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Androidi

Androidi

Philip K. Dick
Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
(Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968)
Traduzione di Riccardo Duranti
Introduzione e cura di Carlo Pagetti
Postfazione di Gabriele Frasca
Fanucci, 2003
Pagine 286

Nel suo ancora barocco e già postmoderno e visionario romanzo, Dick ha attinto alla propria lucida capacità di comprendere le tensioni della contemporaneità radicandole nel presente antichissimo dei simboli e dei miti gnostici. In Do Androids Dream of Electric Sheep? l’abominio della desolazione di cui parlava il profeta antico assume tutta la fisicità della “palta” (kipple, nell’originale), l’inarrestabile avanzare della polvere, dei rifiuti, del disordine.
La vittoria da sempre stabilita dell’entropia che si estende su tutte le cose, che diventa tutte le cose perché implicita nella «dispotica forza del tempo» (pag. 88) trasforma gli esseri viventi, gli oggetti, le città, la terra «nell’abietto abisso del mondo della tomba» (96) dal quale spira «il fetore della morte» (32) e un silenzio che si riverbera come un bagliore, che percuote il mondo «con una tremenda energia assoluta, come venisse generato da un’immensa turbina» (44). Una desolazione che «era sulla scia di tutte le cose» (238) perché fondamento di ogni cosa creata, generata dalla stessa sostanza dell’ombra difettosa, assurda, atroce da cui un funesto demiurgo ha tratto ogni entità apparentemente reale.
Tale è il fondamento metafisico -coerente sino al dolore- di questo libro. Ma, appunto, Do Androids oltrepassa la grande tradizione gnostica rendendola ancora una volta uno sguardo della mente teso a comprendere il presente e –rispetto all’epoca in cui il romanzo venne scritto, il 1968- a capire ciò che presente sarebbe diventato, ciò che ora è divenuto reale: l’ibridazione, la trasformazione degli umani in parti e strutture dei computer e della Rete. Umani, noi, che lavorano, insegnano, apprendono, dialogano, fingono di incontrarsi rimanendo per intere giornate fermi davanti a un monitor (si chiama digital labor; espressioni come ‘lavoro agile’ e ‘smart working’ sono degli eufemismi ideologici), abitatori di un mondo privo di spessore, carne, calore, fatto di algoritmi e non di corpi; un mondo alienato alla radice, i cui effetti sulla salute e sulla relazionalità vanno diventando pericolosamente chiari.
Nel romanzo di Dick l’ibridazione assume la tonalità anche ironica dell’assenza di un criterio che consenta davvero di distinguere chi fra i vari personaggi è un umano e chi un androide. Buster Friendly e i suoi inesauribili amici televisivi sono chiaramente delle macchine mediatiche; l’ispettore Garland si rivela ben presto anch’egli un droide; il divino Wilber Mercer è un invecchiato fotogramma che si ripete all’infinito; gli animali abitano sempre al confine tra naturalità ed elettronica –soprattutto il gatto del capitolo 7 che Isidore non riesce a salvare-; Rachel è una macchina colma d’amore e d’inganni, di quell’inganno che l’amore è sempre, e gli stessi cacciatori di taglie, Rick Deckard compreso, non sono sicuri della propria identità. «E così la distinzione tra esseri umani autentici vivi e strutture umanoidi andava a farsi benedire» (164), come ammette il protagonista in un momento cruciale della sua giornata da Ulisse joyciano, quel 3 gennaio 1992 in cui accadono tutte le vicende del racconto. E nel penultimo atto che precede il ritorno dalla sua Penelope, nel mare della desolata tranquillità in cui il pianeta è stato trasformato, Deckard afferma «sono diventato io stesso un essere innaturale» (257).
E i veri androidi? Che cosa sentono, provano, vivono queste macchine quasi perfette, i robot così avanzati della serie Nexus-6? Essi sembrano rivelare la propria natura d’artificio nella facilità con cui si fanno rintracciare e uccidere, nella rassegnazione con la quale cedono ancor prima di combattere, nella consapevole tristezza con la quale sanno che il loro ciclo vitale non va oltre i quattro anni, nella freddezza inquietante e rigida del loro essere, nonostante la forza del loro intelletto: «era come se una particolare e malevola astrattezza pervadesse tutti i loro processi mentali» (179), privandoli della «consapevolezza emotiva», di quella «percezione sensibile del vero significato […] Solo la vuota definizione formale e intellettuale dei singoli termini» (213). Intelligenze puramente sintattiche, prive della profondità semantica e incapaci, pertanto, di stare davvero al mondo. E tuttavia la splendida replicante che è Rachel afferma che «noi androidi non riusciamo a controllare le nostre passioni fisiche e sensuali» (219) e per definire i pensieri di queste entità ho utilizzato più sopra parole come coscienza, tristezza, rassegnazione che sono termini, appunto, umani. Il fatto è che questi androidi sono creature hegeliane, sono «il servo […] divenuto più abile e sagace del padrone» (54), sono l’altro dell’umanità in cui l’umanità si è trasformata, in una ibridazione estrema proprio perché indistinguibile, in una contaminazione che per il solo fatto di essere in Dick tutta negativa non per questo risulta meno significativa del destino di complementarietà verso cui siamo –come specie e come singoli- avviati.
La prova che l’ibridazione costituisca uno dei nuclei generatori del romanzo la si trova nell’apparente digressione che l’Autore dedica a un dipinto: «il quadro mostrava una creatura calva e angosciata, con la testa che pareva una pera rovesciata, le mani premute sulle orecchie e la bocca aperta in un immenso urlo muto. Onde contorte del tormento della creatura, echi del suo grido, fluttuavano nell’aria che la circondava; l’uomo, o la donna, qualunque cosa fosse, aveva finito per esser contenuta nel proprio urlo». Questa descrizione dell’Urlo di Munch esprime certamente e sino in fondo l’angoscia di cui gli umani sono capaci, la disperazione che li attanaglia, la tenebra ancora una volta gnostica che, letteralmente, li invade. E tuttavia il commento di Phil Resch al quadro è il seguente: «secondo me è così che deve sentirsi un droide» (152). È così che deve sentirsi quell’entità protesica, inestricabilmente artificiale e naturale, che siamo noi, ora, noi immersi nel tempo perché di tempo intrisi, da sempre finiti e per sempre limitati.

