Teatro Greco – Siracusa
Coefore / Eumenidi
di Eschilo
Traduzione di Walter Lapini
Musiche di Andrea Chenna
Scene di Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi
Video design: D-Wok
Con: Giuseppe Sartori (Oreste), Anna Della Rosa (Elettra), Laura Marinoni (Clitennestra), Stefano Santospago (Egisto), Maria Laila Fernandez, Marcello Gravina, Turi Moricca (Le Erinni), Olivia Manescalchi (Atena), Giancarlo Judica Cordiglia (Apollo), Maria Grazia Solano (la Pizia), Sax Nicosia (voce e immagine di Agamennone)
Regia di Davide Livermore
Sino al 31 luglio 2021
Un’opera lirica. Con musicisti e pianisti sulla scena e con le voci intense delle Coefore a gorgogliare il dolore. Con, in un momento della trama, in sottofondo anche le musiche di Memorial di Nyman.
La Madre Terra dalla quale tutto sgorga. La Notte, che ha generato le Erinni, la Moira, la Furia. È nelle loro mani il destino degli umani. È nelle mani, negli sguardi, nella profondità di queste potenze sovrane dell’oscurità, accompagnate dal Coro che narra atroci vicende. Le quali però con una progressione di implacabile razionalità trasformano la giustizia della Vendetta nella giustizia dei Tribunali. Per volontà di Apollo e di Atena, vale a dire di Zeus. E così nasce la città umana, la πόλις. Così Eschilo. La sua energia.
Tutto questo diventa invece nel progetto e nella regia di Davide Livermore una parodia. Una parodia nella forma spesso di un musical. Come nella orrenda canzoncina finale. Volontà parodistica che, attenuata, funzionava nella Elena di due anni fa, che di per sé è una tragedia assai particolare, dalla tonalità più lieve e con un lieto fine. Ed è Euripide. Qui invece è Eschilo, che significa la fondazione stessa del mondo sulla materia violenta dei corpi. Non a caso, invece, i corpi degli ateniesi chiamati a stabilire giustizia tra Oreste e le Erinni sono delle sagome metalliche accese di fuoco e spente di esistenza. E se Apollo e le Erinni lottano in un corpo a corpo non soltanto verbale ma proprio fisico, lo fanno dopo essere apparsi le une in dorati abiti da sera sberluscenti e l’altro in tenuta da cameriere d’alto bordo. Non solo. Apollo parla proprio con il birignao dei padroni dei camerieri d’alto bordo. Mani in tasca. Atteggiamento svagato. Dizione strascicata.
Così come Atena e altri personaggi, immersi in una recitazione da commediola novecentesca, nella quale le parole di Eschilo rischiano semplicemente il naufragio. Atena, inoltre, è doppia. Una elegante signora che declama e poi una giovane modella in posa, che fa -alla lettera- la bella statuina. Per concludersi tutto, insieme alla ricordata canzonetta finale, sulle immagini di Aldo Moro nella Renault, delle stragi di Bologna e di Capaci e altre italiche tragedie.
Perché è grave? Perché mostra da parte del regista una radicale sfiducia in Eschilo e nella tragedia. Come se le parole dei Greci avessero bisogno di essere ‘attualizzate’ da questi abiti, da questa recitazione, da queste immagini. E dalle pistole. Sì, ci sono anche delle pistole utilizzate a destra e a manca come nei cartoni animati, nei quali le vittime della pistolettata risorgono pimpanti per essere di nuovo colpite.
Eschilo è ‘attuale’ sempre. Lo è perché sa che di fronte alla Necessità siamo tutti servi. Perché sa che il sangue/biologia non può essere cancellato da nessun pensiero/volontà ma, semmai, soltanto attenuato e indirizzato. Livermore sembra invece condividere il puro culturalismo contemporaneo, uno dei maggiori equivoci del presente. E dei più superficiali.
L’elemento più radicale, più greco e più bello di questa messa in scena è la sfera/video che accompagna l’intero spettacolo, che genera di continuo forme e colori di pece, di fuoco, di oceani, di magma, di Soli, di fango. E che diventa anche lo spettro di Agamennone, il velato, la voce, lo stridore dei morti. Se gli attori -è un’iperbole ovviamente- si fossero semplicemente limitati a leggere Eschilo sullo sfondo di tale sfera e vestiti come noi tutti, la tragedia sarebbe stata tragedia. Perché la potenza delle parole e dei pensieri di Eschilo vince anche sulle trovate di Livermore, sulla riduzione dei Greci a volgari gangster degli anni Venti del Novecento. Le parole di Eschilo.
«Ho ottenuto il successo:
legare spietate,
possenti creature divine ad Atene.
È loro campo fatale reggere
l’universo umano: chi non ebbe mai caso
d’incrociarle rabbiose, ignora
la fonte dei colpi che devastano la vita»
(Coefore, vv. 928-934, trad. di Monica Centanni)
3 commenti
Enrico
Caro professore, d’accordo con lei inserisco qualche breve riflessione sullo spettacolo.
