia 🙂
Il film merita di essere visto; la condizione naturalmente è che piaccia anche il genere cinematografico nel quale si inscrive. In ogni caso, ritengo Villeneuve uno dei registi più epici e visionari del presente.