2 commenti

  • agbiuso

    Dicembre 21, 2020

    La plastica nella placenta
    il manifesto, 19.12.2020

    Le placente umane – anche le placente umane – contengono plastica. Non come un bicchiere contiene il succo d’arancia, no. Piuttosto come il succo d’arancia contiene le vitamine. Ma è un paragone sbagliato, fuorviante. Perché le vitamine ci fanno bene. Anche Antonio Ragusa, primo autore dello studio e direttore di Ostetricia e ginecologia al Fatebenefratelli di Roma, l’ospedale che insieme al Politecnico delle Marche ha condotto la ricerca, ha provato con un paragone: «È come avere un bimbo cyborg, non più composto solo da cellule umane, ma misto tra entità biologica e entità inorganiche».

    Solo che i cyborg sono personaggi della fantascienza, e sono fichissimi. Invece l’idea che un bambino venga nutrito da residui di plastica di bottiglie, smalti per unghie o tracce di cosmetici è spaventosa. Eppure non ci siamo spaventati. Telegiornali e quotidiani non l’hanno data con i toni apocalittici che usano quando falliscono le banche o crollano le borse. Invece dovrebbe farci molta paura. Nessuno sa a che livello di profondità e complessità quelle particelle interferiranno con gli organismi delle prossime generazioni. Se un’indagine si fa su 6 donne e su tutte e 6 si trovano riscontri, allora è molto probabile (e infatti ci sono già altri studi a dimostrarlo) che quelle microplastiche siano in tutti noi: anche nei bambini in età scolare, nelle donne non gravide, negli uomini. Non siamo cyborg, ma, e con una potenzialità molto più alta della norma, malati oncologici, leucemici, adulti sterili, e non si sa – non si sa – cos’altro.

    Tuttavia c’è una riflessione che dovrebbe spaventarci ancora di più. Ed è quella su quanto lontano ci siamo spinti, quanto lontano (da noi stessi e dai nostri interessi di specie vivente) ci ha spinto un sistema orientato eminentemente al mercato, al profitto. Il capitalismo ha iniziato presto a sfoggiare con tracotanza i suoi stessi difetti, il carrozzone di diritti negati, disuguaglianze e iniquità del quale è alla guida. Ma dato che toccava sempre a “qualcuno altro” rispetto alle classi più protette e i cui diritti erano invece garantiti nessuno ha intralciato il cammino del carrozzone.

    Qualche correzione, certo, è stata messa in atto, qualche grande conquista è stata raggiunta. Ma non si aveva mai la chiara esplicitazione della lotta che le persone dovevano condurre contro il capitalismo. La giornata lavorativa di 8 ore anziché le 16 di inizio rivoluzione industriale, ad esempio, così come tutti i diritti dei lavoratori che nel tempo sono stati messi nero su bianco, non viene spiegata nelle scuole come una vittoria dei cittadini contro il capitalismo, ma come una conquista a favore dei diritti dei lavoratori.

    In ogni caso, la narrazione dice che se il capitalismo fa danni li fa “a casa sua” ovvero nei luoghi di lavoro e nei mercati. E gli altri danni? Chi inquina i nostri fiumi e i nostri mari? Chi rende irrespirabile l’aria delle città? Chi consente di costruire edifici che certamente crolleranno causando altrettanto prevedibili morti? Chi sotterra rifiuti tossici in aree agricole? Chi – a monte – consente produzioni tossiche? Chi sversa metalli pesanti in mare? Chi smaltisce illegalmente plastica che si disperderà nell’ambiente? Chi non si pone il problema della contaminazione da packaging del cibo messo in commercio? Chi non rispetta il principio di precauzione quando si tratta di immettere nel sistema vivente una nuova sostanza?

    Di volta in volta si trovano locuzioni tranquillizzanti o colpevoli singoli, ma il capitalismo non viene indicato come responsabile: invece sono tutte vittorie del Capitalismo contro l’Umanità. Sulla responsabilità della plastica nei feti, qualcuno proverà a darla alle donne della ricerca pubblicata da Environment International, e d’altronde c’è chi ha dato la colpa del Coronavirus ai pangolini: siamo bravi a non vedere più in là del nostro naso, ce lo ha insegnato il migliore dei maestri, il capitalismo stesso.

    Eppure qualcuno aveva visto il danno già molto tempo fa: «Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, coscienza ecc – tutto divenne commercio». Era il 1847. Era Karl Marx. Se politica, ricerca e impresa sanno ancora fare il proprio mestiere, non possono che ripartire da lì.

  • agbiuso

    Dicembre 9, 2020

    A proposito di ibridazione, feti ibridati con le microplastiche già nella placenta: “È come avere un bimbo cyborg, non più composto da sole cellule umane”.

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