Questo spettacolo potrebbe essere riassunto in una sola parola, che utilizzando un eufemismo, o un sinonimo più elegante rispetto alla parola che ho in mente, potrebbe suonare come pastrocchio. Le idee prese per sé sole potevano risultare se non vincenti almeno intriganti, come il coro lirico, la vaga ambientazione degli anni ‘20 e ‘30 (che per la verità ricordano più le feste di Jay Gatsby o gli Untouchables di De Palma, dato anche che Oreste prima del processo finale un intoccabile pur diviene), l’uso disturbante degli effetti vocali, le musiche da opera buffa (in altri momenti forse un richiamo alle sonorità, stavolta certamente eschilee, del Lontano di Ligeti), le incomprensibili sparatorie, lo schermo al centro della scena ancorché con alcune belle immagini di stelle infuocate, venti, onde, fumo, luce. Ma accostati gli uni agli altri, piuttosto che creare un risultato ordinato e coerente, questi elementi mancano del tutto il senso greco di Eschilo e il messaggio di giustizia che doveva erompere dalla risoluzione dello squilibrio delle forze che gli umani, con le loro azioni, avevano scatenato.
La resa è assai impastoiata, di uno shocking ormai trito, banale e per certi aspetti anche patetico. Tanto valeva, per dirne una, ambientare la scena nella Bisanzio della Tarda Antichità, magnificamente adusa agli intrighi di palazzo e alle uccisioni seriali di famiglia, e far parlare quell’altro capolavoro che sono le Carte segrete di Procopio. Oppure la scenografia considerata nel suo complesso, una rievocazione del Ponte Morandi di Genova, rispetto alla quale tuttavia almeno io, pur sforzandomi di tenere a mente il principio gadameriano per cui ogni interpretazione è un’applicazione, non colgo alcun nesso né con Eschilo né tantomeno con la rappresentazione in sé.
Una volta abituatisi a un Apollo quasi negli improbabili panni di Humphrey Bogart di Casablanca, che dispensa dritte come un saggio al quale ci si rivolge per dirimere una rissa o un affare criminale andato male, alle orribili Erinni (tali non per via del potente ritratto che ci consegnano il testo eschileo e la tradizione mitologica, bensì per gli abiti di paillettes dorate che invece di incutere sacro timore davano un’impressione di ridicolo e di grottesco), a una Clitennestra e a un Egisto sciatti e sdruciti bevitori, e persino a una telefonata tra gli dèi Apollo e Atena, il testo sembra finalmente emergere soltanto nella conclusione di Eumenidi, certamente non per merito di Livermore ma della potenza di Eschilo.
Per di più, le immagini finali delle grandi stragi impunite della nostra storia repubblicana, che dovrebbero ricordare la validità della giustizia e dei tribunali che in Eumenidi viene fondata nel sacro consesso dell’Areopago, mi sono sembrate non solo fuori luogo ma anche in questo caso travisare Eschilo in un modo, è triste da dire, ormai strumentale. È vero che c’è un appello a che non avvengano lotte fratricide o delitti tra concittadini, e le vittime di mafia sono tra questi, ma c’è un quid più profondo che mi sembra non essere stato nemmeno toccato, o peggio lasciato inevaso, cioè quella giustizia che per Eschilo risiede e consiste nei rapporti di sangue, nelle relazioni tra marito e moglie, tra chi genera e chi viene generato, laddove la pace nella città e tra i popoli è da intendersi come il frutto dell’equilibrio e della serenità custoditi in seno al focolare domestico. Di ciò mi pare che non ci sia stata neanche l’ombra, e se il senso esistenziale più radicale della civiltà greca è vivere nella misura e nella moderazione per essere felici, lo spettacolo di Livermore ha peccato proprio di vacua saccenteria e di stucchevole superbia. Ciò che bisogna fare è rievocare l’eterno di Eschilo, non quindi fare montature degne del peggiore intrattenimento televisivo. Come anche non ritenere, avendo compreso la notte della Vendetta e delle Furie che l’Orestea ci mostra, che sia possibile rappresentare Eschilo, pensando ancora a Fitzgerald, come Tender is the night.
agbiuso
Caro Enrico, la ringrazio per questa sua recensione davvero completa ed esatta di Coefore/Eumenidi.
Ho apprezzato per intero la sua analisi e in particolare i riferimenti del tutto corretti a Fitzgerald e la chiarezza con la quale indica la «vacua saccenteria» e la «stucchevole superbia», ahimè, di questo modo di ignorare completamente i Greci, e non soltanto Eschilo.
Il modo in cui descrive le «orribili Erinni» mi ha fatto amaramente sorridere per il mancato rispetto da parte di Livermore della potenza teologica e politica di questo testo fondante la nostra civiltà.
Tina Messineo
È Eschilo, appunto!
Basta questo:
«Ho ottenuto il successo:
legare spietate,
possenti creature divine ad Atene.
È loro campo fatale reggere
l’universo umano: chi non ebbe mai caso
d’incrociarle rabbiose, ignora
la fonte dei colpi che devastano la vita»
Basta questo, perché la vita è tragedia senza orpelli, sempre, anche quando ti opponi ai suoi ‘colpi’. Difficile che non li si senta!